di Vincenzo Pacifici

Il brano seguente è tratto da GIOACCHINO VOLPE, Storici e Maestri, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 289 – 290:

[…] Peggio fu quel che seguì , negli anni tristissimi seguiti al 1945. Non mi riferisco, è necessario dirlo?, alle mie personali disavventure, di cui nulla mi cale o solo mi cale in quanto, capitato a migliaia di buoni Italiani, di fedeli e disinteressati servitori della nazione, sono anche esse dimostrazioni del crollo politico e morale dell’Italia, della sempre viva e ricorrente faziosità degli Italiani, della scarsa capacità loro pur con tanti osanna alla ricuperata libertà, di vivere veramente in libertà. Mi riferisco invece alla rovina della mia patria, che ha visto annullato o ridotti in brandelli il sudato frutto di quasi cento anni di lavoro; sovvertite le leggi interne e la nozione stessa di diritto e certi concetti tradizionali dei popoli civili sul lecito e sull’illecito in fatto di politica; messo su gli altari transfughi ed eroi della facile strage; mutilato il territorio nelle sue frontiere, già raggiunte col sangue di 600.000 morti; rapinate dai soliti insaziabili accaparratori e monopolizzatori le colonie, dove già la vita del popolo italiano cominciava ad espandersi e fiorire, con benefici che il tempo avrebbe dimostrato inestimabili sotto tutti i rapporti, anche d’ordine morale, per noi e per gli altri; impoverita e umiliata la nazione tutta e aggiogata al carro dei vincitori; cacciato in bando il Re e la Dinastia che tanta parte erano stati della nuova Italia e assolvevano pur sempre una funzione forse insostituibile nella vita della nazione, e cancellati con stupido sadismo tutti i segni e simboli che li ricordavano agli Italiani; ridotta tutta la penisola a “zona di influenza”, a “base di operazioni” o “a chiave del Mediterraneo”, per uso più che altri che nostro. Sì, abbiamo riacquistato, in cambio, libertà e democrazia. Ma perdonami, caro lettore, e metti anche questo nel conto di quella tale mia mancanza di “sentimento etico”; perdonami se io, che pure mi sento ed opero fraterno ad ogni lavoratore di ogni lavoro, non sono tanto liberale e democratico da trovare in questi doni sufficiente compenso a quanto abbiamo perduto: anche perché essi sono, appunto, in gran parte doni, e per giunta più imposti, come parte del diktat anche essi, che non veramente donati, più ritagliati su modello altrui e presuntuosamente elevati a ideale e perfetto tipico di vivere politico, che non adeguati alle particolari ed intrinseche esigenze delle singole nazioni.

Poteva tutto questo non riflettersi sul mio stato d’animo e non adombrare il mio libro? Mentre io scrivevo la mia Italia moderna, l’altra Italia, quella in carne ed ossa, mi usciva di mano, cadeva boccheggiante per terra. Io cercavo di ricomporre la sua storia, che era la storia del suo crescere, del suo lavorare, sognare, sperare, del suo divenire, da oggetto, come per tanti secoli, soggetto di storia; ed essa ad un tratto ridiventava oggetto di storia, storia di Anglosassoni e Francesi e Tedeschi e Russi e, perché no?, di Marocchini e Senegalesi e Tonchinesi che venivano in Italia, e sul corpo vivo dell’Italia, a conquistar i loro titoli all’indipendenza, da far valere subito o domani”.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.

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