Si sente spesso ripetere che le nazioni occidentali conducono un’esistenza “post-storica”. Con la locuzione si intende un approccio alla politica, specie estera, che si sostanzia del superamento delle durezze del processo storico. Le nazioni post-storiche sono nazioni ricche, con un tasso di natalità molto basso, che rifiutano un’esistenza strategica in favore di un approccio economicista alla scena internazionale. Figlie del mezzo secolo dorato dell’unipolarismo americano, le collettività post-storiche si illudono di aver confinato nel sud del mondo le asprezze della dialettica, si ammaliano con dottrine universaliste, si adoperano per lo sviluppo e la civilizzazione del mondo incivile, ancora “addormentato”, attraverso le armi del diritto internazionale e dell’occidentalizzazione. Fondate sul mito del progresso, tali placide nazioni si crogiolano nella consapevolezza di una storicità unilineare che rende la condizione post-storica definitiva e inesorabile, limitandosi tutt’al più a riconoscere che nel mondo esistono collettività che “ancora non sono pronte” per abbracciarne l’esistenza pigra e pacifica.

Il mondo di oggi, tuttavia, non è quello dell’89. Nuovi attori bellicosi, tutt’altro che post-storici, incedono nella scena internazionale forti di miti fondanti nazionalisti ed aggressivi. Mentre il Mediterraneo ribolle e le nazioni europee osservano confuse (ed incapaci) la nuova giovinezza dell’Impero ottomano, dall’altra parte del globo un attore insospettabile, capofila delle nazioni economiciste, reagisce in maniera diametralmente opposta – in buona misura grazie a un timoniere di eccezione come Shinzo Abe. Il Giappone, Sol Levante tramontato nel 1945, ha dato di recente il via a un piano di riarmo di largo respiro, cancellando de facto 75 anni di vacanza dalla storia.

Nell’immediato dopoguerra il Giappone si trovò costretto ad abdicare il ruolo di feroce impero colonialista attraverso misure normative che di fatto ne impedivano l’esistenza strategica. Nella costituzione del 1952, scritta a quattro mani con Washington, il famoso Articolo 9 sancisce che “il popolo giapponese rinuncia alla guerra quale sovrano diritto della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per la risoluzione delle dispute” e “non sarà mai autorizzato il mantenimento delle forze di terra, di mare e aeree, così come altri mezzi bellici”. La difesa viene completamente appaltata agli Americani, che costruiscono imponenti istallazioni come quella di Okinawa e stanziano nel paese nipponico il più grande contingente di militari all’estero. Per Tokyo seguono gli anni della checkbook diplomacy (diplomazia del libretto degli assegni), segnati da dottrine economiciste come quelle dei premier Yoshida e Fukuda, che promuovono la costruzione di softpower economico in Asia attraverso ingenti piani di aiuti economici e la stretta cooperazione con l’ASEAN per la costruzione di un Pacifico Aperto.

Il primo quindicennio del III millennio tuttavia, è caratterizzato dall’ascesa della Cina, rivale naturale di Tokyo, e dalla nascita della minaccia balistica in Corea del Nord; si riaccenda la disputa per le isole contese Senkaku/Diaoyu, mentre le acque sempre più contese tra il Celeste Impero e il Sol Levante vedono l’aumento delle puntate assertive di Pechino. È questo genere di preoccupazioni che portano Shinzo Abe nel 2014 a far approvare il pacchetto Legislation for Peace and Security, permettendo definitivamente l’uso delle forze di difesa per le missioni di pace. Il passo normativo più importante per il riarmo giapponese avviene però nel 2016, quando Abe ottiene una “reinterpretazione” dell’Articolo 9, che ora ammette la possibilità dell’uso della forza per ragioni di “autodifesa collettiva”; tra i motivi figurano il tenere aperte le rotte, il salvataggio di ostaggi e l’abbattimento di missili balistici diretti verso paesi alleati.

Nel 2020 la spesa militare è aumentata per il settimo anno consecutivo toccando quota 48 miliardi di $, cifra che è stata confermata fino al 2023; è stato varato un piano per portare la flotta di F-35 a un totale di 142 esemplari nei prossimi anni, di cui 42 nella versione B a decollo verticale, capaci di essere impiegati sulle navi classe IZUMO, recentemente riammodernate (almeno una) in moderne portaelicotteri. Il Libro Bianco della difesa di quest’anno conferma che nuove unità saranno aggiunte alle forze di marina (almeno un cacciatorpediniere) e di terra. Uno dei passi più significativi della nuova giovinezza delle armi nipponiche, annunciato di recentissimo, sarà invece l’istallazione di un sistema missilistico marcatamente offensivo in luogo dell’attuale Patriot per la difesa del suolo nazionale dai missili balistici.

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Le mosse del Giappone aprono ad una riflessione sul destino futuro delle nazioni occidentali. Se il riarmo proseguirà, cosa probabile, il Paese nipponico rischierebbe di completare un passaggio disumano dal post-storia alla storia vera e propria (in maniera simile a quando già Tokyo si reinventò potenza marittima da terrestre che era alla fine del XIX secolo); dimostrazione quanto mai assertiva che di fronte alla necessità della storia, o della realtà che dir si voglia, costrutti razionalizzanti come l’economicismo possono essere all’occorrenza accantonati. C’è un ulteriore grado di questa metamorfosi che è necessario considerare. Nel momento in cui il Giappone tornerà a brandire le armi si potrebbe avviare al passaggio da provincia dell’impero americano a suo fedele alleato, un passaggio che probabilmente si renderà necessario per contenere la minaccia cinese (allo stesso modo di come gli USA spingono per armare alcuni paesi dell’ASEAN in funzione antisinica).

Nonostante le nazioni europee oggi non si trovino a presidiare una frontiera tanto pericolosa da giustificare il placet ad un riarmo da parte americana, il rifiorire di minacce all’ordine occidentale da parte di superpotenze, insieme a fenomeni asimmetrici come il terrorismo, è destinato ad esasperare la condizione di stress dell’egemone USA. In un mondo sempre più multipolare gli USA potrebbero essere costretti a riarmare i paesi europei nell’ottica di ottenere alleati spendibili per il contenimento di Russia e Cina, facendo saltare l’ostacolo “politico” per il ritorno nella storia. L’approccio post-storico alla scena internazionale è tuttavia uno stato dell’essere, che si sostanzia di una condizione antropologica particolare, liquida, postmoderna, anti-collettiva, che rende difficile impegnarsi per l’interesse strategico della nazione. Serve a questo punto un catalizzatore per coalizzare collettività atomizzate in un’impresa “nazionale”, come al Giappone è servita l’ascesa di Pechino, insieme a una buona dose di acume da parte dei decisori politici per sfruttare l’occasione anche a costo di mettere da parte il feroce ordoliberismo di derivazione teutonica. Chissà che le navi battenti la mezzaluna che in queste ore stanno entrando nelle acque territoriali greche non possano illuminare su quale possa essere il catalizzatore per risvegliare i Paesi europei da un sonno post-storico ogni giorno più agitato.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.