di Vincenzo Pacifici

 

Emilio Gentile, nel suo ultimo saggio Quando Mussolini non era il Duce, precisa di averlo seguito “attraverso le parole e i pensieri”. Ugualmente nel mio lavoro Antonio Salandra, pubblicato per le edizioni Fergen nella collana diretta da Gennaro Malgieri, lo ho visitato e studiato alla luce della massima di s. Luca “ex ore tuo iudico” (19-22), così da porsi in netta ed aperta antitesi con le interpretazioni e con le valutazioni storiografiche, molto spesso faziose, non raramente prevenute con punte di astiosità incredibili.

Al di là dei momenti cruciali dell’ingresso nel conflitto mondiale e della esperienza 1914-1916, la figura di Salandra (1853-1931) merita tra quelle del XIX secolo sempre e comunque attenzione e riguardo, ma ha bisogno di una rivisitazione e un ripensamento per l’intero periodo della sua presenza sulla scena pubblica, anche nella prospettiva dei nostri giorni – speriamo siano ore – in cui i valori in cui ha creduto e che ha sostenuto (e non solo lui), sulla scena pubblica e nella vita quotidiana appaiono vilipesi, calpestati – indubbiamente dimenticati. A ben poco infatti, se non ad un momentaneo sfogo, sono serviti gli inni nazionali, cantati in alcuni momenti di questo sconvolgente periodo.

Il pugliese, nato a Troia, diviene deputato nel 1886, sottosegretario alle Finanze nel gabinetto Rudinì (1891-1892), allo stesso incarico con Crispi (1893-1896), ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio con Pelloux (1899-1900), alle Finanze con il I gabinetto di Sonnino (febbraio – maggio 1906), al Tesoro con il II esecutivo del toscano (1909-1910) ed infine presidente del Consiglio e , come è spesso, anzi quasi sempre capitato, anche ministro dell’Interno, dal 21 marzo al 5 novembre 1914 e dallo stesso giorno al 19 giugno 1916.

È sembrata emblematica e programmatica a chi scrive, già professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza – Università di Roma”, questa frase:

La Patria, lo Stato / devono vivere perenni […] / Occorre ardimento, / non di parole ma di opere; / occorre animo scevro da ogni sentimento / che non sia quello / della esclusiva ed illimitata / devozione alla Patria nostra.

Non è sicuramente falsa o infondata l’affermazione secondo cui l’avvocato, il suo ruolo ed il suo operato siano stati pessimamente valutati in ambito storico e di conseguenza sia stato in misura più acuta sottovalutato dalla storiografia. Una prova marginale ma eloquente dell’orientamento maldisposto degli studiosi è recato dalla insistenza sulla pretesa “stanchezza” di Salandra senza rilevare eventuali cedimenti psicologici (non quelli strumentali delle dimissioni) dell’antagonista piemontese, maggiore di 11 anni.

Professore universitario di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione nell’Università di Roma, Accademico dei Lincei, prima corrispondente dal luglio 1904 e quindi nazionale dall’agosto 1907, preside della Facoltà di Giurisprudenza tra il 1906 e il 1910 e tra il 1915 ed 1925, anni di impegno straordinario, non può essere sottodimensionato in un confronto dall’esito preconfezionato, a causa della sua matrice di destra, mai negata o peggio ancora nascosta, rivendicata con orgoglio in ogni passaggio pubblico.

Scompare il 9 dicembre 1931 e nello stesso giorno è commemorato dal presidente del Senato, assemblea in cui era stato nominato dal 30 maggio 1928. Le parole di Federzoni sono tutt’altro che formali e tali da delineare la figura e l’azione politica e senza ipocrisia il rapporto ormai deteriorato con il regime. Si è parlato, non senza fondamento, di “una rottura” “definitiva ed irrevocabile” sin dal gennaio 1923 e consacrata il 3 gennaio 1925. Mussolini lo riconosce “uomo di destra nel senso nobile e austero di questa parola e simpatizzante, negli anni oscuri del dopoguerra, delle forze nazionali, e di quelle del fascismo”.

Centrale sulla discesa in guerra è il discorso del 2 giugno 1915 al Campidoglio. Lo statista di Troia con orgogliosa chiarezza invoca un impegno corale di tutti gli italiani in termini davvero non confusi e non equivocabili: “Nessuno se ne può sottrarre: chi alla patria non dà il braccio, deve dare la mente, il bene, il cuore, le rinunzie, i sacrifizi”. Per Salandra è indispensabile una seria riflessione dei tanti, che in quei mesi essenziali avevano espresso riserve sulla decisione favorevole al conflitto, considerata aggressiva, velleitaria ed espansionistica. Alla Patria – afferma Salandra ed in tanti siamo ancora con lui – si deve offrire il proprio sforzo morale e materiale, così che “dinanzi al tricolore […] si inchinino tutte le bandiere, si fondino tutti gli animi nella fede concorde che in quel segno vinceremo”.

Nel tracciare un consuntivo, uno degli storici autentici del periodo, Brunello Vigezzi, rileva un aspetto, troppo spesso ignorato, secondo il quale “Giolitti e i giolittiani non si riavranno veramente più della sconfitta del maggio ‘15” mentre riconosce che “la «politica nazionale», nonostante tutto, supera la crisi” conservandosi come modello. È stato poi Valiani a porre il suggello ed il sigillo nel momento in cui riconosce che “la vittoria del principio di nazionalità è stato conforme al progresso storico”. In altri termini è risultata prevalente e vincente la linea di Salandra e non quella di Giolitti.

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Tra gli studiosi marxisti, i più prevenuti critici, si è distinto Franco De Felice. Il docente, prematuramente scomparso, è arrivato ad attribuire allo statista di Troia un ruolo cruciale, con la sua alternativa “anche più complessa e consapevole in quanto realmente egemonica nella borghesia italiana. Per questo la costituzione del ministero Salandra rappresenta un momento fondamentale nella storia italiana e segna la fine dell’età giolittiana”.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.