Com’era ampiamente prevedibile, le elezioni israeliane di martedì 17 settembre non hanno dato una chiara maggioranza parlamentare. L’esasperata personalizzazione dello scontro politico operata da Netanyahu non ha pagato, almeno questa volta. Lo stallo della situazione parlamentare (il pareggio fra il Likud e Kahol Lavan di Gantz) potrà sbloccarsi a condizione che l’ingombrante figura di Bibi faccia un passo indietro (o tutt’al più di lato) e permetta la nascita di un governo di unità nazionale di centro-destra (comprendente anche Ysrael Beitenu di Lieberman). Uno scenario, questo, tipico dei partiti carismatici alla vigilia dell’esaurimento della spinta vitale dei suoi leader (in Italia possiamo scomodare l’esempio di Silvio Berlusconi). Ma non è delle schermaglie proporzionali che vogliamo parlare o dei referendum su o di Netanyahu (“o con me o con gli antisionisti”), semmai di uno scenario politico-culturale in lenta e progressiva trasformazione.

Circa quarant’anni fa si concludeva l’egemonia laburista alla guida dello Stato di Israele. La vittoria politica di Begin sanciva la crisi della “prima repubblica” israeliana, fondata su un complesso mix fra ideali progressisti e realismo politico, basato sul nesso inscindibile fra “terra” e “redenzione”. L’ascesa del Likud a guida Begin e poi Shamir (con la parentesi “realistica” di Sharon) ha portato alla ribalta le voci di ampi strati sociali dimenticati dalla retorica laburista, coloro che non si ritengono migliori o peggiori di nessuno. L’erede Netanyahu (figlio di Ben Zion, storico e segretario di Vladimir Ze’ev Jabotinsky) è stato capace di proseguire il solco già scavato dalla destra nazional-liberale, puntando sui cavalli di battaglia della sicurezza e dell’identità religiosa. La fine delle grandi speranze degli anni Novanta e Duemila ha sancito il tramonto definitivo del laburismo e la frammentazione del mondo politico israeliano lungo l’asse laici-religiosi.

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Questo pare essere infatti il nodo politico israeliano dei prossimi anni: individuare un equilibrio sempre più precario fra dimensione laica e identità religiosa. Le forze popolari di centro-destra (dal Likud a Kahol Lavan sino a Ysrael Beitenu) devono comprendere lo spazio simbolico della religione ebraica (o sarebbe più corretto chiamare “rabbinica”) nello Stato di Israele. Chi sarà in grado di “divinare” un quadro attendibile del fenomeno (l’utilità della religione civile come instrumentum regni) avrà probabilmente la possibilità di governare il trend demografico che vede l’aumento di popolazione religiosa (haredim) e arabo-israeliana (cristiana o musulmana). La democrazia parlamentare si basa anche e soprattutto sui numeri degli elettori. Non dimentichiamocelo.


Vincenzo Pinto, storico, è direttore della rivista “FreeEbrei” e dell’omonima casa editrice