«Trovo buffi gli eroici soldatini che combattono le battaglie dell’antifascismo, contro un regime finito nella prima metà del secolo scorso e di cui da allora nessuno si è più seriamente proposto la restaurazione». Parole di un’attualità straordinaria pronunciate più di 15 anni fa da Giano Accame, che coglievano la strumentalità palese di chi, agitando fantasmi del passato, cercava di etichettare ogni avversario politico per estrometterlo dal dibattito pubblico, tentando di squalificarlo moralmente e impedendo allo stesso tempo un maturo rapporto con la storia. Lo stesso schema che si ripete oggi e che ha funestato l’agone politico per decenni, per via dell’egemonia culturale degli ambienti progressisti.

Di fronte alle continue accuse dei media e del mondo culturale impegnato a “disumanizzare” gli avversari, la galassia cosiddetta “sovranista”, ma sarebbe meglio dire patriottica, dovrebbe aprire gli orizzonti e non giocare una battaglia puramente difensiva. Basta (in)seguire spasmodicamente gli umori dei social e dell’opinione pubblica, di semplificare fino al ridicolo la complessità della politica, di portare avanti solo la “reazione” alle battaglie “antifasciste”, europeiste e antinazionali dell’altro campo. C’è la necessità di affrontare le storia senza paura di urtare il politicamente corretto, di stimolare dibattiti, di «occupare spazi» culturali, come ricorda Emanuele Ricucci su “Il Giornale”, e soprattutto lanciare proposte e idee per le prossime generazioni.

Proprio la “destra sociale” di Accame, intellettuale gentiluomo capace di aprire dialoghi e ponti con tutti gli ambienti politici in nome dell’interesse nazionale, conserva un patrimonio prezioso e ancora attuale. In primis, l’idea del presidenzialismo, che consentirebbe di rinnovare l’architettura costituzionale e superare quella che troppe volte è apparsa come un’«impotenza istituzionalizzata» del sistema politico. Su questi temi, Accame si impegnò negli anni ’60 a fianco di Nuova Repubblica del partigiano Randolfo Pacciardi e dialogò con Craxi negli anni ‘80, lanciando l’idea di “socialismo tricolore”, che all’amore per la Nazione coniugava una spiccata attenzione per i temi sociali. Da questo punto di vista bisognerebbe invece rilanciare con forza gli aspetti della Costituzione (artt. 35-47) improntati alla programmazione economica, alla funzione sociale della proprietà e alla disciplina pubblica del credito, elementi fondanti del modello italiano. Su queste basi prosperò in passato una “terza via” che si resse su alcuni architravi quali l’Iri, «caso esemplare studiato in varie parti del mondo, perché impostato su logiche di tipo privatistico, libere peraltro dall’ipoteca della successione ereditaria», come disse lo stesso Accame.

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Oggi, le crisi dell’Ilva e dell’Alitalia hanno fatto tornare di moda l’Iri, persino in quegli ambienti di sinistra che furono in prima fila nello smantellamento del sistema misto e delle eccellenze dell’industria pubblica nostrana. Ma negli anni ’90 solo Accame e pochissimi altri seppero predire le conseguenze nefaste che l’abbandono frettoloso del nostro modello economico avrebbe comportato a livello sociale. L’Italia si gettò tra le braccia dell’Europa e del mercato globale perdendo per strada un pezzo della propria identità. Un altro «antidoto alla globalizzazione» può trovarsi nell’articolo 46 e nel tema della partecipazione dei lavoratori, cavallo di battaglia del sindacalismo nazionale dell’Ugl e attuata in Germania con la Mitbestimmung, che potrebbe schiudere nuove opportunità contro le delocalizzazioni e la crisi della politica dei nostri giorni.

Passare dalla teoria alla pratica è strada tortuosa, i primi passaggi dovrebbero essere volti alla stesura di piani industriali, alla creazione di una classe manageriale pubblica sullo stile di quella che sfornò i Menichella e i Saraceno, e infine sulla riscoperta culturale di uomini come Mattei, Olivetti, Rasi, Accame e il suo “socialismo tricolore”.


Francesco Carlesi, storico, è dottorando di ricerca in Studi Politici all’Università Sapienza.