di Pietro Polieri

Ingenera molto più che una semplice perplessità pensare che la questione palestinese, così importante, grave e spinosa, sia risorta nelle coscienze di molti giovani e di tanti intellettuali occidentali, a livello nazionale, europeo e mondiale, non sulla base di un vero e proprio interesse strutturale, nei suoi confronti, di tipo giuridico-internazionalistico o umanitaristico, semmai reso manifesto e pubblico nel tempo, o ancora quale esito, per esempio, di uno sforzo acclarato, continuativo e ininterrotto, e del tutto lodevole, di studio scientifico-accademico o di impegno associativo-filantropico rispetto alla difficile e complessa condizione esistenziale-geografica-insediativa di un popolo-senza-Stato, ma a partire da un atto di barbarie inaudita, compiuto scientemente e scientificamente da un gruppo (pseudo) -politico terroristico e religiosamente orientato come Hamas. Che gran parte di costoro, di tali supporter, non solo esita ad ammettere, ma addirittura nega che possieda tale natura e matrice estremistica, violenta e disumana, “simil-isis-iaca’, per riconoscerne, al contrario, la capacità di espressione “legittima/legale” di un diritto naturale palestinese alla resistenza anti-israeliana e contro-ebraica. Infatti, col pretestuoso argomento-ombrello, teorico e pratico-politico, della “de-colonizzazione” e dell’opportunità materiale di una lotta contro l’oppressore sionista, accademici e protagonisti del mondo culturale, soprattutto di area francese, ma anche anglosassone – e, ormai, diffusamente, anche italiana – plaudono, senza riserva e ritegno alcuno, all’azione “militare” (?) di Hamas, che giudicano, per un verso, come forma di ribellione “logicamente” e “giustamente” conseguente a una serie di atti di prevaricazione e vessazione israeliani nei confronti dei palestinesi nel corso del tempo, per un altro, come manifestazione materiale di un processo de-imperializzativo, che – a detta loro – non si poteva certo pensare dovesse rimanere su un piano di mera e improficua astrattezza. Insomma, attraverso una semplice operazione di slittamento e scivolamento dalla piattaforma “reale” della concreta cruda atrocità delle violenze perpetrate ai danni di persone del tutto inermi e incapaci già solo di immaginare cosa volesse dire difendersi con la forza, alla piattaforma “neutra” del discorso filosofico-politico-ideologico entro il quale si è voluto “intellettualmente” inquadrare il massacro del 7 ottobre, si è ottenuta da parte di tali studiosi ed esperti “progressisti” sia la devitalizzazione della “cruenza” e della “ferocia” sanguinaria dell’organizzazione anti-semita per statuto sia la sua “normalizzazione” “storico-scientifica”, che è andata accarezzando e corroborando pian piano l’immagine edulcorata ed epica di un’eroica “legittima” azione di resistenza. Che, poi, è divenuta, facilmente e senza filtri di sorta, la premessa condizionale e la base fondamentale per gli slogan delle piazze, occidentali e non, pro-palestinesi. Le quali, complici anche la rapidità e la tempestività della durissima replica armata israeliana, hanno immediatamente e completamente traslato e fatto assorbire da quest’ultima la violenza “ancestrale’, “primordiale’, “primitiva” di Hamas, addirittura riuscendo, oltre a far dimenticare subito e radicalmente la spietatezza bestiale dei terroristi, soprattutto a trasformare e rovesciare, nel racconto generale e nell’immaginario collettivo – già di per se stessi latentemente, quando non proprio visibilmente, propensi all’anti-sionismo e, per dilatazione, all’anti-israelismo – l’operazione militare di Tel Aviv da risposta controffensiva a iniziativa offensiva, con tutto il carico di responsabilità “originarie” che quest’interpretazione reca con sé. In tal modo configurando una sponda determinante per una paradossale quanto reale costruzione di una rappresentazione trasversale, occidentale/mediorientale, di Israele come nemico della pace e cagione dell’instabilità internazionale, e dei palestinesi e della loro causa “anti-israelo-giudaica’, condotta “egregiamente” da Hamas (gruppo, quindi, da considerare anti-colonialista e non certo terrorista!), come quel versante umano resistentivo con cui essere, a prescindere, solidali.

S’è visto chiaramente, dunque – riprendendo, così, il filo dell’argomentazione iniziale – che vi sia stata una riaccensione contingente e improvvisa degli animi per la ferita territoriale palestinese, fuori da una regolare o ordinaria presa in carico, seria e progressiva, della relativa annosa questione, di cui forse ci si era pure dimenticati, o che non è mai stata, o lo era diventata sempre meno, una priorità per alcuno di quelli che “ora” – quasi che “ieri” non lo fosse altrettanto – la giudicano fondamentale in sé o imprescindibile per gli equilibri regionali-mediorientali o addirittura decisiva per la stabilità dell’intero ecumene terrestre. E, per di più, foriera – si arriva a scommettere! – di inediti scenari, caotici e ingovernabili, di una nuova, terza guerra mondiale, che, come realtà ipotizzata e come concetto oltre-politico supposto, pare, in verità, troppo allegramente e indiscriminatamente ballare, da qualche tempo e con insistenza – forse la si brama? –, una danza macabra sulle bocche allocche dei suoi scriteriati invocatori, soprattutto mediatici. Si sa troppo bene, invece, che al momento opportuno, cessata la ribalta internazionale, purtroppo i palestinesi e loro problemi cardinali torneranno  a essere condannati a riconquistare, più facilmente che una terra d’insediamento stabile, la dimenticanza dei loro occasionali, o ad orologeria, politico-morali alleati e difensori (sempre precauzionalmente) a (debita) distanza (dal campo di battaglia), animati combattenti da piazza o da salotto o da talk show in terra patria come sono (sempre stati)! Quando, al contrario, la controversa situazione palestinese sarebbe doverosamente meritevole di una costante e strutturale/strutturata attenzione e convergenza politico-diplomatica da parte degli Stati occidentali e dei Paesi musulmani moderati del quadrante arabo (oltre che, per necessità, di quelli, per così dire, meno “dialogici” tanto di quella quanto di altre aree geografiche), e non certo per continuare a parlarne all’infinito, ma per individuare una soluzione territoriale di compromesso e definitiva. Dunque, lasciata la bandiera giallo-blu in un cantuccio della propria abitazione, ormai più di qualche mese fa, in corrispondenza dello spegnimento dei riflettori di telegiornali, internet e carta stampata sulla guerra russo-ucraina, e subito imbracciata quella quadricolore palestinese, in occasione della ripresa, a determinati livelli di violenza, e anche e soprattutto di rilancio da parte dei mezzi di comunicazione, del conflitto israelo-palestinese, fino a quel momento del tutto accantonato e riposto nel dimenticatoio più oscuro, i protagonisti di tutte le manifestazioni “per-il-bene-e-contro-il-male-assoluti” e di ogni corteo “per-le-giuste-guerre/cause-di-chiunque”, hanno deciso di scendere in piazza, questa volta, con “gli amici” musulmani, di ogni declinazione etnica possibile, in alcune importanti città o metropoli europee ed extra-continentali, per chiedere, assieme al cessate il fuoco in Medioriente, o meglio, piuttosto che questo – che pur risulta essere cosa buona e giusta! –, principalmente l’estinzione dello Stato di Israele, a più riprese definito fascista o nazista, a seconda delle diverse sensibilità critiche in azione. Quindi per chiedere, in definitiva e paradossalmente, la fine di un conflitto territoriale e la castrazione dell’esacerbazione di efferatezze ormai bi-frontali attraverso l’annientamento altrettanto violento, totale e definitivo, di un altro gruppo etno-territoriale. Quello israelo-ebraico, per il quale, semmai, arrivato il 27 gennaio di ogni anno, gli stessi si battono il petto, rinnovano solidaristicamente la memoria olocaustica ed esaltano la storica soluzione statuale per quel “popolo errante”, che era in via di violenta innaturale estinzione.

Il problema, però – lo si chiarisce subito, a scanso di inutili e partigiani o politicamente corretti equivoci, che potrebbero far saltare il banco di una riflessione che, al contrario, in questa sede si vuole onesta, pacata e complessa, ma anche determinata –, non è che sia deprecabile che alcuni vogliano prendere parte per una causa, come quella palestinese, che ritengono, a proprio insindacabile giudizio, giusta e sostenibile, dal punto di vista sia politico sia morale, ma che essi operino in tal senso allineandosi perfettamente e associandosi materialmente, politicamente e culturalmente, in quelle piazze pro-palestinesi – senza che siano state mai pro-israeliane per gli eccidi simultanei e combinati realizzati da Hamas a danno di civili innocenti – a soggetti che rivendicano, sonoramente e orgogliosamente, un legame vitale e imprescindibile con tale gruppo terroristico, e che richiedono, per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, l’annientamento del popolo ebraico-israeliano. Reclamare a gran voce, infatti, una terra per i palestinesi non deve, per forza di cose, coincidere con la pretesa dell’annichilimento dello Stato di Israele e di tutti gli ebrei, che a loro modo, conforme o critico, comunque lo abitano. Volere questo sposta, e di molto, l’asticella e la natura stessa delle rivendicazioni e costruisce un legame evidente tra l’intellettualismo progressista anti-sionista occidentale di sempre e l’antisemitismo/l’anti-israelismo costitutivo di alcuni gruppi estremistici islamici, le cui propaggini e i cui megafoni umani presenti nei diversi contesti nazionali, europei ed extra-europei, stanno evidentemente rappresentando il tessuto connettivo delle proteste pro-Palestina e stanno inoculando e veicolando strategicamente in esse l’esigenza di elevare progressivamente il tasso di animosità, di acredine e di livore nei confronti dell’elemento ebraico-israeliano. Come visibile in molti recenti filmati giornalistici di rimostranze di piazza, da cui emergono con chiarezza individui di auto-espressa religione musulmana, che aizzano le folle e spingono per un incremento della radicalità e della veemenza del dissenso, insoddisfatti e amareggiati per lo scarso livello di rancore e avversione per tutto quanto abbia a che vedere con la dimensione semitica, dall’identità ebraica alla statualità israeliana.

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V’è da ricordare, però, ai sostenitori odierni “occidentali” della causa palestinese che il sodalizio, nelle intenzioni, nella teoria e nelle piazze, con tali “ripetitori di Hamas” e il matrimonio con le loro finalità distruttive vuol dire approvare e assumere su di sé automaticamente il medesimo programma operativo dei componenti di quel movimento terroristico, consistente nel prendere di mira Israele non solo in quanto nemico politico e religioso per antonomasia, ma soprattutto in quanto simbolo dell’Occidente, da quelli considerato degenere, immorale e infedele, ovvero ostile alla forma che l’Islam vorrebbe dare all’esistenza umana individuale e collettiva, e di cui fanno parte proprio loro, i “tifosi” pro-palestinesi, che, quindi, autolesionisticamente, li spalleggiano. Ragion per cui, paradossalmente e contraddittoriamente, gli urlatori occidentali della fine di Israele, immersi come sono nella ribollente emozionalità estemporanea della “guerra per la pace” in Medioriente e della lotta all’ultra-sionismo/ultra-destrismo, non di Netanyahu solamente, ma, per estensione, di tutti gli israeliani come tali e pure come ebrei (!), non si accorgono, obnubilati dalla rabbia e dal pregiudizio politico(-religioso), di stare condividendo quella che ritengono una giusta battaglia proprio con coloro che disprezzano la loro cultura e i loro costumi in modo profondo. E che stanno ampiamente approfittando di quell’odio-di-sé occidentale – che oggi passa per il sostegno alla Palestina – per nutrire la divisione e il conflitto all’interno delle società democratiche e laiche – già di per se stesse molto lacerate per altre ragioni interne –, incapaci, da parte loro, di prendere coscienza dell’‘assist” che stanno agevolmente servendo a un certo mondo musulmano, diffusissimo, che vuole la de-occidentalizzazione del mondo e la sua contemporanea, totale, islamizzazione. Ovvero la sua mono-religionizzazione musulmana e la sua uni-politicizzazione/uni-statualizzazione teo-islamo-cratico-centrica. Grazie a cui, poi, potrà risultare solamente un lontano e sfumato ricordo, e già sicuramente un reato meritevole di pene adeguate, corporali e/o capitali che siano, la possibilità di scendere in piazza per protestare contro regimi e autocrazie di sorta, che semmai domani potrebbero essere rappresentati proprio dai “compagni” musulmani delle manifestazioni pro-palestinesi di oggi.

Per cui, fatta salva la necessità di mettere sul piatto, tempestivamente e materialmente, un piano di riavvio delle relazioni di pace tra israeliani e palestinesi, e un progetto serio e concreto di idonea territorializzazione statuale di questi ultimi, risulta altrettanto necessario, e conveniente, mantenere in vita e in buona salute Israele, in quanto barriera insostituibile e imprescindibile per la sopravvivenza stessa dell’Occidente rispetto a un’ipotetica propagazione senza freni di culture fondamentalistiche e contrarie ai diritti umani, quali sono implicitamente veicolate, in una parte sostanziale, dalle attuali proteste “islamo-centriche” pro-palestinesi. E così, alla fine dei conti, ri-aperti gli occhi e ri-posizionata in modo opportuno la razionalità geo-politica e la capacità di disamina critica degli eventi internazionali, oltre che il peso culturale che essi si portano dietro, dovrà affiorare e risultare come inevitabile paradosso ammonitore il fatto che, mentre in Occidente, nel momento in cui ci si batte per la Palestina alla sola condizione tanto di aver compresso, fino alla sua eliminazione, l’attacco selvaggio, bestiale e primitivo da parte di Hamas, quanto di stare volendo implicitamente la distruzione di Israele e degli ebrei, in pratica si stanno spalancando le porte a una cultura antidemocratica e religiosamente ortodossa e illibera (come quella che intride l’Iran, sostenitore di Hamas e delle componenti islamiche delle proteste occidentali e non solo, di cui si va tanto orgogliosi dalle nostre parti), al contrario, in paesi ultra-islamici e teocratici, come l’Iran appunto, persone del calibro e della fattura dell’avvocatessa Nasrin Sotoudeh combattono, con la loro competenza professionale, il loro stesso corpo e la loro medesima vita, per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali, princìpi e valori incardinati in filosofie politiche e in tradizioni etico-prassiche di stampo occidentale. Una contraddizione, questa, difficilmente accettabile e sopportabile, se si pensa che quella stessa cultura religiosa, mono-cratica e totalizzante, tendenzialmente asfittica e opprimente nei confronti della libertà e della dignità umana, contrastata, in tutti i modi, da alcuni illuminati “autoctoni” lì dove si è storicamente affermata, diffusa e accettata, viene sordidamente quanto palesemente veicolata, per via contingentemente politica (come nel caso del sostegno alla causa palestinese) da sistemi culturali occidentali che, per natura, dovrebbero essere in sostanziale antitesi rispetto a essa e avrebbero dovuto già da molto tempo approntare un solido sistema immunitario, anticorpale, nei suoi confronti. E invece, favorendone l’attecchimento e la propagazione tanto per deprecabile lassismo etico-giuridico quanto per travisato senso di tolleranza democratica, la cultura occidentale, oggi attraverso l’appoggio alla lotta palestinese in “obbligato” combinato disposto col sostegno all’ultra-islamico terroristico Hamas, ha deciso di porre quell’architettura esperienziale “religiosa” e, per sua interna configurazione teorico-operativa, di conseguenza anche “politica”, pericolosamente nel cuore stesso della sua propria identità, con quella fondamentalmente incompatibile, lasciandosi sedurre e attirare in una trappola che solo troppo tardi potrebbe apparire a certi suoi fan occidentali come rovinosa e funesta, quando, in effetti, agli occhi non di pochi “altri’, non “allineati” e non “conformistici” analisti, lo è già al presente.

Laureato in Filosofia (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’) e dottore di ricerca in ‘Logos e Rappresentazione’ (Università degli Studi di Siena), già professore a contratto di Cultura e civiltà ebraica (Università degli Studi di Foggia), attualmente è assegnista di ricerca in Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ con un programma su Intelligenza Artificiale e giustizia predittiva. Inoltre è professore a contratto di Bioetica e filosofia morale presso l’Ateneo barese e di Antropologia filosofica presso l’Università del Salento, oltre che docente di ruolo di Filosofia e Storia nei Licei.