di Carmel Richardson

(Traduzione autorizzata da “The American Conservative”: originale)

Quando, nell’adattamento di Emma Thompson di Sense and Sensibility di Jane Austen, il seduttore Willoughby viene a far visita a Marianne Dashwood, Sir John Middleton, in un evidente tentativo d’umorismo, si volta verso il rifiutato Col. Brandon e gli dice: “Venite, Brandon, sappiamo quando non siamo desiderati”.

Se c’è un momento, nella nostra tarda tradizione culturale, per catturare il declino degli uomini nell’accademia, è questo. Da quando le donne hanno cominciato, sul finire degli anni ’70, a togliere spazio nelle aule agli uomini, entusiaste di superare le loro controparti maschili con appunti e raccoglitori in colori coordinati, gli uomini hanno capito dove non erano desiderati e sono usciti di soppiatto dalla porta sul retro.

Già da tempo in traiettoria discendente, le iscrizioni universitarie maschili sono precipitate ai minimi storici quest’anno, come riportato all’inizio del mese in un articolo virale del “Wall Street Journal”. La femminizzazione dell’educazione superiore dice tanto delle donne quanto degli uomini, che oggi contano per appena il 40% degli studenti universitari e pesano per il 71% del declino nelle iscrizioni negli ultimi cinque anni. Di questo passo, riporta il “Journal”, fra pochi anni sarà uomo solo un laureato su tre. La politica aggrava la statistica perché – non sorprendentemente – le università hanno scarso interesse a perorare ad alta voce la causa degli uomini, nella nostra coscienza politica post-femminista. Possiamo solo immaginare cosa si scatenerebbe contro una scuola tanto coraggiosa da avviare un programma per aiutare gli uomini a tenersi al passo con le loro pari femmine (figurarsi superarle).

Così, mentre l’educazione superiore sommessamente offre più borse di studio a studenti maschi e aggiunge offerte sportive o programmi d’ingegneria, in una forma d’azione affermativa tesa ad allettare i ragazzi, le statistiche non fanno che peggiorare. Le donne sono ovunque – spiega il “Journal” – dominano i consigli studenteschi, con più entusiasmo cercano e ottengono posizioni dirigenziali nei campus, superano le prestazioni accademiche delle controparti maschili. (Anche nella mia assai tradizionalista alma mater, lo Hillsdale College, la media femminile da anni supera quella maschile).

Il matriarcato s’estende al di là delle mura della torre d’avorio. Sebbene il numero di istituti superiori degni d’essere frequentati si conti sulle dita di due mani, la maggioranza dei lavori salariati richiede ancora come minimo un diploma di laurea. Ciò significa che il successo femminile a scuola sta producendo bei dividendi, dopo la laurea, se si confronta con le controparti maschili. Le donne occupano più posti degli uomini nella forza lavoro totale degli USA; in particolare hanno il 58% dei lavori governativi e il 56% di quelli finanziari. Secondo le statistiche del Ministero del Lavoro americano stanno facendo passi avanti persino tra i lavori minerari e boschivi, così come nella manifattura, nei trasporti e in altre industrie tipicamente maschili. E se le amministratrici delegate femmine sono forse ancora rare, le donne detengono la maggioranza (51,7%) dei lavori manageriali d’America. Le donne stanno schiacciando gli uomini in quasi ogni metrica rilevante.

Gli uomini, dal canto loro, non sembrano preoccuparsene. Le fonti del “Journal” speculano che gli uomini non starebbero impegnandosi di più a scuola a causa di “una mancanza di orientamento, una sollecitazione anti-intellettualistica e una crescente convinzione che i diplomi di laurea non pagherebbero”. In altre parole, non se ne preoccupano perché non gli è stato detto di farlo – il che appare dubbio, vista l’abbondanza di prove sulla necessità d’una laurea per qualsiasi lavoro ben pagato e la parallela abbondanza di risorse sulla carriera disponibili online e altrove. L’alternativa, che il “Journal” evita attentamente, è che non vogliano preoccuparsene.

Perché?

La risposta, ormai, dovrebbe essere chiara, sebbene troppo all’avanguardia per essere ammessa in un cocktail a Georgetown. I giovani uomini non sono anti-intellettuali. Non gli manca il giusto programma che li aiuti a essere coinvolti, né più borse di studio o aiuto a controllare il proprio testosterone. Semmai, si sono trovati in una società che chiede loro d’essere qualsiasi cosa ma non gli uomini che sono; e stanno cercando per lo più di sfuggirvi.

Non dovrebbe sorprenderci che le aule dominate dalle donne siano per loro poco attraenti. Si tratta dell’ennesimo ambiente in cui una sempre più numerosa classe di donne senza figli può giocare a fare le madri. Separata dalla grazia che riserviamo alla carne della nostra carne, la classe manageriale femminile conduce una guerra fredda di ritocchini, fin dall’infanzia, allo spirito maschile, degradandolo per la sua esistenza (male fragility), per il suo punto di vista (mansplaining), persino perché allarga troppo le ginocchia in metropolitana (man spreading). Lasciato con poche, o nessuna, salubre via per esercitare un qualsivoglia potere, dovrebbe stupire che i giovani uomini così spesso cerchino eccitazione nel vile intrattenimento di videogiochi, droghe e pornografia?

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Undici anni fa Hanna Rosin scrisse su “The Atlantic” a proposito di come la fine della storia fosse in realtà la fine degli uomini. Una sintesi delle conclusioni salienti del suo libro omonimo, l’articolo spiegava come l’economia post-industriale sia fatta per le donne e le donne stiano facendo molto meglio in essa. “Gli attributi oggi più preziosi – spiegava – come intelligenza sociale, comunicazione aperta, capacità di rimanere fermi e concentrarsi sono, come minimo, non predominantemente maschili”. Il mercato globale vuole le donne, dacché, “con poche eccezioni, maggiore è il potere delle donne maggiore è il successo economico di un Paese”.

Poco più d’un decennio dopo, i problemi non sono che peggiorati. In tandem con la crescita da conigli di donne universitarie, sul finire degli anni ’70 si presentò un’altra importante statistica: le donne cominciarono a ritardare il matrimonio, in media di due anni e mezzo, presumibilmente per avere il tempo di laurearsi prima d’avere bambini. Innamorata del successo, tuttavia, e con l’aiuto della pillola, ciascuna successiva generazione di donne ha spinto sempre più in là questo grande evento di vita, per seguire una carriera, per frequentare una scuola di legge o semplicemente per non essere “vincolata”. Oggi la donna americana si sposa in media a 31 anni, dieci in più delle donne negli anni ’20; solo il 29% degli americani d’età compresa tra 18 e 34 anni era sposato nel 2018, contro il 59% nel 1978. Prevedibilmente, mentre il successo maschile va declinando a poco a poco, una carriera offre prospettive ben più eccitanti alla giovane donna d’oggi piuttosto che un marito, il quale mediamente ha meno peso sociale di lei (un incentivo fondamentale nella selezione femminile). Alle donne di successo d’oggi – un numero record delle quali s’identifica come lesbica o rimane nubile – un uomo raramente appare degno: quelle che si sposano spesso lo fanno con qualcuno al di sotto, e non al di sopra, della loro classe sociale.

Rosin descriveva come, per lo meno ai tempi della pubblicazione dell’articolo (2010), un programma della Columbia Business School indicasse “leadership sensibile e intelligenza sociale” come essenziali per farsi strada nel mondo degli affari:

“Non diciamo mai esplicitamente: «Sviluppa il tuo lato femminile»”, spiega Jamie Ladge, “ma è chiaramente ciò che propugniamo”.

Registra come persino al concepimento, nel caso di gravidanze artificiali, gli uomini stiano dietro il collo di bottiglia. Dell’intervista al biologo Ronald Ericsson, inventore della tecnologia per separare lo sperma in base ai cromosomi X e Y (e che è egli stesso una caricatura della mascolinità vecchia scuola), Rosin racconta come Ericsson accettasse che, in divergenza con la maggior parte della storia umana, le donne d’oggi preferiscano avere figlie piuttosto che figli. E perché non dovrebbero?, si chiedeva.

Le donne vivono più a lungo degli uomini. Fanno meglio di loro in questa economia. Sono la maggioranza dei laureati. Vanno nello spazio e fanno qualsiasi cosa facciano gli uomini, talvolta sensibilmente meglio. Voglio dire: diamine, scansiamoci, perché queste femmine faranno mangiare la polvere a noi maschi.

Mentre le sue nipoti femmine stavano collezionando carriere in biochimica e ingegneria civile, Ericsson raccontava alla Rosin di dover istruire i suoi nipoti maschi: “Vedete di non mandare tutto a rotoli, far schiantare il vostro camioncino o ingravidare qualche ragazza e rovinarvi la vita”. Non si tratta solo di risultati: anche le aspettative rispetto agli uomini sono significativamente più basse.

Non rimane molto per gli uomini nell’educazione superiore. Non c’è molto che rimanga per gli uomini in nessun posto, se è per quello; e bisognerebbe interrogarsi su quali mezzi ragionevoli restino per provare a chiudere il vaso di Pandora. Ma le donne come me dovrebbero fare attenzione al matriarcato. Quando avremo allontanato gli uomini da ogni sfera della società americana – e ci siamo quasi – potremmo trovarle tutte vuote, senza quegli attributi maschili che un tempo le resero grandi.

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Editorial Fellow a "The American Conservative". Laureata in Filosofia politica allo Hillsdale College.