di Vincenzo Pacifici

Il comunismo, oltre il marxismo nella sua globalità, non è affatto morto: anzi, la ricorrenza del centenario del congresso di Livorno ha rianimato l’attenzione mai caduta e tanto meno perduta e conservata a sinistra.

Sono apparsi in questi mesi più recenti saggi, come quelli di Piero Fassino, di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, e il lavoro di Luciano Canfora La metamorfosi, secondo il quale il “partito nuovo”, creato nel 1944, era sostanzialmente diverso da quello iniziale del 1921. Di Galli della Loggia, coautore del volumetto Ombre rosse, va criticata la presunta “capacità” che avrebbero avuto i comunisti italiani di attrarre (recte, acquisire) gli intellettuali, perché “spesso chiamati a un ruolo dirigente”, gratificante in ogni senso.

Sono stati numerosi, caratterizzati da un ricordo, certo devoto e mai negativo, gli scritti attinenti la galassia comunista, come da ultimo quello di Marco De Nicolò, pubblicato da Carocci e presentato dalla Fondazione Gramsci, riguardante Emilio Seren. Su esponenti del Partito Socialista si può contare su un libro dedicato a Lelio Lagorio, con l’autrice Letizia Argentieri “molto critica e molto severa con i vertici del PSI”. Si tratta, dunque, dei tanti legati al PCI, redatti all’interno dello “hortus conclusus” inderogabile ed insuperabile.

Le radici del collega Paolo Pombeni, autore di Sinistre. Un secolo di divisioni, sono dossettiane e quindi distanti sia dal PCI sia dal PSI, sia, in altri termini, dal massimalismo che dal riformismo, capaci di scontrarsi come di allearsi nel lungo periodo del dopoguerra negli enti locali, in una politica del “doppio binario”, di cui fu maestro, scarsamente denunziato, Bettino Craxi.

Enucleiamo, dunque, rilevate le coordinate ideali dell’autore, le pagine più originali e quindi più nuove e quindi più utili alla ricerca storica, condotta senza etichette e tesi prefabbricate e intangibili.

Articolato su una introduzione e su 8 capitoli, dalla scissione della città toscana ad oggi, il “libricino” si concentra sul rapporto tra massimalismo e riformismo, cogliendo le responsabilità della prima linea nel blocco di un rapporto costruttivo con il “costituzionalismo democratico”. Pombeni ha ragione nel sostenere che nel 1948 “l’impegno a mantenere, in caso di vittoria, un sistema pluripartitico competitivo veniva considerato come un abile travestimento tanto dagli avversari che dalla base rivoluzionaria del partito”. Opportunamente poi riprende due giudizi pronunziati in occasione della scomparsa di Stalin (marzo 1953), che meritano di essere ripresi e principalmente conosciuti. Togliatti lo considera “un gigante del pensiero e un gigante dell’azione”, mentre il tanto immeritatamente osannato come “nonno buono” Sandro Pertini lo disse “un gigante della storia [la cui] memoria non conoscerà tramonto”.

Se è tutt’altro che infelice nel rilevare che “in Italia il centrosinistra di governo non dava certo prova di creatività”, l’A. centra il nodo della negativa posizione postconciliare della Chiesa, influenzata e condizionata da scelte di “marca evangelica”. Opportuna per la sua novità è la bocciatura di Craxi, capace solo di sopravvalutare spocchiosamente la “grande riforma” alla base del referendum del 9 giugno 1991. Ammette poi – e la posizione va conservata – che nel 1994 esisteva nel paese “un’ampia quota di popolazione [composta da elettori di destra e di centro berlusconiano e leghista] che non era disposta a riconoscere la sinistra come interprete privilegiata dell’evoluzione storica e ad affidarsi a essa”.

Osservazione valida e accettabile è poi quella sul progetto base del 1955 di Prodi, al solito confuso e velleitario, dal momento che “doveva tenere insieme molti elementi diversi e il collante alla fine era quello di contrapporre un massimalismo di sinistra al massimalismo della destra”. Tutt’altro che disprezzabile è, tra l’altro, la sottolineatura, su prospettiva lunga, di una leadership solo propositiva [recte, solo parolaia] e davvero non ideologica [recte, priva di fondamenti solidi e di motivazioni reali e credibili]. Così come è utile e fruibile la considerazione espressa nei mesi della pandemia della “fragilità e soprattutto dell’obsolescenza di sistemi politici e sociali, che ci si rende conto non potranno più sopravvivere come prima”.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.

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