Lo smart working è una buona cosa: riduce le persone affollate negli uffici, taglia gli spostamenti e le relative spese, abbassa i costi di gestione, disincentiva le riunioni. Alla fine forse ottimizza i processi di lavoro. Tuttavia, come spesso capita con le buone occasioni, contiene anche rischi. Un’azienda di servizi, poniamo, di Milano sviluppa smart working all’inizio nelle abitazioni dei dipendenti – a Milano e dintorni. Poi, con l’inglese ormai lingua di lavoro universale e software avanzati che creano ambienti operativi virtuali (Slack, Asana), può scattare l’opzione call center anche per lavori più complessi: se delocalizzi a Shanghai o Bangalore hai costi molto più bassi e prestazioni di quasi pari efficacia. La ripresa, quando sarà il momento, si farà con risorse scarse e la tentazione di delocalizzare servizi sarà forte.

A quel punto bisognerà tenere a mente la lezione di questi mesi. La grande globalizzazione del XXI secolo si è basata, per la parte non finanziaria, sulla delocalizzazione delle produzioni che ha permesso a Occidente tagli di costi, a Oriente accelerato addestramento industriale e manageriale. Quando la Cina lancia la sfida per il primato mondiale e l’America di Trump reagisce con durezza, l’industria comincia a preoccuparsi: in breve tempo i vantaggi di costo sono superati dall’incertezza sulla resistenza delle catene produttive in un ambiente insidiato da scontri fra potenze. L’emergenza sanitaria rafforza il cambio di percezione: la sicurezza diventa il tema prioritario e prevale sul calcolo economico. Il governo Usa preme – anche per difendere i posti di lavoro – e le delocalizzazioni industriali ripiegano.

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A proposito del servizio di TG Leonardo

Dislocare smart working nel Far East non è oggi un’idea facile, ma l’Europa ne è attratta comunque. Per vari motivi: economici, strategici, politici. In una crisi lunga come quella che ci consegna l’emergenza l’export sarà cruciale: serviranno costi compressi e lo smart working globale si rivelerà utile. Il vantaggio economico rischia di non trovare contrasto strategico: sul tema i Paesi Ue sono assai confusi e molti vedono la Cina, una feroce dittatura, come alleato nella partita con l’America di Trump stanca di tollerare comportamenti economici e militari da “free rider” (Obama). Infine c’è il motivo politico: in Europa è tornata, come nei secoli passati, la competizione per la supremazia continentale, riprende a valere la gerarchia di potenza e gli strumenti dell’Unione (istituzioni, norme) sono usati come armi a tali fini. Tutto ciò che rende forti, anche se rischioso, è ben accetto.

È una deriva pericolosa: corrode i legami ideali ancora esistenti fra i popoli europei e mette gli Stati deboli come l’Italia (alto debito pubblico, scarso realismo politico) in gravi difficoltà.


Antonio Pilati è stato componente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e consigliere d’amministrazione Rai ed è autore di numerosi saggi sui media e sulle relazioni internazionali.