The American grand strategy in the historical transition: the implications for Italy is the sixteenth Dossier of the Machiavelli, by Zeno Leoni.

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EXECUTIVE SUMMARY

  • American foreign policy is based on an attempt to reconcile the interests of a national economy open to the global system and the maintenance of international military primacy.
  • The American effort to globalize the economy has been paid for by increasing mercantilist competition from rivals such as Germany and Japan, but especially China. With impressive speed, globalization has produced the economic-military rise of China, which now aspires to international leadership.
  • China's economic growth has implications for its own relative military weight in the international arena. Obama and Trump have responded to this trend with the "Asian pivot," confirming that Beijing is the primary strategic competitor.
  • The gradual American disengagement from the Mediterranean represents a question for Italian governments.

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[showhide type=”testo” more_text=”Mostra di più” less_text=”Mostra di meno”]Mentre ci attendono cambiamenti epocali che interesseranno la sfera demografica, tecnologica e lavorativa, anche gli assetti geopolitici mondiali come li conoscevamo fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono entrati in una fase di radicale trasformazione.
Un trend che suscita molto interesse è quello della corrente e futura proiezione della politica estera americana e della sfida egemonica con la Cina. Gli esiti di queste dinamiche avranno importanti conseguenze sul resto del mondo.
Quest’analisi si pone tre obiettivi. Il primo è quello di capire cos’è la grande strategia americana, dissezionarne gli ingranaggi che la muovono e le contraddizioni interne che la ostacolano. Il secondo è quello di fotografare la transizione storica presente, l’emergere della Cina e la strategia americana degli ultimi dieci anni. Il terzo passaggio di questo testo si concentra sulle implicazioni della strategia americana per l’Italia.

La grande strategia americana

L’ordine mondiale del Dopoguerra si regge sull’intersezione tra un’economia sempre più globale ed una rete di unità territoriali sovrane, gli Stati. Avendo gli USA agito come sponsor di suddetto ordine, una definizione di grande strategia americana deve considerare la complessa relazione fra dimensione socio-economica che viaggia attraverso i confini sovrani e quella politico-territoriale, che tale flusso cerca di controllare e regolare. Come evidenzia la geografia sociale e, soprattutto, come si può notare nelle politiche domestiche tanto americane quanto europee, più un’organizzazione «si basa su flussi a-storici [economici], soppiantando la logica di un luogo specifico, più la logica del potere globale sfugge al controllo politico di società locali/nazionali storicamente specifiche … Invece, le élite [nazionali] non vogliono e non possono diventare flussi esse stesse, se devono … dominare gli altri, quindi stabilire i confini “dentro” e “fuori” della loro comunità culturale/politica».
Perciò la grande strategia americana per l’egemonia mondiale rappresenta la ricerca di una sintesi fra “triade wilsoniana” – libero mercato, pace, democrazia – ed il mantenimento del primato geo-politico. La sua forza giace nel riuscito intreccio fra la logica competitiva-capitalista del “espandersi o perire”, da un lato, con gli interessi politici nazionali dall’altro. Soprattutto, questa strategia è nutrita da un circolo vizioso nel quale la potenza economica americana aumenta se lo Stato ha i muscoli politico-militari per sostenere sia le “proprie” aziende nel mercato globale sia lo stato di diritto internazionale ad esse favorevole. Se le società americane hanno successo, i benefici economici per lo Stato possono essere re-investiti in influenza geo-politica, a sua volta utilizzata per proteggere o sbloccare nuove opportunità commerciali.

Le contraddizioni della strategia americana

Allo stesso tempo, la sintesi fra apertura al commercio delle proprie frontiere nazionali e supremazia internazionale rappresenta un’operazione davvero complessa. Questa dicotomia fra interessi in parte contrapposti spesso genera enigmi geo-politici, dove una soluzione che preservi tanto gli interessi economici quanto quelli militari è difficile da raggiungere. Da una parte, la globalizzazione promossa dagli USA con la strategia delle «porte aperte» – mercato globale – e delle «frontiere chiuse» – Stati indipendenti aderenti al modello occidentale – ha portato al superamento degli imperi classici e sbloccato i mercati protetti in cui le aziende americane potevano godere del loro vantaggio tecnologico. Dall’altra, questa apertura (quasi) globale ha fatto sì che le aziende strategiche americane maturassero interessi transnazionali – creando conflitto con gli stessi apparati di sicurezza nazionale – e che si favorisse la competizione di altri centri di potere/Stati rivali.
Dunque, la necessità di mantenere un primato militare, necessario a negoziare con maggior forza regole globali funzionali agli interessi dell’economia americana, porta gli interessi geo-politici a minare quegli stessi interessi economici che si cerca di proteggere, e viceversa. Un esempio di interesse geo-politico che ostacola o danneggia un interesse economico sono le sanzioni, gli embarghi e le destabilizzazioni che abbiamo visto contro Russia, Iran, Iraq, Libia. Mentre la risposta coercitiva degli USA durante l’Accordo del Plaza (1985) contro il successo economico di Giappone e Germania negli anni ‘80 è un esempio di come la libera competizione possa danneggiare gli interessi nazionaliiv.

La transizione storica

Nonostante soluzioni di questo tipo possano minare gli interessi di Paesi alleati, un tale approccio funzionava perché Giappone e Germania avevano da tempo rinunciato ad aspirazioni geo-politiche – anche se ciò potrebbe cambiare in un futuro prossimo. Invece, l’esposizione di Russia o Libia verso gli Stati Uniti è molto bassa, per cui un embargo contro Mosca o l’intervento militare in Libia non hanno ripercussione economiche a Washington, D.C. – anche se ci sono per alcuni Stati europei.
Ma l’ordine mondiale attraversa una fase di transizione di portata strutturale, da un ordine prevalentemente unipolare a uno multipolare, da guida atlantica a guida asiatica (cinese?) non ancora definita nelle forme politiche-istituzionali. Fra il 2000 e il 2010 il centro di gravità geo-economico si è spostato alla più alta velocità nella storia macinando 140 chilometri l’anno dall’Occidente verso oriente. Questo dato serve a segnalare la forte intensificazione delle operazioni economiche in Asia e il calo in Europa, ed è un indice – seppur non rigoroso – del crescente potere asiatico. Ci sono 440 città in forte crescita che entro il 2025 produrranno la metà del prodotto interno lordo mondiale. Sebbene questo trend interessi Asia, Africa e America Latina, la parte del leone la fanno Cina ed India ma anche il Sud-Est Asiatico visto che nei prossimi decenni il 60% della classe media mondiale risiederà nell’Asia-Pacifico.
La Cina è la cause principale di questa tendenza. La sua trasformazione economica avviene su una scala 100 volte più grande rispetto a quella del Regno Unito durante la rivoluzione industriale, e ad una velocità superiore di 10 volte. Il prodotto interno lordo cinese dal 2000 ad oggi è aumentato di dodici volte mentre quello americano è raddoppiato. Il budget militare cinese è cresciuto di quasi venti volte fra il 1998 ed il 2018. Il budget militare americano, invece, è meno del doppio di quello del 1998. Allo stesso tempo però, vanno fatte due precisazioni. In termini assoluti, l’imponenza della crescita cinese dipende dal forte livello di arretratezza da cui partiva. Come per ogni economia “matura”, nei prossimi anni la Cina farà fronte ad un inesorabile rallentamento e se dovesse scendere al 5/6% – come previsto dal Fondo Monetario Internazionale – saranno dolori per tutti. Questa osservazione conduce al secondo punto. La veloce sovra-accumulazione cinese e le asimmetrie socio-ambientali che questa genera mettono Pechino di fronte ad una sfida non meno difficile rispetto alla scalata egemonica. Gli effetti di tali contraddizioni affioreranno in caso di rallentamento del PIL.

La Cina: miglior amico, peggior nemico

Dunque, forzature economico-diplomatiche americane come quelle sopracitate ai danni di Giappone e Germania non possono funzionare contro un partner/avversario come la Cina. L’interdipendenza economica sino-americana, infatti, è la più seria conseguenza delle contraddizioni strutturali di una grande strategia statunitense che si barcamena fra globalismo e nazionalismo; ossia, che ha ambiziosamente progettato una sfera d’influenza globale anziché geo-politica o imperiale – un ossimoro – trasformando l’interesse nazionale nell’interesse di tutti. È per questo che la Cina, combinando una politica estera muscolare nel Pacifico con investimenti alle stelle negli Stati Uniti, assorbimento del debito americano ed un ruolo di locomotiva dell’economia mondiale, rende molto difficile per Washington mantenere «il mondo sufficientemente aperto» per interessi economici delle multinazionali – soprattutto americane – ed allo stesso tempo prevenire l’ascesa di uno sfidante egemonicovii. Infatti, la difficoltà di trovare un compromesso ha portato la politica estera americana verso la Cina a svilupparsi lungo tre direttrici, quelle dei dipartimenti di Tesoro, Stato e Difesa, rispettivamente interessati a apertura economica, cooperazione diplomatica e primato militare. Da questo punto di vista è particolarmente spinosa la questione del rapporto fra Pentagono e Silicon Valley. In un’economia mondiale dove Internet e i dati assumono una funzione sempre più infrastrutturale, aziende strategiche come la Apple maturano interessi legati all’economia cinese. Inoltre, l’integrazione con lo stesso Paese aumenta il rischio di trasferimento tecnologico illegale, e la Silicon Valley è diventata una «tana di spie». Le recenti tensioni fra USA e Cina riguardanti i giganti tecnologici e le aziende dei semiconduttori come Huawei, ZTE, Micron Technology e FujianJinhua esemplificano questo problema.
Il successo della Silicon Valley ci mostra il problema della coesistenza di impulsi globalisti e tentazioni mercantiliste, rendendo il mantenimento dell’egemonia americana un’operazione impossibile per definizione – scientificamente. Il recente brontolio degli intellettuali di corte sul fatto che gli «Stati Uniti sono diventati incapaci di moderare le proprie ambizioni nella politica internazionale», la loro «grande strategia funziona male …», e «rende gli Stati Uniti meno sicuri», va nella direzione di questa tesi.

La politica estera americana nella transizione: 2008-2018

I conflitti in Medio-Oriente, la crisi finanziaria e la transizione sistemica hanno avuto importanti ripercussioni sulla politica estera americana, portando ad un superamento del dopo-11/9. Questo passaggio è avvenuto con discontinuità tattica ma continuità strategica da Obama a Trump. Come confermato di recente anche dal Pentagono, l’enfasi è ritornata sulle competizioni strategiche con Cina e Russia, mentre passa in secondo piano il terrorismo.
Il mantra dell’interventismo umanitario è scemato con la reticenza di Obama e Trump a corpose manovre militari e l’impiego di truppe terrestri – vedi in Afganistan, Libia e Siria. Gli Stati Uniti hanno assunto una posizione di off-shore balancing, una strategia di mantenimento dell’influenza in Medio-Oriente e di contrasto ad una alleanza euroasiatica praticata con interventi indiretti e meno onerosi dal punto di vista finanziario, politico e militare. Un elemento cardine di questa strategia neo-realista che si affida al caos creativo è una crescente enfasi delle élites americane sul bisogno di burden sharing – condivisione degli oneri. Infatti, gli Stati Uniti non mantengono più un interesse diretto in queste regioni, dato che navigano verso una posizione di indipendenza energetica; però permane un interesse indiretto meramente limitato al contrasto di sfidanti egemonici.
Questa linea strategica ha avuto diverse interpretazioni nel passaggio da Obama a Trump che sembrano riflettere le visioni del mondo dei due presidenti. Considerato il suo cosmopolitismo pragmatico, Obama ha tentato di riportare l’Iran all’interno del concerto globale firmando l’accordo sul nucleare. Invece Trump ha fatto maggiore affidamento sull’Arabia Saudita – terzo budget militare al mondo – e sviluppato una retorica aggressiva nei confronti di Tehran. Entrambi i presidenti, però, concordano sul fatto che gli alleati regionali debbano agire con più autonomia.
Ma l’elemento più consequenziale degli ultimi dieci anni di politica estera americana è il riposizionamento geostrategico del perno asiatico. Tanto Obama con il Partenariato del Trans-Pacifico (TPP) quanto Trump con le sanzioni commerciali hanno tentato di minare la potenza geo-politica cinese attaccando la fonte economica di codesta forza, le aziende di Stato. Attraverso l’imposizione di un più rigoroso rispetto delle regole del libero mercato, si è colpito Pechino per proteggere settori industriali americani strategici come la Silicon Valley.
Gli USA sono l’economia che più dipende dall’Internet e quindi la più sensibile a sviluppi sul fronte cibernetico. La mancanza di controllo di quello spazio produrrebbe danni dai costi altissimi per le aziende nazionali. Parallelamente, un intenso lavoro diplomatico ha tentato di consolidare l’influenza americana a ridosso di quello che Spykman chiamava rimland – la cintura marittimo-costiera che avvolge l’Eurasia.

Conseguenze per l’Italia

Considerato il discorso sviluppato nelle precedenti sezioni di questo articolo, la vicinanza all’alleato americano – non solo in quanto tale ma in quanto egemone di turno – ha effetti diversificati.
Da una parte, l’Italia ha pagato l’impegno di Washington a contenere gli interessi politici ed economici nazionali che potessero disturbare gli equilibri della regione mediterranea. Non solo perché gli interessi nazionali possono minare gli scambi economici – lo vediamo in questi giorni nel confronto USA-Cina – ma anche perché possono portare a tensioni fra Stati regionali e intaccare la pace di un equilibrio che regge dal 1945. Geo-politicamente, la strategia di Washington ha portato l’Italia a rinunciare a qualsiasi ruolo nel Mediterraneo. Perseguendo i suoi interessi, l’egemone americano ha fatto scelte che dal punto di vista della propria strategia globale potrebbero rivelarsi fruttuose, ma che stanno avendo una ricaduta sulla stabilità del Mediterraneo.
Dall’altra parte, la vicinanza a Washington concede un vantaggio in generale ed un altro in particolare. In generale, l’alleanza atlantica ha portato ad un basso livello di investimento nella sicurezza nazionale ed internazionale. Se è vero che nell’ordine mondiale le sfere d’influenza non sono mai sparite, è difficile immaginare l’Italia come un’entità scollegata tanto dal sistema americano quanto da quello sovietico o, considerando i giorni nostri, cinese. L’incorporazione nel sistema egemonico americano è il più potente fattore di stabilità sul continente europeo sin dalla fine del 1945, come si può inferire dal teorema della stabilità egemonica.
In particolare, invece, l’amicizia con l’egemone in questa fase storica può scaturire in un maggiore protagonismo in politica estera rispetto al ruolo di altri Stati europei. Questo elemento si è rafforzato nell’ultimo anno per quanto riguarda la corsa a gestire la crisi in Libia. Lo si evince dalle dichiarazioni rilasciate da Donald Trump durante il suo incontro con il Presidente del Consiglio Conte nel luglio 2018. In quell’occasione, Trump sottolineò che «l’amministrazione americana riconosce che l’Italia ha un ruolo di leadership» nel condurre lo sforzo di stabilizzazione in Libia. Sebbene non ci siano stati ancora sviluppi concreti, il meeting fra Trump e Conte ha ricordato che al momento l’Italia rimane il principale partner USA dentro l’Unione Europea – soprattutto se si pensa alla diffidenza franco-americana ed alla Brexit – ed ha portato alla Conferenza di Palermo (12-13 novembre 2018). Come spiegato dall’istituto Brookings, questo ha rappresentato uno sforzo da parte di Roma per «recuperare influenza e controllo sul processo di stabilizzazione libico» rispetto al «attivismo» della Francia.
Viene da chiedersi se la dimostrazione di fiducia verso l’Italia da parte degli USA sia un altro tassello nel puzzle del perno asiatico-pacifico americano, che prevede un disimpegno dal bacino mediterraneo e, più in generale, una linea meno interventista nella regione, come dimostrato dalle amministrazioni Obama e Trump. Se veramente dovesse esserci un cambio nella geostrategia di Washington, ciò chiamerebbe l’Italia ad una maggiore assunzione di responsabilità. Da una parte l’off-shore balancing degli Stati Uniti rappresenta un’opportunità nella misura in cui l’Italia può elaborare una più autonoma politica estera nel Mediterraneo. Invece, ciò può rappresentare un problema se i futuri governi italiani rifiutassero di preparare una strategia nazionale volta a sfruttare al meglio la transizione storica nella regione. In questo contesto d’incertezza, non è sufficiente affidarsi a mantra del tipo «non possiamo restare esclusi dalla comunità internazionale». Le dinamiche della fase storica attuale rendono la comunità internazionale un’entità nebulosa ed in costante trasformazione, quindi ci vuole un’iniziativa concreta invece di andare a rimorchio del vario partner di turno. Se dovesse venire a mancare la stabilità egemonica, l’Italia non potrà restare passiva di fronte ai rischi prodotti da un’inevitabile crescita del protagonismo delle potenze europee nella nostra regione, già visibile fin dall’inizio della crisi libica nel 2011.[/showhide]
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Teaching Fellow in "Challenges to the International Order" at the King's College London / Defence Academy UK.