di Bianca Laura Stan

La Cina, si dice spesso, padroneggia l’arte del governo economico. Gli osservatori temono che, sfruttando il suo peso economico sempre crescente, Pechino stia riuscendo a comprare buona disposizione e influenza. Durante la pandemia, ha sfruttato il predominio nelle catene di approvvigionamento manifatturiere per ottenere favore donando mascherine e vaccini a Paesi stranieri. E ha utilizzato a lungo sovvenzioni statali scorrette per inclinare il campo di gioco a favore delle proprie aziende.

Pechino ha utilizzato come arma anche le relazioni commerciali in espansione. La Cina ha superato gli Stati Uniti come primo trader mondiale nel 2013 ed è ora la principale fonte di importazioni per circa 35 Paesi, nonché la principale destinazione delle esportazioni di circa 25 Paesi. Il governo cinese non ha esitato a sfruttare l’accesso al proprio mercato di consumo per fare pressione su governi e imprese straniere affinché obbediscano ai suoi desideri politici. Nel 2019, ad esempio, ha annullato la visita di una delegazione commerciale in Svezia dopo che un’associazione letteraria svedese aveva assegnato un premio a un prigioniero politico cinese. L’anno successivo, ha reagito alle richieste dell’Australia di un’indagine indipendente sulle origini della pandemia Covid-19 imponendo dazi su molti prodotti australiani.

Gran parte delle critiche si concentra sulla Belt and Road Initiative projects (BRI), un grande insieme di progetti infrastrutturali (dalle ferrovie ai porti) finanziati dalla Cina e che i critici descrivono come un’impresa imperialista moderna. Con riferimento alla BRI i funzionari statunitensi hanno accusato la Cina di impegnarsi in una “diplomazia della trappola del debito”: affida ai Paesi beneficiari enormi prestiti , quando non sono in grado di rimborsarli, ottiene concessioni strategiche. Molti di quegli stessi funzionari temono che, mentre la Cina affila i suoi strumenti economici, gli Stati Uniti hanno trascurato i propri, dimenticando come trasformare il potere economico in guadagni strategici.

Eppure, uno sguardo più attento rivela che il ruolino della Cina è molto meno impressionante di quanto spesso si pensi. Per prima cosa, i suoi tentativi di governo economico hanno spesso suscitato molta resistenza. Numerosi degli oltre 60 Paesi che ricevono investimenti BRI si sono lamentati di costruzioni scadenti, costi gonfiati e degrado ambientale. Pechino è stata costretta a mettersi sulla difensiva, con il presidente cinese Xi Jinping che si è preoccupato di sottolineare l’importanza di progetti “di alta qualità” and “a prezzi ragionevoli”. Molti partner hanno chiesto un accesso reciproco al mercato cinese; altri si sono ritirati del tutto dalle iniziative cinesi e stanno cercando finanziamenti altrove.

La Cina è riuscita ad espandere massicciamente la presenza economica oltre i propri confini, ma finora non è riuscita a trasformarla in un’influenza strategica a lungo termine. L’economia cinese esercita una forte attrazione gravitazionale ma, come sta scoprendo Pechino, ciò non significa necessariamente che altri Paesi stiano modificando le loro orbite politiche.

 

Cosa vuole la Cina

Negli ultimi decenni, l’impronta economica globale della Cina è cresciuta enormemente. Nel 1995, la Cina rappresentava solo il tre per cento del commercio globale, ma nel 2018, grazie alla massiccia crescita economica, rappresentava il 12 per cento: una quota più grande di qualsiasi altro Paese. Nel 2020, in parte a causa della pandemia, la Cina è diventata il principale partner commerciale dell’UE, sostituendosi agli Stati Uniti. Gli investimenti esteri cinesi si sono espansi rapidamente anche nel mondo in via di sviluppo, con società e banche cinesi che investono denaro nel Sud-est asiatico, in Africa e in America Latina. Pechino ha inoltre assunto un ruolo di leadership attiva nella governance economica globale, dopo aver resistito bene alla crisi finanziaria globale del 2008. Nel 2014 la Cina ha presentato la Asian Infrastructure Investment Bank, una banca multilaterale di sviluppo con una capitalizzazione iniziale di $ 100 miliardi che, da allora, è cresciuta fino a includere più di 100 Paesi. Molti di essi sono partner e alleati tradizionali degli Stati Uniti.

Cosa vuole fare la Cina con tutto questo potere economico? L’opacità del sistema politico cinese porta molti ad attribuirne il comportamento a un processo decisionale centralizzato che persegue una grande strategia coerente, ma in realtà le politiche cinesi sono spesso il prodotto della concorrenza e del compromesso tra un groviglio di attori: governi locali, burocrazie, imprese statali, aziende private e altro ancora. Si pensi alla BRI: quello che era iniziato come un piano vago e tentacolare ha assunto una vita propria, a volte dirottato da funzionari governativi opportunisti e aziende che cercavano di trarne il massimo vantaggio. Molti dei progetti costitutivi sono motivati, più che da un grande progetto strategico, dalle preferenze dei singoli attori.

Un altro errore è presumere che le azioni della Cina siano guidate dal desiderio di esportare il proprio sistema politico autocratico e il proprio sistema economico statalista. È vero: Xi è diventato sempre più repressivo in patria e assertivo all’estero, ma la Cina è ancora preoccupata di salvaguardare i propri interessi più che di cercare di modellare altri Paesi a propria immagine. Anche se la Cina cerca di rimodellare il sistema internazionale per riflettere le proprie priorità, è ben lungi dal cercare di ribaltare del tutto l’ordine costituito.

Ciò che guida veramente la politica economica cinese non sono i grandi progetti strategici o gli impulsi autocratici, ma qualcosa di più pratico e immediato: stabilità e sopravvivenza. L’obiettivo fondamentale del Partito Comunista Cinese è preservare la legittimità del suo governo. La politica economica cinese, quindi, viene spesso impiegata per spegnere incendi e proteggere l’immagine nazionale e internazionale del PCC. La Cina vuole eliminare le critiche e premiare coloro che ne sostengono le politiche. Ciò è particolarmente vero quando si tratta di questioni che riguardano la sovranità nazionale e l’integrità territoriale (vedi Taiwan, Tibet, la Cina orientale e il Mar Cinese Meridionale) e la governance interna (come il trattamento degli uiguri nello Xinjiang e la gestione della Covid-19).

Pechino cerca di convertire l’abilità economica in influenza geopolitica in molti modi diversi. La Cina ha spesso sfruttato le dimensioni del suo mercato interno per imporre restrizioni commerciali ai Paesi che desidera punire, ma in modi mirati e simbolici che riducano al minimo i danni alla propria economia. Ha imposto sanzioni alle esportazioni di salmone norvegese dopo che il dissidente Liu Xiaobo è stato insignito del Premio Nobel per la Pace, e ha bloccato le esportazioni di banane filippine dopo una riacutizzazione delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale; in entrambi i casi per presunti motivi di sicurezza alimentare. Ha anche approfittato delle proprie dimensioni incoraggiando i boicottaggi, esortando i consumatori cinesi, ad esempio, a non servirsi in una catena di grandi magazzini sudcoreana per dissuadere Seul dal dispiegare un sistema di difesa missilistico guidato dagli Stati Uniti.

Ma forse la caratteristica più importante della strumentalizzazione politica dell’economia da parte cinese è l’uso di incentivi positivi. Questi si presentano in due forme: sottobanco (Pechino compra i leader politici attraverso accordi illeciti) o alla luce del sole (sfrutta gruppi di interesse stranieri per fare pressioni sui governi chiedendo relazioni più strette con la Cina).

 

Il metodo sovversivo

La Cina spesso fornisce incentivi economici in modi illeciti e opachi, che aggirano i processi e le istituzioni politiche. Poiché le aziende cinesi hanno investito sempre più all’estero, le imprese statali o private, a volte con la tacita approvazione dei funzionari cinesi, hanno offerto tangenti alle élite nei Paesi che ricevevano investimenti o progetti di aiuto, al fine di ingrassare le ruote della burocrazia. Altre volte, le aziende cinesi hanno aggirato il processo di offerta competitiva e l’approvazione normativa per garantirsi un contratto, spesso a costi gonfiati, generando profitti extra sia per gli attori cinesi sia per le élite locali. Queste “carote” illegali riflette l’economia politica interna della Cina, dove le imprese dipendono da connessioni ufficiali, la corruzione è diffusa, e pochi regolamenti disciplinano gli investimenti e gli aiuti esteri. Questo metodo funziona meglio nei Paesi che hanno poca trasparenza, dove il flusso di informazioni è limitato ed i leader politici non devono preoccuparsi dell’opinione pubblica e dello stato di diritto.

La Cambogia è un esempio calzante: i dettagli degli aiuti e investimenti cinesi sono oscuri, ma le informazioni che emergono suggeriscono che il governo sia profondamente corrotto dall’influenza cinese. I progetti finanziati dalla Cina tendono ad arricchire le élite mentre sfrattano i poveri e degradano l’ambiente: così è successo nella provincia sud-occidentale di Koh Kong per la costruzione di un enorme complesso di sviluppo che includerà un resort, un porto, un aeroporto, centrali elettriche, zone di produzione, strade e autostrade. La generosità cinese verso le élites cambogiane ha acquistato l’appoggio di Phnom Penh a Pechino nei consessi internazionali: nel 2012, presiedendo un vertice ASEAN, la Cambogia ha impedito ogni discussione sul Mar Cinese Meridionale, tanto che non si è giunti nemmeno ad una dichiarazione finale.

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Una dinamica simile si sta verificando nell’Europa orientale, mentre in quella occidentale la Cina fatica a raccogliere i frutti più succulenti, dovendo accontentarsi di aver smorzato le critiche internazionali e innescato imbarazzanti divisioni pubbliche su questioni riguardo alle quali i Paesi europei prima erano uniti.

La sovversione cinese non ha funzionato altrettanto bene nei paesi con maggiore trasparenza e supervisione. Nelle Filippine, durante la presidenza di Gloria Arroyo (2001-2010), la Cina ha accettato di finanziare e costruire infrastrutture ferroviarie e di telecomunicazioni per un valore di 1,6 miliardi di dollari. Molti dei progetti sono stati aggiudicati tramite contratti senza appalto ed estremamente costosi, in cambio di corpose tangenti ai politici locali. La vicenda illecita è stata smascherata dalla stampa e ne è seguita una reazione popolare. Il governo ha dovuto sospendere una serie di progetti finanziati dalla Cina e alcuni dei corrotti sono stati messi sotto processo. I successori della Arroyo si sono rivelati più cauti nei confronti di Pechino.

Qualcosa di simile è accaduto anche altrove. Nel 2017 un politico di spicco in Australia è stato costretto a dimettersi perché sospettato di essersi venduto ai cinesi: l’anno successivo il parlamento australiano ha inasprito le leggi sulle interferenze politiche straniere. Nel 2015 il presidente dello Sri Lanka non è stato rieletto dopo aver dato il via libera a progetti infrastrutturali cinesi insostenibili e fonte di corruzione; tre anni dopo la stessa sorte è toccata al presidente delle Maldive. Nel 2018 il premier della Malesia Najib Razak è stato costretto alle dimissioni e successivamente incarcerato per scandali di corruzione legati a finanziamenti gonfiati dalla Cina.

 

Il metodo legale

La Cina a volte adotta una forma più legittima di seduzione. Questo metodo è radicato in una logica più ampia di interdipendenza economica: la Cina cerca di coltivare gli stakeholder stranieri che hanno interesse nelle buone relazioni con Pechino. Promuove il commercio e gli investimenti in più settori, nella speranza che si possa contare sui gruppi che beneficiano dello scambio economico con la Cina per fare pressione sui propri governi. Convinti da queste élite del settore privato dell’importanza dell’economia cinese, i leader politici lavoreranno per ridurre al minimo qualsiasi disaccordo con Pechino.

Nei Paesi in cui c’è stato di diritto e controllo dall’opinione pubblica – luoghi meno adatti agli incentivi illeciti – questo approccio ha funzionato bene fino ad ora. Nel 2016, ad esempio, un’impresa statale cinese ha acquistato una quota di maggioranza nel più grande porto della Grecia, il Pireo, e ha proceduto alla sua modernizzazione. Il governo greco, a sua volta, è diventato notevolmente più riluttante a mettersi contro la Cina: ha annacquato una dichiarazione dell’UE sulle azioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e ne ha bloccato un’altra sulla repressione dei dissidenti in Cina.

In Australia grandi uomini d’affari hanno criticato la legislazione che cerca di combattere le interferenze straniere e hanno fatto pressioni affinché il governo sostenga la BRI. Funzionari locali hanno firmato accordi BRI e aggiudicato contratti al gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei. Le università australiane hanno annullato eventi che potevano offendere la sensibilità cinese, sono rimaste in silenzio mentre docenti erano costretti dagli studenti cinesi a scusarsi per aver deviato dalle posizioni di Pechino e, in un caso, hanno sospeso uno studente per aver criticato il Partito Comunista Cinese.

Rispetto agli sforzi sovversivi, il tentativo di coltivare il sostegno di gruppi d’interesse sembra un approccio migliore e più sostenibile: crea un coro di voci che spingono per un più stretto allineamento con la Cina. Tuttavia, questa strategia ha i suoi contro: i ritorni politici arrivano dopo più tempo e coltivare gli stakeholder sta diventando sempre più difficile, man mano che l’economia cinese si sposta lungo la catena del valore e fa concorrenza nei settori a più alto valore aggiunto.

Prendiamo gli Stati Uniti. Negli anni ’90 le imprese americane, attirate dall’accesso al mercato cinese, fecero pressioni con successo sul presidente Bill Clinton affinché estendesse lo status di “nazione più favorita” alla Cina. Oggi, al contrario, si lamentano di politiche discriminatorie, furti di proprietà intellettuale e restrizioni all’accesso al mercato cinese, e fanno pressioni per misure punitive.

 

Come perdere gli amici

La politica estera sempre più aggressiva di Pechino minaccia di oscurare il richiamo positivo dell’impegno economico. La sua diplomazia “Wolf Warrior” (uno stile aggressivo di politica estera che prende il nome da un paio di film d’azione cinesi) ha peggiorato le relazioni con molti Paesi. La crescente tendenza a ricorrere alla coercizione economica ha ulteriormente evidenziato gli svantaggi dell’interdipendenza. Quando Pechino, in risposta alle richieste dell’Australia per un’indagine sulla fonte della pandemia, ha imposto dazi e divieti commerciali su carbone, legname, vino, frutti di mare e altri prodotti australiani, ha finito per accrescere l’influenza di coloro che in Australia sono più critici verso la Cina.

Finora Pechino è stata per lo più in grado di raggiungere obiettivi transazionali a breve termine ma, al di fuori di un piccolo sottogruppo di Paesi dittatoriali, l’influenza strategica a lungo termine della Cina rimane limitata. La maggior parte dei Paesi che la Cina ha preso di mira non ha compiuto grandi cambiamenti nel proprio allineamento geopolitico; nella migliore delle ipotesi, le hanno offerto impegni retorici e simbolici.

Non riuscendo a riconoscere come le sue strategie potrebbero svolgersi in diversi contesti politici, la Cina ha provocato contraccolpi invece di raccogliere consensi. Gli investimenti cinesi sono stati spesso politicizzati, cosicché i partiti non al governo li hanno criticati. I frequenti scandali di corruzione prodotti da tali investimenti hanno fornito ancora più spunti ai critici. La Cina deve fare i conti con la caotica politica interna di altri Paesi molto più di quanto vorrebbe. Si pensi al corridoio economico Cina-Pakistan, un fiore all’occhiello della BRI. Ha incontrato molti ostacoli politici ed economici quando i politici pakistani si sono messi a litigare sui progetti infrastrutturali. In Sri Lanka, l’idea e l’impulso per il porto di Hambantota finanziato dalla Cina e spesso pubblicizzato come il classico caso di diplomazia della trappola del debito, in realtà provenivano dai politici locali, che hanno assegnato l’appalto a un’impresa statale cinese solo dopo che lo avevano rifiutato da Stati Uniti e India. La storia di Hambantota non è quella della Cina che si assicura un premio geopolitico – il porto non è né economicamente sostenibile né geograficamente adatto per l’uso navale – ma quella dello Sri Lanka che costruisce una cattedrale nel deserto.

La politica economica non è mai facile. Le misure coercitive, come le sanzioni, spesso non riescono a convincere l’obiettivo, indipendentemente dal fatto che siano imposte da Washington o da Pechino. Sebbene il richiamo degli incentivi possa sembrare più promettente, comportano anche dei rischi. Nel caso della Cina, il fallimento è stato più la regola che l’eccezione. Questo perché il successo degli incentivi dipende in gran parte dalle dinamiche politiche nei Paesi beneficiari. Durante la Guerra Fredda, ad esempio, gli aiuti americani ai Paesi in via di sviluppo in Africa e America Latina hanno sostenuto le dittature, mentre in Europa il Piano Marshall è riuscito a rafforzare le democrazie. Pechino potrebbe scoprire che il suo stile sovversivo funziona bene negli Stati corrotti e autoritari, ma probabilmente continuerà a faticare in quelli più aperti e trasparenti.

Alla fine, la crescente presenza economica all’estero idella Cina, in particolare se accompagnata da sovversione e coercizione, può esacerbare i timori strategici in tutto il mondo. I governanti cinesi possono ancora pensare che lo sviluppo economico promuova naturalmente la buona volontà e la gratitudine tra i destinatari, ma ci sono ottime ragioni per credere non sia così. La Cina, a quanto pare, non può contare sulla conversione automatica del crescente peso economico in una nuova realtà geopolitica.

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Laureata in Giurisprudenza e laureanda in Psicologia, scrittrice e giornalista, collabora in Romania con “Anticipatia” e "Geopolitica.ro" e in Italia con "FuturoProssimo.it". Membro del Center for Complex Studies di Bucarest.