di Bianca Laura Stan

La caratteristica geopolitica più sorprendente degli ultimi quattro anni non va cercata nel bipolarismo, nel multipolarismo e nemmeno nel conflitto tra grandi potenze. È semmai lo spettacolo delle principali economie che perseguono l’autosufficienza e un parziale ritiro dalla globalizzazione al fine di garantirsi sicurezza, capacità innovativa, stabilità interna e prospettive economiche. Gli Stati Uniti, la Cina e l’India sono attualmente impegnati in quella che sembra un’impresa paradossale: cercare di aumentare il loro status globale e allo stesso tempo di volgersi verso l’interno per diventare più autosufficienti.

Dopo la Guerra Fredda, l’opinione comune riteneva una convergenza economica globale inevitabile, coi Paesi sempre più interdipendenti economicamente. Pochi avrebbero previsto che tre dei principali beneficiari della globalizzazione si sarebbero rivolti all’autarchia. Cina, India e Stati Uniti sono i tre Paesi più popolosi del mondo e, insieme, rappresentano circa il 60 per cento dell’economia globale: una quota molto maggiore di quella che avevano durante la Guerra Fredda. Eppure gli Stati Uniti, sotto il presidente Donald Trump, hanno abbracciato il “nazionalismo economico”, mentre la Cina col presidente Xi Jinping e l’India col primo ministro Narendra Modi hanno optato per “l’autosufficienza”: zili gengsheng in mandarino e atmanirbhar in hindi. A differenza della maggior parte delle principali economie, tutti e tre i Paesi hanno aumentato il PIL pro capite nell’ultimo decennio, riducendo l’esposizione commerciale misurata dal rapporto commercio/PIL. Questo modello di globalizzazione differenziale indica l’ascesa di una nuova autarchia che potrebbe prevalere tra le maggiori economie del prossimo decennio.

 

Una tradizione autarchica?

Tutti e tre gli aspiranti autarchi hanno vecchie tradizioni di relativo isolamento dai mercati mondiali. Gli Stati Uniti sono sempre stati importatori di capitale e lavoro ed esportatori di materie prime, ma la loro principale fonte di crescita è stata il mercato interno. Negli anni ’60 il commercio estero rappresentava solo il 10%del PIL, non molto più delle società comuniste, rigidamente autarchiche, dell’Unione Sovietica (4%) e della Cina (5%). Gli Stati Uniti erano peculiari sotto questo aspetto. Altri Paesi ricchi con mercati interni più piccoli avevano rapporti commercio/PIL assai più elevati negli anni ’60 (il 25% in Francia, il 41% nel Regno Unito). Gli Stati Uniti si sono globalizzati fino al 2011, quando il rapporto commercio/PIL ha raggiunto il picco del 31%, ma da allora è sceso al 27% e le politiche del presidente Joe Biden non sembrano destinate a invertire la traiettoria.

L’autosufficienza è stata a lungo un obiettivo anche in Cina, sebbene sfuggente. Dalla fine del XVII secolo alla metà del XIX la Cina imperiale coltivò la produttività del mercato interno, terminata bruscamente con l’inizio della Guerra dell’Oppio nel 1839. Già nel 1945, il leader comunista Mao Zedong ha sottolineato l’aspetto nazionalista e sovrano dell’autosufficienza: “Su quali basi dovrebbe poggiare la nostra politica? Dovrebbe basarsi sulle nostre forze, e questo significa ‘rigenerazione attraverso i propri sforzi’ [zili gengsheng]”. Il presidente Xi Jinping ha rilanciato questa idea nel 2018, sostenendo che “l’unilateralismo e il protezionismo commerciale sono aumentati, costringendoci a percorrere la strada dell’autosufficienza”. Con questo spirito Xi ha sostenuto lo sviluppo di una base militare-industriale ad alta tecnologia che impedirà una seconda umiliazione della Cina, questa volta grazie al potere dell’innovazione tecnica di fonte statunitense.

Anche l’India ha coltivato una visione di sé stessa come nazione che può prosperare sulla forza del suo ampio mercato interno. L’India produceva quasi un quarto del PIL globale intorno al 1700. Dopo l’indipendenza nel 1947 ha sviluppato una semi-autarchia improntata al principio del “non allineamento”, che iniziò come politica diplomatica e militare ma crebbe fino a diventare un modello di sviluppo che  includeva la sostituzione delle importazioni. L’India ha cominciato ad aprire la sua economia all’inizio degli anni ’90, ma attraverso un processo gestito dall’alto. L’obiettivo dell’atmanirbhar (che si traduce in “India autosufficiente”) di Narendra Modi è raggiungere un livello di innovazione e autosufficienza pari a quello della Cina, creando una base sicura da cui le aziende indiane possono poi cercare nuove opportunità all’estero.

 

Autosufficienza competitiva

Cina, India e Stati Uniti hanno quindi tradizioni di autosufficienza che hanno preparato il terreno per la recente svolta verso l’autarchia, ma tutte e tre stanno rispondendo a preoccupazioni attuali legate alla sicurezza ed emerse con l’intensificarsi della competizione tra le grandi potenze.

La narrativa centrale della Cina dagli anni ’80 è stata basata sulla sicurezza, concentrandosi sul ritorno allo status di grande potenza dopo la sottomissione per mano delle potenze occidentali e del Giappone. Nel 2015 Pechino ha annunciato una politica di “fusione civile-militare”, che ha esplicitamente inquadrato lo sviluppo nazionale-industriale come parte del piano della Cina per liberarsi dalla dipendenza da potenze esterne e garantire un futuro di autosufficienza tecnologica.

Di fronte alla modernizzazione militare della Cina e allo straordinario successo del suo settore tecnologico, gli Stati Uniti hanno iniziato a reputare allarmante la presenza della tecnologia cinese nelle proprie catene di approvvigionamento della Difesa e sono diventati sempre più sospettosi del ruolo cinese nella costruzione di infrastrutture Internet in tutto il mondo. La prospettiva che vaste aree del mondo digitale cadessero sotto l’influenza cinese ha spinto Washington ad adottare un approccio molto più orientato alla sicurezza rispetto all’ascesa economica della Cina. Così, entrambe le nazioni hanno iniziato a esercitare un maggiore controllo governativo sulle parti più dinamiche e globalizzate delle loro economie: la Cina ha messo in ginocchio i suoi giganti della tecnologia attraverso una campagna di “rettifica”, mentre gli Stati Uniti si sono impegnati in attacchi bipartisan contro il potere della Silicon Valley.

Le preoccupazioni per la sicurezza stanno guidando anche le politiche tecnologiche dell’India, dove il governo Modi persegue una sorta di “non allineamento digitale”. Negli ultimi 20 anni le società tecnologiche cinesi, e in misura minore le loro controparti occidentali, hanno costruito gran parte del settore e delle infrastrutture dell’India. Ora che le aziende tecnologiche indiane sono in grado di competere, tuttavia, il governo Modi ha iniziato a regolare la presenza straniera – nel caso cinese, addirittura ad espellerla – con l’obiettivo di promuovere l’autosufficienza tecnologica e salvaguardare la sicurezza nazionale.

 

Differenze di autarchia

Tutti e tre i Paesi hanno trovato nell’autarchia una risposta valida alle crescenti preoccupazioni per la sicurezza, in parte grazie alle dimensioni delle loro economie: hanno mercati interni abbastanza ampi da sostenere un’ampia diversificazione tra i settori senza sacrificare i vantaggi della specializzazione. Ma le dimensioni da sole non spiegano come questi Paesi siano riusciti a diventare meno dipendenti dal commercio estero proprio mentre la maggior parte delle altre grandi economie ne sono diventate più dipendenti.

In India e in Cina la cultura, la politica industriale e altri fattori strutturali hanno ulteriormente facilitato una svolta autarchica. Entrambi i Paesi hanno mercati del lavoro molto ampi con alti livelli di mobilità, bassi livelli di sindacalizzazione dei lavoratori, forti politiche dall’alto verso il basso che disperdono l’industria geograficamente, culture che valorizzano l’abilità e l’imprenditorialità. Hanno inoltre allevato almeno due generazioni di uomini d’affari che credono che la prosperità dipenda dalla partecipazione a catene di valore globali, dall’acquisizione di proprietà intellettuale e dalla vendita di prodotti sul mercato interno. Queste qualità non sono esclusive dell’India e della Cina, ma India e Cina sono gli unici Paesi che le combinano con enormi mercati nazionali e il supporto attivo del governo alle aziende locali. I governi di entrambi i Paesi non solo proteggono le imprese nazionali dai concorrenti stranieri, ma lavorano anche per impedire alle aziende autoctone di monopolizzare determinati settori nazionali. In questo modo, preservano almeno alcuni dei vantaggi della concorrenza.

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Tuttavia, Cina e India dipendono da aspetti dell’economia globalizzata e in rete. Entrambi sono profondamente invischiati in quelle catene di approvvigionamento globali disaggregate che hanno reso possibile la loro crescita. I motori della loro prosperità non sono stati gli enormi progetti industriali pubblici che hanno alimentato l’ascesa del Giappone e della Corea del Sud, ma piuttosto il mondo in rete, con attori in competizione transnazionale per ogni anello della catena di fornitura globale. Xi intende sfruttare la domanda interna di beni finali e intermedi per rendere la Cina un mercato sostenibile, protetto e controllabile che possa impegnarsi discrezionalmente a livello internazionale. Il suo scopo non è la globalizzazione, cioè, ma un mercantilismo globalizzato e in rete, che è anche l’obiettivo dell’atmanirbhar di Modi.

Il quadro è in qualche modo diverso negli Stati Uniti, dove l’avvento del nazionalismo economico è derivato, più che da fattori culturali o strutturali, dalla crescente insoddisfazione popolare verso il neoliberismo. Il “nazionalismo economico” di Trump si è manifestato principalmente sotto forma di dazi e guerre commerciali (la promessa campagna di spese per le grandi infrastrutture non si è mai materializzata), ma queste politiche hanno rotto l’incantesimo della globalizzazione a un prezzo apparentemente basso. La fiducia dei consumatori statunitensi ha raggiunto il massimo storico prima della pandemia, mentre la disoccupazione toccava un minimo storico del 3,5%. La retribuzione media dei lavoratori è cresciuta del 3% all’anno nei primi tre anni di presidenza di Trump. I redditi della classe media sono cresciuti e la crescita del PIL ha superato quello delle economie della medesima classe.

L’apparente successo economico di Trump ha contribuito a legittimare l’idea dell’intervento del governo nell’economia. Nel 2020 Jake Sullivan, un veterano dell’Amministrazione Obama che presto sarebbe diventato il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, scriveva un articolo in cui osservava che “sostenere la politica industriale (in senso lato, azioni del governo volte a rimodellare l’economia) una volta era considerato imbarazzante, ora dovrebbe essere considerato qualcosa di vicino all’ovvio”. Biden ha promesso di spendere 400 miliardi di dollari nell’ambito di una politica di “acquisto americano” e 300 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo diretti dallo Stato, volti ad aumentare l’autosufficienza tecnologica e garantire la base industriale della Difesa. Ora che Biden è in carica, la sua amministrazione ha sostenuto enormi investimenti per aumentare la capacità interna, in particolare nelle infrastrutture.

La sfida dell’innovazione

Quanto durerà questa nuova era dell’autarchia dipenderà in parte dalla durata e dall’intensità della competizione tra le maggiori potenze. I “Tre Grandi” continueranno probabilmente a spingere per l’autosufficienza fintanto che ci sarà una forte concorrenza per la sicurezza. Ma mentre è probabile che le forze politiche rafforzino la tendenza verso il nazionalismo economico, quelle di mercato potrebbero agire nella direzione opposta. L’autarchia soffoca l’innovazione. Essa spesso richiede ingenti investimenti privati – specialmente in India, che manca delle infrastrutture accademiche di ricerca e sviluppo di Cina e Stati Uniti – e gli investimenti privati richiedono mercati. Si pensi alla cinese Huawei, che si è costruita sui mercati esteri. I giganti della tecnologia statunitense guadagnano circa la metà dei loro ricavi sui mercati esteri. Senza tali ricavi, le grandi aziende tecnologiche faticheranno a finanziare la propria R&S, pur mantenendo il proprio vantaggio competitivo. E delle prime dieci grandi aziende statunitensi con esposizione in Cina, solo una, Wynn Resorts, non è un’azienda tecnologica altamente innovativa. L’innovazione americana soffrirà, a meno che le aziende riescano a trovare mercati alternativi per sostituire la Cina.

Il risultato sarà una concorrenza più rigida tra le società tecnologiche statunitensi e cinesi al di fuori dei loro mercati interni e maggiori sforzi da parte dei governi di entrambi i Paesi per esercitare un certo livello di controllo sulla tecnologia al fine di mitigare i problemi di sicurezza. Gli Stati Uniti si concentreranno sulle nazioni alleate più ricche, in Nord America, Europa e Asia. La Cina e l’India si concentreranno sulle parti più povere dell’Asia, del Medio Oriente, dell’Africa e forse dell’America Latina. Questa nuova globalizzazione non sarà come la vecchia globalizzazione. Si baserà tanto sull’autosufficienza quanto sull’apertura e sostituirà l’internazionalismo con il nazionalismo e il mercantilismo.

Autarchia significa guerra?

Un mondo del genere non sarebbe necessariamente più pericoloso. L’autarchia delle grandi potenze è, dopotutto, principalmente difensiva e potrebbe portare a cautela militare e concorrenza industriale a vantaggio di tutti. Il pericolo maggiore è che le grandi potenze possano tentare di bloccare l’accesso alle risorse dei loro concorrenti, come la Cina ha ripetutamente minacciato di fare con i metalli delle terre rare necessari per molti prodotti high-tech. Più sottilmente, le grandi potenze potrebbero tentare di accumulare proprietà intellettuale o impedire la diffusione tecnologica ampliando continuamente la definizione di “risorse strategiche” per includere, ad esempio, tutto ciò che ha a che fare con la progettazione di chip di intelligenza artificiale. Gli Stati Uniti fecero qualcosa di simile con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, provocando un declino dell’economia sovietica (e inducendo pure lo spionaggio industriale sovietico su larga scala). È difficile però che si sperimenti ancora qualcosa del genere. Ci sono troppi attori importanti al di fuori dei “Tre Grandi” che preferirebbero di gran lunga il non allineamento tecnologico e che possono generare innovazioni proprie.

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Laureata in Giurisprudenza e laureanda in Psicologia, scrittrice e giornalista, collabora in Romania con “Anticipatia” e "Geopolitica.ro" e in Italia con "FuturoProssimo.it". Membro del Center for Complex Studies di Bucarest.