di Sheila Soprani

La legge n. 81/2017, nel preambolo, premette che il suo scopo è di “favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” e definisce il lavoro agile come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”. Il perno fondamentale della normativa è che la modalità di esecuzione del lavoro in teleworking è l’accordo tra le parti, per tali intendendosi l’Azienda e il lavoratore, ovvero le Organizzazioni Sindacali.

Questo principio è stato in parte superato da un’importante sentenza della Cassazione e dalle modifiche dell’Istituto causate dalla pandemia covid. La sentenza è la n. 27913 del 4.12.2020 che ha offerto una lettura pregnante dell’art. 2087 del Codice Civile, secondo il quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La Corte, sulla base dell’art. 2087 citato (ma anche dell’art. 32 Cost.), sancisce un obbligo generale del datore di predisporre tutte le misure a tutela della salute fisica ed emotiva del dipendente e, sebbene non citi espressamente il lavoro agile, si può arguire che se questa è una modalità idonea ad evitare le condotte vessatorie, sebbene le stesse non siano attribuibili direttamente al datore ma poste in essere da suoi dipendenti nell’ambiente di lavoro, il Titolare ha l’obbligo di adottarle quando risulta la probabilità di concretizzazione del conseguente rischio.

Lo smart working, propriamente detto, necessita però che ci siano dei sistemi organizzativi aziendali basati sulla fiducia; necessita che ci sia un’alta digitalizzazione per facilitare la circolazione delle informazioni, in qualsiasi stato e grado del processo produttivo; necessita che si lavori per cicli, fasi e per obiettivi, non più ancorati ad orari giornalieri settimanali e mensili, pur ancora previsti a livello di contrattazione; necessita che ci sia una ampia competenza informatica degli operatori, una competenza trasversale in tutti i gradi professionali; e necessita degli spazi smart che consentano la circolazione delle informazioni attraverso la digitalizzazione, attraverso la socializzazione, la comprensione e la contemplazione come primo passo del pensiero creativo.

Dando solo un’occhiata ai numeri, si comprende però come l’uso del lavoro agile abbia avuto un approccio concettuale diverso e solo un impulso propulsivo durante il periodo pandemico quando, forzosamente, è diventato l’unica modalità di lavoro consentito al fine di non bloccare totalmente la produttività, salvaguardando al contempo, l’esigenza di arginare il propagarsi dei contagi. E dunque, nonostante già esistesse una norma nazionale che disciplinava il lavoro agile ordinario, si è dovuto procedere in deroga, non solo sotto il profilo del regime contrattuale (che prevede un obbligatorio accordo sottoscritto tra parte datoriale e lavoratori) ma anche sotto il profilo organizzativo strumentale (ci si è dovuto accontentare di ciò che si aveva a disposizione).

Le aziende tutte si sono trovate a fronteggiare problemi di mancata adeguatezza strumentale che, sebbene si sia cercato di colmare con provvedimenti di capitoli di spesa ad hoc, previsti da vari DPCM, non sono stati sufficienti né sempre tempestivi. Ne consegue che le forme di lavoro agile adottate in fase pandemica, pur ispirandosi legislativamente alla legge nazionale sullo smart working ordinario, nella pratica sono state più simili ad un lavoro da casa; quella “semplice delocalizzazione” teorizzata agli inizi degli anni ’70 dallo scienziato aereospaziale Nilles, che aveva l’ambizione di decongestionare il traffico cittadino di Los Angeles, e ciò con tutte le conseguenti difficoltà connesse allo svolgimento delle mansioni lavorative in assenza del “bureau” .

Se tali difficoltà organizzative hanno disorientato trasversalmente tutte le categorie di lavoratori, non vi è dubbio che abbiano aggravato la posizione dei lavoratori fragili e disabili, per i quali, almeno per un certo periodo di tempo, si è frettolosamente risolto assimilando la loro assenza al ricovero ospedaliero. E ancora, la Legge di Bilancio del 2019 ha poi definito alcuni criteri di priorità di accesso alle iniziative di smart working: ad esempio, si indicava di dare priorità alle lavoratrici nei 3 anni successivi alla conclusione del periodo di congedo obbligatorio di maternità e ai lavoratori con figli disabili. Approcci che denotano un’interpretazione ancora limitante del lavoro agile, volta più a “ghettizzare” coloro che lo utilizzano, piuttosto che accompagnare la trasformazione digitale delle aziende italiane.

Si sottolinea, infatti, che così facendo, nascondendosi dietro ai “buoni propositi di welfare”, si relegano i lavoratori, in particolare le donne (che per retaggio culturale sono ancora considerate uniche deputate ai compiti familiari), ad un ruolo aziendale marginale, non degno di realizzazione, di opportunità e di carriera. Donne, fragili e disabili sono stati di fatto allontanati dall’inclusione sociale; quell’inclusione sociale auspicata nei trattati internazionali, a far data dal 2000, poi trasfusi con modifica del trattato comunitario nel 2016, negli articoli 21-26.

In Italia la legge che disciplina e tutela il lavoro dei disabili è in primis la legge 68/99 che attualmente è oggetto di revisione in forza della legge delega 227/21, che demanda al governo il compito di rivedere l’intero assetto normativo in materia di disabilità. Se è vero – come si può apprezzare dal combinato disposto dell’articolo 2 della legge 68/99 dove si afferma che “per collocamento mirato dei disabili” si intende (omissis) “quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione” (omissis); dell’art 8 della legge 104/92 secondo cui (omissis) “l’inserimento e l’integrazione sociale della persona handicappata si realizzano mediante […] misure atte a favorire la piena integrazione nel mondo del lavoro, in forma individuale o associata, e la tutela del posto di lavoro” (omissis); dell’art 10 del protocollo nazionale sul lavoro agile siglato in data 7 dicembre 2021 rubricato “Lavoratori fragili e disabili” che determina che (omissis) “salvo quanto previsto dalla legge, le Parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole” (omissis) – è pure vero che questi passi non sono sufficienti per realizzare una piena integrazione né una piena realizzazione dell’integrità della persona fisica.

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Chi si misura quotidianamente con le difficoltà dovute alla non accessibilità delle piattaforme aziendali che, quasi mai, possono definirsi “amichevoli”, degli screen reader, sa benissimo che, con l’incentivazione del lavoro da casa, si è creata un’ulteriore diversità: tra lavoratori abili, tra lavoratori disabili motori (che posso sedere alla scrivania come i pienamente abili) e i disabili sensoriali e con deficit intellettivo. Non si è dato corso all’attuazione dei principi fondamentali dei protocolli internazionali e delle best practice, note ormai da più di 20 anni, e si è così creato e rafforzato una ulteriore barriera architettonica: quella digitale.

Lo si rammenta: la Legge Stanca del 2004, che vincola le pubbliche amministrazioni a rendere accessibili i loro sistemi, impone l’obbligo, solo alle pubbliche amministrazioni e non anche alle aziende private. Lo fa a tutela dei fruitori e consumatori dei servizi offerti, e non anche per i lavoratori disabili, che sono impiegati per rendere questo o quel servizio. Lo fa con un organo di vigilanza sull’accessibilità, l’Agenzia per l’Italia Digitale, che per lo più si limita a certificare le richieste di conformità, ma non esegue quasi mai compiti ispettivi (lo stesso suo sito presenta alcune criticità).

Ci si spinge quindi alla ricerca di soluzioni rintracciabili negli istituti di diritto privato, nell’analisi sistematica delle innumerevoli norme di diverso rango, che si sono succeduti a pioggia creando non poco scompiglio e disorientamento nei destinatari, siano essi imprese o lavoratori, fino ad approdare alle esperienze di ingegneria imprenditoriale, di previsione della figura del disability manager.

Disability Manager come facilitatore, quel facilitatore indicato anche nei principi fondamentali della legge delega, una risorsa individuabile anche all’interno di HR, senza doversi inventare una nuova figura professionale, purché abbia acquisito quelle competenze e quelle abilità che gli consentano di individuare gli strumenti e le strategie, gli accomodamenti ragionevoli, già indicati dalla legge 350/2000 sull’integrazione sociale. Un facilitatore che abbia la capacità di favorire le relazioni e le interazioni tra i colleghi, una figura che sappia individuare le peculiarità della risorsa lavorativa disabile, che sappia renderla produttiva, utile allo scopo imprenditoriale, facente capo all’art 2087 c.c. e pienamente integrata.

Del resto, nel preambolo dell’art 1 della legge 68/99, l’intentio legislator non era quello di “parcheggiare” il lavoratore in azienda con un mero obbligo di assunzione (ragion per cui il Ministero del Lavoro, col decreto n° 43 dell’11 marzo 2022 , auspica un ampliamento e un potenziamento delle competenze degli operatori del collocamento mirato, affinché ci sia un accompagnamento dell’inserimento al collocamento obbligatorio che, per chi scrive, dovrà essere garantito da un seguimento, tempo per tempo, in Azienda e non vi è figura più azzeccata che quella del Disability Manager per realizzare questo obiettivo).

Un ruolo centrale lo avrà la formazione, come anticipato nella risoluzione della Comunità Europea del 13 settembre 2013 in materia di lavoro agile, poi ribadito anche nel protocollo nazionale del 7 dicembre 2021. Avrà l’ambizioso compito di operare una rivoluzione copernicana, una rivoluzione nella cultura sociale, solo quando potremo organizzare il lavoro basandolo su criteri oggettivi, non influenzati dalle caratteristiche fisiche, dall’appartenenza ad un gruppo o dalle diversità di opinione, non più affannosamente all’inseguimento di sistemi correttivi, ex post. Solo allora potremmo dire di aver raggiunto l’obiettivo dell’inclusione.

Ci vorrà il lavoro di tutti con un continuo monitoraggio; quel monitoraggio pensato dall’European Disability Forum, dall’Osservatorio Nazionale sulla Disabilità, e dalla Conferenza Nazionale sulla Disabilità, affinché si possa analizzare la effettiva realizzazione del “progetto individuale di vita indipendente”, circolando le esperienze per creare ricchezza. Per raggiungere questo risultato è necessario che il legislatore, nell’ambito del riordino della materia, preveda un obbligo ex lege emendando art. 3 della legge 68/99, trovando tra l’altro una percorribile risorsa nel Pnrr capitolo 5. Non è pensabile credere che la figura del Disability Manager sia rimessa all’applicazione pionieristica della sensibilità di pochi avveniristici imprenditori.

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Avvocato specializzata in legislazione e diritto parlamentare, autrice di dossier per il Servizio Studi della Camera dei Deputati, è laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Pisa e l'Università di Cordoba (Spagna). Master in Scienze della legislazione e corsi di perfezionamento in Diritto comunitario, Mediazione civile, Mediazione civile in materia bancaria e finanziaria. Membro del Dipartimento Giustizia e  dell’Osservatorio della Lega Salvini Premier in Toscana.