di Loris Puccio Conti

Qual è il nucleo teorico del saggio e chi è Carl Rhodes

L’adesione da parte delle grandi imprese su posizioni woke consente loro di incrementare i propri profitti e, alla lunga, di sostituirsi alle istituzioni democratiche e conservare le disuguaglianze socioeconomiche. Così la ricerca del guadagno prevale sul perseguimento del bene comune mentre l’antisessismo, l’antirazzismo e l’ecologismo vengono depotenziati in slogan pubblicitari e sottratti dalla loro originaria cornice popolare e antisistema. Questo è il nucleo teorico di Capitalismo Woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, l’ultimo saggio di Carl Rhodes pubblicato in Italia nel settembre scorso da Fazi Editore (pp. 314, € 20,00).

Rhodes è professore di Teorie dell’organizzazione e preside della UTS Business School presso la University of Technology di Sydney nonché autore di saggi tradotti in svariate lingue e di articoli apparsi su “The Guardian”, “Fast Company” e altre testate di caratura internazionale. In questo suo ultimo libro esprime esplicitamente la propria adesione su posizioni liberal e, nel finale, invita il lettore a professare un autentico wokismo e ad opporre strenua resistenza contro la presunta oppressione sistemica di carattere razziale, sessuale e classista.

L’edizione italiana del saggio è preceduta da una prefazione di Carlo Galli, professore dell’Alma Mater Università di Bologna e assiduo frequentatore di scranni parlamentari e ambienti partitici di sinistra. Più che “prefazione” sarebbe meglio, però, definirla “celebrazione”: Galli espone, infatti, una sintesi del saggio con elogi altisonanti – «gran bel libro […] argomentazioni acute e ragionevoli, impeccabili, del tutto condivisibili, a cui non c’è da aggiungere nulla» (p. IX). Tornano in mente le immagini del satrapo adulatore del despota, della periferia subordinata alle regioni più centrali di un impero stanco, multietnico e quasi prossimo al tramonto (al giorno d’oggi a carattere woke e non più ellenistico o persiano).

Insulti al mondo conservatore, una faziosità e una ingenuità mal celate

Capitalismo Woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia rappresenta una critica tutta interna al mondo woke e sostiene tutti i “piagnistei” del politicamente corretto.

Rhodes, infatti, dedica costantemente insulti agli antiwokeisti, a un mondo che «attacca le idee di sinistra ovunque essi si presentino […] con una spavalderia tutta conservatrice» (p. 117). Definisce sarcasticamente i propri avversari come «combattenti della cultura di destra» (p. 226), provvisti del «tipico sarcasmo di destra, sprezzante nonché male informato» (p. 136) e sempre pronti a esibirsi in «reazioni conservatrici caratterizzate da affermazioni particolarmente sediziose e prive di fondamento» (p. 159). L’autore punta, poi, il dito contro il governo di destra australiano e i suoi «pregiudizi dogmatici e minoritari» (p. 160), contro Donald Trump e «il suo tipico stile fatto di insulti da bullo di scuola» (p. 197). E, ancora, liquida le opinioni di Piers Morgan, personaggio televisivo britannico, a uno “sbraitare” e ritiene che nel 2019, di fronte al nuovo spot pubblicitario della Gillette, «in tutto il mondo, i reazionari di destra come Morgan fremevano di rabbia» (p. 217).

Si potrebbe proseguire e riportare ancora altri epiteti sprezzanti. Ma a sorprendere ancora di più del saggio di Rhodes è l’ingenuità, tipicamente liberal, intorno allo svolgimento delle battaglie politiche. Più precisamente, appare più o meno implicita la convinzione che in Occidente la sfera politica e sociale sia regolata da procedure limpide e lineari, da certe “regole del gioco” che consentirebbero agevolmente le variazioni dell’agenda pubblica. Nella fattispecie, secondo Rhodes, le rivendicazioni woke proverrebbero dal basso, sarebbero capaci di per sé di una straordinaria efficacia e di una diffusione di ordine planetario e solo in un secondo momento verrebbero fatte proprie dalle multinazionali per opportunità di marketing, di profitto e, alla lunga, come stratagemma per preservare lo status quo.

Così, seguendo direttamente le parole dell’autore, nel 2018 Greta Thunberg, «tutta sola, si era seduta fuori dal Parlamento svedese con accanto un cartello fatto in casa su cui aveva scritto “SCIOPERO SCOLASTICO PER IL CLIMA”». Il suo è stato un «semplice atto di resistenza» in grado di dare «vita a un movimento di protesta globale contro l’ostinata inerzia dei governi e delle imprese sul cambiamento del clima» e, perfino, di incutere “timore” ai “potenti” e di insegnare «alla delegazione internazionale di funzionari governativi il significato della democrazia» (pp. 132-133). Sulla stessa linea d’onda, il movimento #MeToo, «grazie al lavoro particolarmente zelante e spesso ingrato delle attiviste vere, è diventato un movimento sociale globale» (p. 224) mentre il «successo» delle manifestazioni di Black Lives Matter «riflette un cambiamento nell’opinione politica generale nei confronti del razzismo» (p. 196).

La realtà delle cose è esattamente l’opposto rispetto a quanto tratteggia ingenuamente Rhodes. In questa parte del globo, infatti, vigono i meccanismi acquitrinosi di un “gioco” politico che consente solo ad alcune rivendicazioni sociali – sicuramente non le più diffuse tra le frange meno abbienti della popolazione – di assumere un largo eco nei dibattiti pubblici e di imporsi nell’agenda politica dei governi. In questo contesto le multinazionali non arrivano in un secondo momento a aderire alle istanze woke ma, anzi, ne costruiscono le fondamenta e ne consentono la diffusione.

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Dai più alti piedistalli delle accademie d’Occidente lo sguardo di Rhodes può essere offuscato dalla nebbia e non conoscere le difficoltà di un attivismo autenticamente antisistema, gli sforzi di uno studente per allestire un giornalino di critica sociale, l’impossibilità per un movimento ai margini di imporre all’attenzione pubblica argomenti di assoluta serietà come la sovranità, il lavoro, la prima casa, la salute e il tramonto delle identità. Così, nel presente stato delle cose cadono praticamente nell’oblio i disagi dei ceti medi; vengono demonizzate le coraggiose prese di posizione “novax” di Novak Djokovic; risultano sconosciute ai più le sofferenze degli armeni e degli altri popoli figli di una divinità massmediatica minore (anche solo gli stessi ucraini orientali prima del febbraio 2022).

In una parola, è possibile considerare il saggio di Rhodes come esempio di un approccio, tipico delle accademie e degli ambienti semicolti, di indolenza intellettuale, volto a contentarsi delle spiegazioni comode, superficiali e manichee.

Alcune linee guida su come impostare un’autentica critica al capitalismo woke

Rhodes coglie nel segno quando denuncia la fragilità delle istituzioni democratiche e l’istinto di autoconservazione del capitalismo woke. Tematiche simili, però, devono essere ricondotte più in profondità, oltre all’esterna adesione delle aziende al wokeismo e, alla lunga, al di là della stessa filosofia liberale, delle sue indagini rivolte esclusivamente ai fenomeni, alle forme e alle procedure.

In tal senso, è possibile considerare lo spirito woke come l’ultima incarnazione assunta dal capitalismo. Così quest’ultimo nacque compiutamente – seguendo le analisi di Werner Sombart – nella seconda metà del XIX secolo a tinte borghesi, conservatrici e patriarcali, si sviluppò accentuando i propri tratti burocratici e manageriali a partire dagli anni Trenta fino a confrontarsi con i più recenti fenomeni di informatizzazione e globalizzazione. Il capitalismo, infine, assorbe solo negli ultimi decenni le istanze woke, cioè, incapsula paradossalmente le critiche anticapitaliste trasformando e rinvigorendo ulteriormente sé stesso. Edonismo, individualismo, bulimia consumistica, scientismo, flessibilità e multiculturalismo permeano, infatti, l’attuale capitalismo e la sua ideologia dominante e si contrappongono all’ascetismo, alla virilità, alla religiosità, alla stabilità e alla volontà di potenza tipiche della prima fase del capitalismo. Una contrapposizione simile appare con massima chiarezza paragonando emblematicamente la figura austera di Cecil Rhodes con quelle di Sam Bankman-Fried e Caroline Ellison, i due fidanzati immersi in uno stile di vita puttanesco, cocainomane e poliamoroso e impegnati nella conduzione, tutta virtuale, della ormai deceduta FTX. In questo quadro l’antirazzismo, l’antifascismo e il femminismo non solo combattono spettri pressoché estinti da svariati decenni ma finiscono anche paradossalmente per rinvigorire lo status quo. Proprio quest’ultimo può essere identificato, seguendo le suggestive riflessioni di Vilfredo Pareto, in una “plutocrazia demagogica”, in un sistema nel quale l’alleanza tra le oligarchie finanziarie apolidi e i ceti più infimi ed emarginati (cioè, le minoranze variamente “colorate”) prospera a discapito delle altre classi, ceti medi in primis.

In questi termini, il terreno di coltura del capitalismo woke è individuabile nella finanziarizzazione dell’economia, più precisamente nei flussi del mercato mondiale. Qui solo una microscopica porzione dei movimenti risponde ai dati dell’economia reale mentre la larghissima parte delle transazioni riguarda le speculazioni. In questo magma immateriale, un quarto potere di carattere tecnocratico, cioè la sovranità monetaria, fagocita i tre tradizionali poteri dello Stato ed annichilisce la volontà popolare. Sull’agenda dei governi si impongono così dei “diktat”, programmi a senso unico adducendo la motivazione di moda del momento (“non ci sono alternative”, “ce lo chiede l’Europa”, “lo dice la Scienza”). Lo stesso trattato di Maastricht, come colse lucidamente Giano Accame in Il Potere del denaro svuota le democrazie, assegna la massima libertà di azione alle banche centrali e impedisce esplicitamente alle istituzioni democratiche qualsivoglia intromissione.

Complessivamente, quindi, una reale critica all’attuale capitalismo deve trascendere le prospettive di Rhodes e rivolgersi contro lo spirito woke e i suoi elementi (edonismo, individualismo, finanziarizzazione dell’economia, flessibilità, tramonto della sovranità popolare…). Sull’intreccio di queste tematiche qui soltanto abbozzate si può, così, ingaggiare una reale battaglia, cioè, stare autenticamente “all’erta”, comprendendo le cose in profondità e rifiutando le prospettive comode e superficiali.

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Collaboratore giornalistico e studioso di storia contemporanea. Si occupa, in particolare, delle ideologie politiche del Novecento italiano.