di Guglielmo Picchi

La Commissione Europea ha firmato a fine anno un trattato denominato Comprehensive Agreement on Investments (CAI) per gli investimenti tra UE e Cina. Se agli addetti ai lavori non è sfuggita l’importanza di quanto avvenuto, i media italiani presi tra lockdown e probabile crisi di governo non hanno posto la dovuta attenzione alla portata geopolitica di questo evento.

In estrema sintesi il trattato CAI prevede tra l’altro condizioni migliori per l’accesso ai rispettivi mercati da parte delle imprese, armonizzazione dei contesti normativi relativi alla trasparenza e la certezza giuridica, garanzie per gli investitori con la salvaguardia reciproca da comportamenti discriminatori e trattamenti ingiusti, trasferimento dei capitali e investimenti senza ostacoli, sostegno a iniziative per lo sviluppo sostenibile tramite l’incoraggiamento di investimenti responsabili e la promozione di norme ambientali e di tutela del lavoro, la stesura di un meccanismo di risoluzione delle controversie tra le parti e l’adozione da parte della Cina di nuove regole interne per eliminare i vantaggi attualmente esistenti, per il mancato rispetto delle aziende cinesi di alcune tutele fondamentali.

La portata del trattato è certamente ambiziosa e forse di maggior valore di quello che per ora esiste tra USA e Cina, e questo dovrebbe convincere anche i più scettici della bontà dell’accordo. Ci sono però alcune criticità che è bene evidenziare.

La prima riguarda indubbiamente l’asimmetria tra UE e Cina relativamente a standard democratici e competitivi.

Se la Commissione Europea e il Consiglio europeo sono diventati inflessibili nell’imporre clausole sullo stato di diritto per l’accesso al Next Generation EU or the recovery fund per i suoi Stati membri (in particolare a Polonia e Ungheria), dall’altro non hanno mostrato dubbi amletici nel firmare un trattato con la Cina di Xi Jinping che – giusto per i distratti, e tralasciando ogni considerazione su pandemia Covid-19, sua origine, sua diffusione, sua mala gestione e su pessima comunicazione e trasparenza da parte del PCC – solo nel corso del 2020 ha continuato e intensificato la repressione ai danni degli Uighuri nello Xinjiang, schiacciato le libertà di Hong Kong e negato il trattato sino-britannico del 1985, bullizzato e minacciato Taiwan, guerreggiato al confine himalayano con l’India uccidendone alcuni militari.

La seconda riguarda la reale volontà della Cina di adempiere ai contenuti del trattato. Se la UE afferma che finalmente sarà disciplinato il comportamento delle imprese statali cinesi, che dovranno da adesso operare secondo condizioni di mercato o meglio “with commercial considerations”, la storia dimostra che già nel 2001, al momento dell’ingresso nel WTO, la Cina fece promesse di convergenza simili (ma completamente inapplicate da 20 anni). La Cina ha già dimostrato nel recentissimo passato di non mantenere fede agli impegni presi internazionalmente, violando apertamente l’autonomia di Hong Kong e il trattato di libero scambio con l’Australia imponendo dazi  unilaterali.

La terza riguarda l’asserita autonomia geopolitica della UE da altri attori, in particolare dagli USA. Infatti, in nome di questa autonomia geopolitica, non si è voluto aspettare l’insediamento della nuova amministrazione americana, nonostante la richiesta fatta dal nuovo National Security Advisor in pectore Jake Sullivan agli europei di non firmare. A sostegno dell’autonomia della UE c’è anche una questione di principio, ossia che il confronto con Washington non c’è stato, tenendo anche conto che gli USA stessi non si erano confrontati con la UE durante la propria trattativa con la Cina per ottenere ciò che, adesso, è stato concesso agli europei. La realtà è che ci sono due elementi che gli europei hanno sottovalutato: da un lato il dogma che gli USA possano garantire la sicurezza e deterrenza militare in Europa per sempre, e questo è tutt’altro che una certezza; dall’altro che una escalation militare nel Pacifico non li riguarderebbe.

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L’ultimo elemento chiama in causa la miopia geopolitica degli europei, che forse pensano si possa avere a che fare con la Cina ignorandone l’autoritarismo, il deficit democratico, il non rispetto di diritti dell’uomo, del lavoro e della tutela dell’ambiente, senza subirne alcuna conseguenza diretta o indiretta.

Perché dunque si è proceduto comunque, nonostante le criticità sopra evidenziate?

Gli interessi economici tedeschi sono alla base della forte pressione che Angela Merkel ha esercitato sui negoziatori per arrivare alla firma del CAI entro la fine del semestre della presidenza tedesca della UE. Sebbene la Germania e la sua cancelliera siano molto sensibili ai diritti umani e al rispetto dello stato di diritto, di fronte alle opportunità commerciali che il CAI potrebbe offrire all’industria tedesca dell’auto tutti i dubbi si sono dissolti.

La conferma che questa sia la chiave di lettura deriva dal fatto che, a difesa dell’accordo, sia intervenuta pubblicamente con un tweet Sabine Weyand, funzionaria tedesca che oggi è a capo della direzione generale del Commercio della Commissione europea. La stessa funzionaria è stata nei team di negoziazione degli accordi CETA, TTIP e Brexit, affermando l’unicità dell’approccio della UE alla Cina di cui il CAI è una pietra angolare. Le altre pietre angolari sono, sempre secondo la funzionaria tedesca, l’applicazione e il rafforzamento di meccanismi già in essere, nonché il lavoro a livello multi- e pluri-laterale con i partner aventi stesso orientamento (ossia con gli USA).

La brutale realtà è che le cose, nella pratica, cambieranno poco per molte delle imprese europee e non ci sarà una vera e propria tutela per le aziende italiane, come dimostra il caso della Goldoni di Modena, azienda di macchine agricole acquisita otto anni fa dai cinesi, i quali dopo aver delocalizzato un po’ di produzione e acquisito tutto il know how l’hanno fatto fallire.

Il risultato ottenuto dalla Cina è di gran lunga superiore a quello geopolitico ottenuto dalla UE. È un successo diplomatico, una ulteriore legittimazione del proprio comportamento, ossia dell’utilizzo della potenza economica per dividere e conquistare aziende delle nazioni europee. Nazioni che escono ulteriormente indebolite da questo accordo, eccezion fatta forse per la sola Germania.

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Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.