Isis 2.0. La fine del “califfato” non è la fine della minaccia jihadista è il diciassettesimo Dossier del Machiavelli, opera di Laura Cianciarelli.

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SOMMARIO ESECUTIVO

  • Lo Stato Islamico è pressoché sconfitto a livello territoriale. Tuttavia, la fine del califfato non implica la fine della minaccia jihadista.
  • In Iraq, l’Isis si sta già riorganizzando, trasformandosi in una rete terroristica clandestina, che mira a ottenere nuovo seguito alimentando le tensioni settarie e minando le attività di stabilizzazione post-bellica.
  • Il post-Isis, o Isis 2.0, costituisce una minaccia anche per l’Europa sotto almeno tre profili: il ritorno dei foreign fighters, il prossimo rilascio di detenuti radicalizzati e l’infiltrazione di cellule dormienti.
  • L’Italia condivide le medesime preoccupazioni europee sulla sicurezza, rappresentate, in particolare, dal ritorno dei foreign fighters e dai cosiddetti “radicalizzati in casa” – homegrown terrorists –.
  • La capacità di adattamento dello Stato Islamico dimostra che la guerra contro il terrorismo jihadista non può essere vinta limitandosi a sconfiggere le singole cellule terroristiche. Si rende, dunque, necessaria l’attuazione di politiche di contrasto all’ideologia, attraverso programmi di prevenzione e di de-radicalizzazione.

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[showhide type=”testo” more_text=”Mostra di più” less_text=”Mostra di meno”]1. L’Isis oggi: quale minaccia?

A quasi cinque anni dalla sua manifestazione, nonostante sia ormai giunto alle sue battute finali sotto il profilo territoriale, l’Isis non può essere considerato definitivamente sconfitto. Vi sono almeno due ragioni per cui la liberazione dei territori occupati dall’organizzazione terroristica non può coincidere con la fine della minaccia jihadista:
anzitutto, la perdita dei territori da parte dell’Isis ha causato la dispersione in luoghi non noti dei propri combattenti, i quali – ben addestrati e radicalizzati – continuano a mantenere viva l’ideologia dello Stato Islamico;
in secondo luogo, e in maniera più generale, la sconfitta dell’Isis, così come di qualsiasi altro gruppo terroristico appartenente alla stessa matrice dottrinale, non segna la fine dell’ideologia a cui si ispira, le cui ragioni di persistenza richiedono un approfondimento specifico.
Le battaglie per la liberazione dei territori sotto il controllo del califfato hanno causato la fuga di numerosi jihadisti, i quali sono riusciti a evitare la cattura, nascondendosi al confine tra Siria e Iraq, in aree desertiche. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aggiornati al febbraio 2019, i militanti dello Stato Islamico ancora presenti in Siria e Iraq sarebbero stati tra i 14.000 e i 18.000, 3.000 dei quali sarebbero foreign fighters. La maggior parte di loro si nasconderebbe all’interno dell’ex territorio del califfato, mentre solo 1.000 – 1.500 jihadisti avrebbero combattuto nel villaggio di Baghouz, teatro dell’ultima battaglia contro l’Isis.
La maggioranza dei jihadisti avrebbe trovato rifugio in tunnel e rifugi sotterranei e continuerebbe a operare clandestinamente nelle aree desertiche della Siria orientale e dell’Iraq occidentale, pronta a far rinascere il califfato al momento opportuno, secondo un mutamento di strategia già avviato dall’Isis a partire dal 2016. In poco tempo, infatti, lo Stato Islamico è passato dall’essere un’organizzazione di insorti, con roccaforti fisse, a una rete terroristica clandestina, diffusa nella regione e all’estero. Concretamente, tale transizione è avvenuta attraverso una decentralizzazione della struttura di leadership che, pur restando gerarchica, ha conferito maggiore autonomia alle singole cellule. Un ulteriore cambiamento, reso necessario dal confronto impari delle forze e dalle continue sconfitte, si è manifestato anche nella scelta di condurre azioni violente meno concentrate e più discontinue, vicine alla guerriglia.
Tale inversione di rotta è emblematica del carattere ciclico del terrorismo jihadista, in grado di adattarsi velocemente alle minacce esterne, in vista di una rinascita. L’Isis aveva già dimostrato di possedere questa abilità dieci anni fa. Intorno al 2010, dopo essere stato distrutto dalle forze americane, quello che sarebbe divenuto successivamente noto come Stato Islamico dell’Iraq e del Levante aveva reagito ritirandosi e si era rafforzato lavorando nell’ombra, a tal punto da riuscire, soltanto 4 anni dopo, nel 2014, a conquistare un territorio di 55 mila km quadrati, governando su una popolazione di circa 8 milioni di persone.
Oggi, accantonato ma non abbandonato il progetto dell’istituzione di un califfato fisico, l’Isis attraversa una fase di transizione e adattamento. In Iraq, come si è detto, l’organizzazione si è trasformata in una rete nascosta, che conduce azioni terroristiche mirate sul territorio. Lo stesso sta avvenendo in Siria, dopo la liberazione di Baghouz. Poiché al di là della temporanea battuta di arresto, l’obiettivo dell’Isis rimane il medesimo, esso starebbe riapplicando una strategia simile a quella risultata vincente in passato, in particolare:
a) alimentando le tensioni settarie e ponendosi come unica possibilità di salvezza per le comunità marginalizzate;
b) minando le attività di stabilizzazione post-bellica di Iraq e Siria, colpendo gli sforzi di ricostruzione delle infrastrutture e ostacolando i progressi economici.
A ciò si aggiunga il costante lavoro di reclutamento di nuovi seguaci che, in questo frangente, vengono scelti tra gli sfollati provenienti, in particolare, dai governatorati iracheni di Diyala, Salah al-Din e Ninive e tra i detenuti delle prigioni sovraffollate dell’Iraq.
L’organizzazione sta cercando di espandersi anche al di fuori del Medio Oriente. Nel 2017, tra i 7.000 e gli 8.000 jihadisti hanno raggiunto l’Afghanistan, il Sud-est asiatico, l’Africa occidentale e la Libia e, in piccola parte, anche la penisola del Sinai, lo Yemen, la Somalia e il Sahel. Stando ai dati diffusi nel febbraio 2019 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2018, il flusso di jihadisti verso le suddette zone di guerra sarebbe diminuito.
Tuttavia, la minaccia rappresentata dai militanti dell’Isis rimane alta, trattandosi di individui legati tra loro, in grado di creare una rete globale, con conseguenze al momento impossibili da prevedere.
Non è da escludere, infine, la possibilità che i membri dell’Isis lascino l’organizzazione per unirsi ad altri gruppi terroristici, trasferendo loro le competenze acquisite sotto lo Stato Islamico. In questo caso, il timore, espresso anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è che la flessibilità mostrata dai jihadisti nello spostarsi da un gruppo all’altro possa rafforzare i movimenti affiliati ad Al-Qaeda o, addirittura, portare alla nascita di nuove organizzazioni.

2. Il post-califfato: quali conseguenze per l’Europa?

La fine dello Stato Islamico e la conseguente dispersione dei suoi militanti costituiscono una questione spinosa anche per l’Occidente, verso il quale tentano di confluire foreign fighters e terroristi sotto copertura. In particolare, il post-Isis, o per meglio dire l’Isis 2.0, può costituire una minaccia per la sicurezza europea almeno sotto tre profili:
a) il ritorno dei foreign fighters, inclusi donne e bambini;
b) il prossimo rilascio di detenuti radicalizzati, che stanno terminando di scontare la pena in carceri europee per reati connessi al terrorismo;
c) l’infiltrazione di cellule dormienti.

I foreign fighters

Tra il 15 marzo 2011, data di inizio della guerra civile siriana, e il 2016, i foreign fighters europei che si sono uniti alle fila dello Stato Islamico sono stati un numero compreso tra 3.922 e 4.294. Di questi, il 22-24% sarebbe già rientrato in Europa. I Paesi che hanno registrato il maggior numero di partenze (un dato compreso tra l’83 e il 91%) e di “ritorni” (1.192) sono Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda e Gran Bretagna (dati europei aggiornati al 2018). Secondo quanto riportato dall’intelligence italiana (dati aggiornati al febbraio 2019), i foreign fighters sarebbero più numerosi, attestandosi sulle 8000 unità. Di questi, gli europei provenienti dallo spazio Schengen sarebbero circa 2.600, mentre 500 quelli provenienti dall’area balcanica. I returnee del Vecchio Continente sarebbero circa 1.700, dei quali 400 dei Balcani. La mobilità dei combattenti stranieri è stata favorita da reti di facilitazione riconducibili allo Stato Islamico, che può contare su collegamenti extraregionali ramificati.
In sede europea, la questione è presa in esame sotto quattro profili: la minaccia alla sicurezza, il ritorno delle famiglie dei foreign fighters, la prevenzione della radicalizzazione e le responsabilità penali dei jihadisti.
Il rientro delle mogli e dei figli dell’Isis costituisce una questione particolarmente rilevante dal punto di vista europeo, dal momento che, verosimilmente, essi faranno ritorno in Europa prima degli uomini. Negli ultimi mesi, l’attenzione si è rivolta sul grado di coinvolgimento delle mogli all’interno dell’organizzazione terroristica. Recenti studi sull’argomento, hanno dimostrato che, a partire dalla battaglia per la liberazione di Mosul, iniziata nell’ottobre 2016, l’organizzazione – fino a questo momento esclusivamente patriarcale – avrebbe spinto le donne a ricoprire ruoli militari attivi. Si tratta di donne indottrinate e addestrate militarmente che, essendo spesso insospettabili, potrebbero costituire sempre più una risorsa fondamentale per l’Isis.
Altra questione rilevante è il rimpatrio dei figli dello Stato Islamico. All’interno del califfato, molti minori sopra i 9 anni hanno ricevuto un addestramento militare e sono stati impiegati attivamente nei conflitti. A ciò si aggiunga che i figli dell’Isis, nati e cresciuti sotto il califfato, sono stati indottrinati per diventare la futura generazione di jihadisti. A differenza dei bambini reclutati da altre organizzazioni terroristiche, perlopiù orfani e privi di legami, i “cuccioli di leone” del califfato sono stati spinti ad abbracciare la causa dell’Isis proprio dai genitori. Questa fondamentale differenza costituisce una sfida molto complessa per i Paesi d’origine, che dovranno capire quale tipo di “minaccia” possano rappresentare e quali risposte sociali e giuridiche possano essere approntate.

I detenuti radicalizzati
Secondo quanto affermato da Jürgen Stock, segretario generale dell’Interpol, un ulteriore pericolo è rappresentato dai detenuti radicalizzati, ovvero individui che si trovano in carcere perché sospettati di terrorismo o di legami con gruppi terroristici. Condannati a due o cinque anni di carcere – per «sostegno ad attività terroristiche» – la loro pena detentiva finirà entro al massimo due anni. Per loro il rischio di recidiva è molto alto.

Le cellule dormienti
Con tale espressione si vuole indicare quegli individui ideologizzati, che vivono in Europa sotto copertura, aspettando indicazioni dall’organizzazione terroristica oppure il momento più appropriato per colpire. Questi “agenti operativi” dell’Isis, pronti a eseguire gli ordini del gruppo, sono stati formati dal ramo esterno dei servizi segreti dello Stato Islamico e sono dunque in grado di organizzare attacchi terroristici.
Per svolgere questo compito, lo Stato Islamico ha reclutato «ragazzi dall’aspetto europeo» e ha elaborato una complessa strategia25, che consente ai “prescelti” di non essere più cercati dai rispettivi Paesi di origine.
Infine, accanto ai pericoli rappresentati dall’Isis 2.0, l’Europa deve affrontare un’ulteriore minaccia, rappresentata dai c.d. radicalizzati in casa – gli homegrown terrorists. Secondo il report annuale dell’Interpol diffuso nel 2018, è in aumento il rischio di attacchi a comunità lontane dai conflitti. I fautori di tali azioni possono essere soggetti singoli o organizzati in micronuclei, i quali aderiscono a ideologie estremiste e se ne fanno esecutori, rendendo il fenomeno totalmente imprevedibile. I collegamenti tra combattenti e radicalizzati presenti nel Vecchio Continente e tra i soggetti presenti in Italia con estremisti basati all’estero rimangono un’incognita da non sottovalutare.
I dati dell’EU Terrorism Situation & Trend Report (TE-SAT) 201827 dell’Europol mostrano come, nel 2017, gli attacchi jihadisti avvenuti in Europa sarebbero stati commessi principalmente dai radicalizzati in casa, nella maggior parte dei casi lupi solitari, che si sono radicalizzati nei Paesi in cui risiedono. Pur avendo profili molto vari, si tratta di persone che sono nate o hanno trascorso la maggior parte della loro vita in Europa.
Sono individui, in molti casi, già noti alla polizia, anche se non per attività terroristiche, il cui processo di radicalizzazione è avvenuto attraverso canali digitali, in particolare i social media. La propaganda sul web risulta molto pericolosa perché costituisce un richiamo verso individui non necessariamente radicalizzati, ma talora in condizioni di disagio personali, che li spinge a emulare il modus operandi dei jihadisti.

3. Il post-califfato: quali rischi per l’Italia?

Il fenomeno del terrorismo jihadista costituisce una minaccia anche per l’Italia. Già all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2011, il governo ha rafforzato l’azione di monitoraggio e di contrasto all’interno dei confini nazionali, volta a prevenire le minacce alle istituzioni democratiche28. Le politiche in materia prevedono sia strategie di contrasto interno, realizzate grazie alla sinergia tra il Ministero dell’Interno e l’intelligence, sia strategie comuni a livello europeo e internazionale.
Al momento, nel contesto del terrorismo jihadista, le minacce all’Italia sono rappresentate in particolare:
a) dal ritorno dei foreign fighters;
b) dai cosiddetti “radicalizzati in casa” – homegrown terrorists.

Il ritorno dei foreign fighters
Il Ministero dell’Interno italiano ha comunicato che «il numero di persone partite o, a diverso titolo, collegate all’Italia e coinvolte nelle dinamiche del conflitto siro-iracheno e in Libia ammontava, al 31 dicembre 2017, a 131 unità di cui 24 reduci e 44 deceduti». Secondo gli ultimi dati dell’antiterrorismo e dell’intelligence italiani, il numero di foreign fighters italiani – ossia legati al Paese per nascita, permesso di soggiorno o residenza – risulta più contenuto rispetto ad altri Stati europei, attestandosi sulle 138 unità. Di questi, 47 sarebbero morti nei territori del califfato, mentre 28 avrebbero fatto rientro in Italia.
Nonostante il numero ridotto di foreign fighters italiani, ciò che maggiormente preoccupa è il loro profilo, che li rende «potenziali veicoli di propaganda e proselitismo, nonché portatori di esperienza bellica e di know-how nell’uso di armi ed esplosivi». La profonda ideologizzazione e le competenze acquisite sul campo di battaglia, li rendono capaci di condurre azioni terroristiche in patria e diffondere l’ideologia dell’Isis, reclutando nuovi jihadisti e reperendo nuove fonti di finanziamento.
Grazie anche all’attuazione di alcune risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite e delle direttive europee, l’Italia ha potuto intensificare i controlli frontalieri e la collaborazione internazionale – con un particolare accento sullo scambio di informazioni operative. Il Paese opera in costante raccordo con i database dell’Interpol e compie un continuo monitoraggio dei rischi collegati alla possibile infiltrazione di jihadisti nei flussi dell’immigrazione illegale. A questo proposito, nel maggio 2018, il governo italiano ha recepito, con Decreto Legislativo n.53/201834, la direttiva europea 2016/681 sul Passenger Name Record (PNR), l’uso dei dati del codice di prenotazione. Secondo tali norme, le compagnie aeree sono tenute a comunicare i dati dei passeggeri, per tutti i voli tra l’Unione Europea e i Paesi terzi, all’Unità di Informazione sui Passeggeri (UIP), che a sua volta li trasferisce all’Autorità nazionale competente, estendendo così il campo del monitoraggio a supporto della cosiddetta travel intelligence.

Gli homegrown terrorists

Una seconda minaccia è rappresentata dai c.d. “radicalizzati in casa”, ovvero da individui che si sono ideologizzati all’interno del Paese a causa della suggestione di personalità estremiste o alla propaganda su internet. Il web, in particolare i social network e i canali di messaggistica, è lo strumento maggiormente utilizzato dai gruppi estremisti, sia per attività di proselitismo sia per lo scambio di informazioni e materiale apologetico, in vista di possibili attacchi. Non esiste, tuttavia, un’unica tipologia di indottrinati su internet, il cui background sociale e culturale può essere, al contrario, assai vario. Nonostante la grande eterogeneità tra i soggetti radicalizzati, questi presentano tuttavia alcuni tratti ricorrenti, tra i quali «l’origine nordafricana, la vicinanza, virtuale o fisica, a ‘mentori’ radicali, l’attivismo online su siti e/o forum d’area, l’utilizzo di sostanze stupefacenti».
Una strategia ricorrente al fine di sventare possibili attacchi terroristici da parte dei “radicalizzati in casa” si basa sul tempestivo intervento nella delicatissima fase del passaggio tra la radicalizzazione e l’attivazione violenta. Si tratta di un momento fondamentale, che consente talvolta persino di recuperare il soggetto, attraverso “percorsi di disingaggio”.
In alcuni casi, valutati singolarmente e in modo approfondito, si ricorre all’espulsione dell’individuo. Lo strumento delle espulsioni per motivi di ordine e sicurezza pubblica ha assunto sempre più importanza a partire dal 2015. Nonostante la sua innegabile efficacia, tale modalità di contrasto alla minaccia jihadista deve confrontarsi con alcuni limiti, legati all’inapplicabilità della misura ai soggetti minorenni e ai cittadini italiani.
La capacità di mutazione dimostrata dallo Stato Islamico rende evidente che la guerra contro il terrorismo jihadista non possa essere vinta limitandosi a sconfiggere le singole organizzazioni terroristiche. Isis, Al-Qaeda, Boko Haram o Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin (Jnim) rappresentano solo alcune delle possibili incarnazioni della vera minaccia soggiacente, ovvero l’ideologia del salafismo jihadista, i cui principi vengono magistralmente adattati alle esigenze sia dei singoli sia dei gruppi estremisti.
Per questo, al fine di eradicare tale fenomeno, oltre alla sconfitta militare dei gruppi estremisti, che costituisce in ogni caso un aspetto fondamentale della lotta al terrorismo, a livello interno, si rende necessaria un’azione più incisiva dei Paesi occidentali nel campo del contrasto dell’ideologia, attraverso l’istituzione di politiche pubbliche che comprendano:

a) il monitoraggio dei potenziali centri di diffusione dell’estremismo, il rafforzamento del ruolo dell’educazione e la diffusione degli strumenti necessari per favorire l’integrazione e il dialogo interculturale e interreligioso;
b) l’elaborazione di programmi di de-radicalizzazione e reinserimento nella società di appartenenza. In merito ai programmi di de-radicalizzazione, è importante considerare l’eterogeneità degli individui ideologizzati, per i quali potrebbero rendersi necessarie valutazioni caso per caso.

Il sistema italiano, al passo nella protezione del Paese dalla minaccia costituita dai foreign fighters e dai “radicalizzati in casa”, risulta tuttavia carente nella prevenzione della diffusione delle ideologie estremiste e nel processo di de-radicalizzazione. Al momento, in Italia non ci sono centri di de-radicalizzazione e nemmeno leggi38 che regolino il fenomeno.

4. Conclusione

L’Isis è stato definitivamente sconfitto in Siria e in Iraq, dopo quasi cinque anni dalla proclamazione del califfato. La parabola discendente dello Stato Islamico, con la liberazione dei territori da esso occupati, non implica tuttavia la fine della minaccia jihadista.
Negli ultimi trent’anni si è assistito alla nascita e all’annientamento di più di un gruppo fondamentalista islamico. La sconfitta militare di tali organizzazioni o l’uccisione dei loro leader non ha comportato la fine di tali movimenti. Da Al-Qaeda all’Isis, passando per Boko Haram e Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin (Jnim), sono numerose le organizzazioni terroristiche che inneggiano a un ritorno del califfato islamico.
Sebbene diverse fra loro sotto il profilo strutturale e operativo, esse sono accomunate dall’ideologia soggiacente, ossia il salafismo jihadista. Nei decenni, varie correnti si sono ispirate a questa dottrina: si pensi, ad esempio, alla Fratellanza musulmana in Egitto o al movimento Anṣār al-Sharī‘a in Tunisia, fino ad arrivare alla deriva estremista dello Stato Islamico. Il salafismo rappresenta dunque, a tutti gli effetti, l’ideologia fondativa dello Stato Islamico, all’interno del quale, per la prima volta, essa viene concretamente applicata nella sua forma più radicale.
Tale lettura radicale dell’Islam tiene uniti gruppi, organizzazioni e individui, fornendo loro una dottrina trasversale e globale. L’universalità del suo messaggio consente ai singoli movimenti di auto-organizzarsi, assumendo tratti peculiari, senza la necessità stringente di un coordinamento. Pertanto, i risultati conseguiti contro una singola entità jihadista non comportano la sconfitta tout court del radicalismo islamico, nonostante ne rappresentino un aspetto fondamentale.
Il terrorismo jihadista, dunque, si contraddistingue per essere un fenomeno ciclico: le reti terroristiche rispondono alle sconfitte riorganizzando la loro struttura interna e le loro tattiche, contando – nella preparazione di nuove offensive – sul “effetto sorpresa”. [/showhide]
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Dossier-17-Isis-2.0

Interprete di arabo e inglese. Analista geopolitico (focus su Medio Oriente, Nord Africa, sicurezza e difesa).