L’endorsement di Trump a Conte ha scatenato in Italia le più disparate speculazioni. La realtà sembra essere semplice e banale:
a) era già noto che Trump avesse apprezzato Conte, soprattutto in occasione dei G7, in quanto premier europeo più amichevole nei suoi confronti;
b) Trump punta molto sul rapporto interpersonale con gli omologhi esteri, ama vezzeggiarli se a lui favorevoli, né si può escludere (anzi lo ritengo probabilissimo) che lo stesso Conte, in occasione del recente incontro a Biarritz, lo avesse sollecitato a un pubblico endorsement per favorirlo;
c) i tweet di Trump non passano al vaglio dei dipartimenti governativi ed è plausibile che egli, personalmente, abbia una cognizione limitata delle dinamiche di politica interna dell’Italia. In ogni caso, esse non sono oggetto del suo tweet che riguarda solo la figura del premier;
d) è comprensibile che, nello scenario che si sta profilando, ossia quello di una maggioranza giallorossa, Trump preferisca il già sperimentato e amichevole Conte ai per lui sconosciuti Cartabia&Co.;
e) l’endorsement a Conte non va letto come sfiducia verso Salvini, così come occasionali apprezzamenti o messaggi distensivi del Presidente americano verso Macron non significano ostilità per la Le Pen: semplicemente Trump si muove sul piano istituzionale. Parla con e dei capi di governo, difficilmente si avventura nella dialettica interpartitica degli altri Stati (ricordo poche eccezioni, ad esempio a favore di Farage col quale ha però un rapporto specialissimo);
f) e comunque non c’è nessun asse ferreo tra Trump e Salvini: i due non si sono mai incontrati (eccetto la fuggevole stretta di mano tre anni fa a Philadelphia). La Lega nel governo gialloverde non aveva né Presidenza, né Esteri né Difesa: di conseguenza possedeva ridotte opportunità di contatti istituzionali con gli Usa. Infine, quello che fino a pochi anni fa era un piccolo partito regionale non si è ancora adeguato appieno alla nuova dimensione, ad esempio stringendo rapporti regolari e sostanziali coi repubblicani Usa: i viaggi negli Usa di Salvini, Giorgetti o Picchi sono stati utili, ma la politica estera non si fa spot, richiede un lavoro strutturato per creare canali, intese e fiducia.
Daniele Scalea è presidente del Centro Studi Machiavelli.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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