di Loris Puccio Conti

La posizione del problema

Da una parte imperversano le manifestazioni di piazza, vengono bruciate le bandiere dell’Unione Europea e riecheggia una voce tremante dal basso, avida di rinnovamenti e colma di speranza. Dall’altra si assiste a una parabola di atteggiamenti volti, inizialmente, a ignorare gli eventi e, successivamente, a etichettarli snobisticamente come espressione di “immaturità”, “ignoranza”, “fascismo” e “medioevo”.

Il copione è sempre lo stesso e, nei tempi più recenti, ha indicato le proteste dei trattori nel ruolo di attore protagonista. A differenza delle puntate precedenti – le manifestazioni dei “forconi”, l’attivismo populista sui social network e le mobilitazioni contro i sieri anti-Covid – dalle moschee del politicamente corretto sono sopraggiunti strali di inferiore intensità. In tal senso, dai piani alti si è forse inteso cambiare strategia, non ricorrere più al vecchio “reductio ad Hitlerum” e depotenziare, piuttosto, la minaccia, omettendone le sfumature più antieuropeiste e sottolineandone gli aspetti più “locali”, in strumentale opposizione a un governo colpevole di procedere più o meno a rilento sulle strutture d’acciaio delle rotaie, sul cammino verso il globalismo realizzato.

Il riferimento è chiaramente rivolto a Walter Benjamin e alla sua celebre metafora della rivoluzione come freno di emergenza di un treno in corsa verso l’abisso. Se, però, continua a sussistere l’eterna opposizione tra paese legale e paese reale, centro e periferia, dominanti e dominati, piazza e palazzi – o come la si voglia chiamare – nulla lascia presagire possibili ricorsi al freno né deragliamenti di sorta.

Il malcontento comunque dilaga, le piazze si riempiono periodicamente e, nel complesso, la lotta di classe continua a sussistere anche nel vigente capitalismo e a manifestarsi nelle sembianze dei trattori, in una forma che con tutta probabilità si sta già incuneando nello stesso vicolo cieco delle suddette puntate precedenti.

I ceti medi attuali: la posizione nella piramide sociale, l’inettitudine politica e l’assuefazione a un gretto benessere materiale

Nella vetta della piramide sociale risiedono ovviamente gli oligarchi dell’occidente, una microscopica classe apolide, detentrice di ingenti capitali finanziari, decisore ultimo delle sorti di questa parte del globo e vincitrice di quella nuova lotta di classe a tratti ben delineata da Luciano Gallino. Questa minoranza detiene la propria supremazia appoggiandosi sulla parte vittoriosa del ceto medio, su quello strato di popolazione – all’incirca il 15% – in grado di emergere dalla marea della globalizzazione e delle più recenti rivoluzioni tecnologiche con i titoli di studio e le proprie posizioni, in primis, nel mondo dello spettacolo, delle accademie, dell’arte e dell’informazione. Proprio alcune sfumature di questa emersione, con tutto il suo fumoso vessillo a tre “T” (Talento, Tecnologia e Tolleranza), sono state al centro degli elogi ingenui e irrealistici di Richard Florida all’inizio del millennio. Dopo un quindicennio, però, l’autore ha constatato l’inevitabile epilogo di questo strato sociale, il suo arroccamento nei centri cittadini, la sua intolleranza verso i ceti inferiori e l’incremento generale delle disuguaglianze sullo sfondo.

Alla base della struttura sociale risiedono gli ampi ceti medi, immediatamente sopra rispetto al fosso delle minoranze più indigenti e socialmente escluse, immigrati in primis. Questa larga classe comprende le ampie masse necessariamente “resilienti” e “flessibili”, prive di una posizione lavorativa stabile e di un solido ancoraggio a una terra o a un’identità (al di là dei sempre più fragili patrimoni economici e immateriali ereditati dalle generazioni precedenti). Questi sono gli sconfitti della globalizzazione e della nuova economia a trazione finanziaria e terziaria ma, allo stesso tempo, sono i beneficiari di una condizione esistenziale di relativo benessere tra i continui viaggi fuori porta, i balletti e le coreografie digitali a imitazione delle nuove veline dei social network, le esperienze in Erasmus, il “food and drink” e il godimento dei vari momenti ludici. In riferimento a questo esteso stato di cose, Luca Ricolfi giunge a parlare di una “società signorile di massa”, di un sistema sociale nel quale vigono, allo stesso tempo, una struttura capitalistica e alcuni elementi tipicamente feudali (prevalenza dell’inoccupazione, recessione economica e diffusione di consumi opulenti).

In questo quadro è fondamentale sottolineare il carattere apolitico e passivo di questi larghi ceti medi, la loro supina adesione al capitalismo e al politicamente corretto. Non sono casuali, in tal senso, gli elevati tassi di astensionismo elettorale né l’inettitudine insita ai movimenti di protesta nell’ultimo quindicennio. Una parte di questo largo ceto medio, infatti, ha dato vita a una serie di manifestazioni – “forconi”, populismi e gli ultimi “trattori” – che mai sono stati in grado di inficiare gli assetti istituzionali né gli equilibri socioeconomici di alcun Paese. In ultima istanza, addentrandosi nella psicologia di questa classe, diventa anche difficile reperire dei validi stimoli per fomentare l’eversione, uscire dai recinti eretti dai professionisti dell’informazione e della “Scienza” e, di converso, mettere a repentaglio un sistema che è comunque in grado di garantire discreti livelli di benessere.

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Il pregiudizio antiborghese della narrazione dominante e la confusione tra attuali ceti medi e piccola borghesia del XX secolo

I larghi ceti medi sconfitti e non allineati sono degli “sdentati” (Hollande), un “branco di miserabili” (Hillary Clinton) e delle “bestie” (Eugenio Scalfari).

Epiteti simili mostrano autenticamente l’intolleranza, lo snobismo e la bassa caratura morale della minoranza egemone e vengono puntualmente rispolverati non appena sorge un movimento non allineato al globalismo e ai suoi dogmi woke. In questo caso, in un’atmosfera di tensione apocalittica, avanza una narrazione secondo la quale la “pancia della gente” appende la democrazia a un filo, partorisce lo spettro del fascismo e dà sfogo alle tendenze più barbare e irrazionali. Le sentinelle della “Scienza” e dell’informazione salgono così in cattedra e accampano improbabili parallelismi tra gli scenari del momento e gli eventi precedenti ai fascismi, ai lager e alle altre tragedie della prima metà del secolo scorso.

Alla base di questa narrazione sussiste la strumentale (o inconsapevole) confusione operata tra gli attuali ceti medi e il suo predecessore più o meno in linea diretta, la piccola borghesia del secolo scorso. Quest’ultima, in diametrale opposizione agli attuali ceti medi, ha vissuto all’interno di un capitalismo di carattere industriale, nazionale e conservatore e ha dimostrato una spiccata propensione per la mobilitazione politica – per la maggior parte provando a integrarsi nel florido sistema economico e istituzionale dell’epoca e nutrendo, in minoranza, inquietudini parimenti fasciste e comuniste (in tal senso, non è un caso che l’estrazione sociale di Gramsci e Mussolini fosse la stessa). Proprio a questa spiccata propensione alla mobilitazione politica fa riferimento quel pregiudizio antiborghese coniato dagli intellettuali progressisti dell’epoca e, in qualche modo, riproposto anche dalla narrazione dominante odierna.

È possibile individuare in un articolo di Gaetano Salvemini apparso su “La Voce” del 1911 – “La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia” – l’avvio, o comunque un momento fondante, dell’ostilità pregiudiziale in questione. Qui l’intellettuale molfettese costruiva a proprio piacimento una contrapposizione in salsa lombrosiana tra una piccola borghesia dai tratti fisici degenerati, da una moralità vuota e vigliacca e un ceto contadino meridionale dall’acuta intelligenza e dai fisici scolpiti paragonabili perfino a quelli del “miles quadratus” del tempo romano. Poi è stata la volta di Luigi Salvatorelli e delle sue celebri teorie sul tipico “analfabetismo” da “alfabeta” della piccola borghesia umanistica e della sua naturale confluenza nel fascismo. Nel frattempo, Gobetti saliva in cattedra e lanciava tutti i suoi strali in salsa pedagogica e oicofoba contro la piccola borghesia nostrana, colpevole di non professare il protestantesimo e di essere, anzi, affetta da presunte malattie morali inguaribili (trasformismo, immaturità, parassitismo, provincialismo…). Con le sue consuete maniere intolleranti e violente, Gramsci tagliava invece più corto e liquidava i poveri borghesi come un mero “popolo delle scimmie”. Negli anni seguenti veniva poi pubblicata la celebre opera inquisitoriale di Lukács che costruiva sostanzialmente una connessione ineluttabile tra borghesia, irrazionalismo, reazione e nazionalsocialismo.

Così, se ieri si blaterava intorno all’“analfabetismo da alfabeta”, alle “virtù” del protestantesimo, all’irrazionalità e alla volgarità della piccola borghesia, al giorno d’oggi si ripropone a reti unificate una narrazione simile incentrata sui miti dell’“analfabetismo funzionale”, dell’austerità tedesca ed europeista, sull’allarme legato alla “pancia della gente” e al ritorno al fascismo.

Così, lo smascheramento dell’infondatezza di questa narrazione e, di converso, la consapevolezza dei forti limiti degli attuali ceti medi rappresentano due momenti fondamentali per il ripensamento di una mobilitazione volta a reperire un’alternativa agli attuali equilibri sociali ed istituzionali.

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Collaboratore giornalistico e studioso di storia contemporanea. Si occupa, in particolare, delle ideologie politiche del Novecento italiano.