Nel panorama degli estremismi del XX secolo, la disumanizzazione dell’altro ha rappresentato uno strumento per la legittimazione della violenza e dell’omicidio, un mezzo di privazione dell’identità e dell’umanità di un nemico, scelto, in alcuni casi pianificato, con la finalità di perseguirlo fino ad arrivare anche all’estremo tentativo di sterminarlo.

Il regime nazista incarna certamente la rappresentazione più nitida di come questa costruzione psicologica abbia avuto un ruolo da asse portante della propria propaganda contro gli ebrei, già catalizzatori di odio nell’Europa Orientale del 1900 e vittime di attacchi violenti, i pogrom.

Gli ebrei erano rappresentati dai nazisti come topi, parassiti, insetti, agenti patogeni da eliminare per garantire la “purezza” della società tedesca. La macchina dello sterminio fu preceduta da una distruzione simbolica dell’identità umana dell’ebreo, ottenuta attraverso la stampa, il cinema (come nel noto film di propaganda Der ewige Jude), le vignette satiriche e l’istruzione. I soggetti di origine ebrea venivano spogliati di ogni umanità, diventando così corpi estranei da estirpare, una minaccia da annientare.

Nella comunicazione attuale sono state rintracciate mutazioni di tale raffigurazione impiegate nell’ambito della propaganda anti-israeliana, in particolare nelle organizzazioni radicali e nei gruppi terroristi. L’immaginario grafico e la narrazione ricalcano gli stessi tratti disumanizzanti per delegittimare l’esistenza dell’ebreo e fornire così un’attenuante all’odio antisemita.

Comunicazione nella lotta armata

Nell’Europa post-bellica, nell’ambito della lotta armata interna agli Stati,  i gruppi terroristi hanno adottato forme di disumanizzazione che fornivano una giustificazione all’odio, una forma di comunicazione e narrazione che assumeva anche la funzione di combustibile per alimentare lo scontro sociale.

La strategia di spersonalizzazione fu utilizzata sia nei terrorismi di matrice ideologica che in quelli legati alle lotte indipendentiste.

Le Brigate Rosse in Italia e la RAF (Rote Armee Fraktion) in Germania descrivevano i loro obiettivi come ingranaggi del potere borghese, magistrati, manager e membri delle Istituzioni venivano privati della loro individualità diventando parte del sistema oppressore da scardinare. I comunicati dei gruppi definivano le vittime come mezzi, nel ruolo di esecutori di una funzione, mai come persone, riducendo l’assassinio a un’azione tecnica e inevitabile, minimizzando la gravità dell’atto criminale.

Le Brigate Rosse chiamavano i loro bersagli “nemici del proletariato”, “traditori della classe operaia”, “servi del potere”, gli omicidi venivano rivendicati come atti di giustizia rivoluzionaria necessari alla causa, guidati da un ipotetico fine morale superiore. L’elaborazione mentale del processo di demonizzazione, oltre a fornire la narrativa utile alla propaganda, assumeva le caratteristiche di collante interno ai gruppi, con lo scopo di fomentare comuni sentimenti di repulsione e di edulcorare la percezione delle azioni terroriste.

In Spagna fece largo utilizzo della spersonalizzazione, per la propria propaganda e influenza, l’organizzazione terrorista ETA (Euskadi Ta Askatasuna) nell’ambito di una strategia del terrore legata all’indipendentismo basco e alla sinistra abertzale, cioè simpatizzante per la causa basca.

ETA adottò una sistematica disumanizzazione e persecuzione nei confronti delle Fuerzas y Cuerpos de Seguridad del Estado spagnoli, i suoi obiettivi erano la Guardia Civil e la Policia Nacional, etichettate con l’espressione basca “txakurrak”, ovvero “cani”. Questo termine assumeva un valore simbolico di riduzione dell’avversario a un essere privo di dignità in quanto vile servo di uno Stato oppressore, legittimandone la sua eliminazione come atto di “giustizia rivoluzionaria”.

Questo linguaggio veniva diffuso anche attraverso i murales nei Paesi Baschi, le pubblicazioni militanti e i cori di piazza, e serviva a creare un immaginario condiviso in cui il nemico istituzionale non era un uomo, ma uno strumento repressivo colpevole di agire come invasore.

La costruzione dell’odio

Fuori dall’Europa uno dei conflitti più significativi nel corso del quale la pratica di demonizzare l’obiettivo condusse ad azioni terrificanti è rappresentato dal genocidio del Ruanda. La propaganda hutu, diffusa soprattutto attraverso la Radio Mille Collines, definiva i tutsi “scarafaggi”, spingendo la popolazione alla loro eliminazione fisica, all’umiliazione pubblica, anche attraverso gli stupri di massa e torture che venivano praticati persino di fronte ai familiari delle vittime.

Ricorre in questo conflitto l’utilizzo della retorica animale a precedere un orribile sterminio, questa funge da anestetico della morale comune e da acceleratore di uno scellerato odio collettivo.

Nel terrorismo jihadista contemporaneo, Al-Qaeda e l’ISIS hanno utilizzato sistematicamente questa pratica. I nemici, che siano occidentali, sciiti, yazidi, o musulmani non integralisti, vengono descritti come “crociati”, “maiali”, “infedeli”, “apostati” o “serpenti”.

I materiali di propaganda diffusi sui social, nei video o nelle riviste, non solo legittimano la violenza contro questi soggetti, ma celebrano la loro disumanizzazione come prova della purezza dell’Islam combattente. I prigionieri inginocchiati prima della decapitazione non sono presentati come esseri umani, ma come incarnazioni del male, oggetti sacrificali nel rituale di una vendetta ideologico-religiosa che eleva l’assassino a una sorta di giustiziere.

Anche in alcuni conflitti africani contemporanei, la disumanizzazione funge da innesco e da amplificatore della violenza etnica e religiosa. In Mali, Sudan, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo, milizie armate e signori della guerra ricorrono spesso a una semantica che riduce l’altro a impuro, eretico.

I bambini-soldato, sia in questi contesti che nella formazione dei nuovi combattenti dell’ISIS, vengono indottrinati con immagini che mirano a costruire una visione del nemico identificabile nella figura dell’infedele, a normalizzare forme di violenza estrema che facilitano la loro partecipazione a crimini orrendi, cancellando ogni empatia residua.

La disumanizzazione, al di là delle ideologie che la veicolano, ha una struttura ricorrente che può essere rintracciata come elemento comune nelle varie tipologie di propaganda: l’attribuzione di tratti animali o l’immagine del nemico come parassita, la negazione della soggettività e dell’identità personale, unite alla legittimità dell’eliminazione dell’altro come soluzione al conflitto o come segno di purificazione della società.

Secondo autori come Philip Zimbardo (L’effetto Lucifero) e Zygmunt Bauman (Modernità e Olocausto) la disumanizzazione è uno strumento cognitivo per superare i limiti etici legati alla violenza e un modo per costruire consenso interno nei gruppi radicalizzati, un pilastro ricorrente nelle dinamiche del terrorismo, dei genocidi e dei conflitti asimmetrici.

Zimbardo la definisce come una sorta di cataratta corticale che obnubila il pensiero di un individuo e ne altera la percezione dell’altro, fornendone una visione di qualcosa di subumano.

Essa non solo precede e giustifica la violenza, ma struttura il pensiero collettivo e cementa l’identità del gruppo, è quindi il suo contrasto un possibile metodo per smantellare la semantica dell’odio proponendo la protezione delle vittime come principio cardine della civiltà umana.

La condivisione della dignità che appartiene a ogni essere umano può arginare la deriva ideologica che genera azioni deplorevoli, la consapevolezza che ogni persona, sia pure un nemico, sia depositaria di dignità e umanità.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

rita angelini
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Laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Niccolò Cusano, frequenta attualmente il Master in Analista del Medio Oriente presso il medesimo ateneo. Ha frequentato vari corsi di approfondimento sull’Africa Subsahariana e sul terrorismo internazionale.