di Emanuele Mastrangelo
Algerino-tedesca. No. Dei bassifondi neri di Washington e imparentata con un famoso rapper. No. Figlia di una portoricana tossicodipendente passata per Ellis Island… Questi erano alcuni degli alberi genealogici con cui Jessica Krug, trentottenne, ormai ex docente alla Università George Washington, si presentava per vantare una sorta di «punteggio razziale dello svantaggio» e presentarsi come «coloured» a colleghi, giornalisti e studenti. Ma la Krug non è affatto appartenente a una minoranza svantaggiata. Ebrea di Kansas City, è cresciuta in un ambiente agiato studiando in scuole la cui retta – oggi – supera i 22.000 dollari l’anno. Ma cosa ha spinto la Krug a fingersi «colorata»? La mania americana per la «discriminazione a rovescio», per la quale le carriere e le attività editoriali dei docenti sono facilitate se si hanno «punteggi di svantaggio» e gli stessi studi pubblicati sono molto meno oggetto di revisione critica da parte dei colleghi. Tanto che l’ultimo saggio della Krug – Fugitive modernities, 2018, Duke Press – che è un’accozzaglia di invenzioni fantasiose su una presunta comunità anti-schiavista dell’Angola durante il dominio portoghese e la tratta atlantica, scritto nel gergo woke degli attivisti americani e, per stessa ammissione della Krug, privo di fonti scritte od orali sui fatti raccontati, è stato messo in discussione da altri accademici solo ora che la carrozza si è trasformata in zucca.
Nel frattempo la Krug ha potuto fare una fulminante carriera, sopravanzando colleghi storici non altrettanto «sfortunati» per origini familiari. Mentre i suoi omologhi lottavano a coltello per posti di assistente o docente part-time, lei riusciva a ottenere nel 2010 il ruolo di assistente senza neppure aver completato il dottorato, e nel 2018 otteneva la cattedra di associato alla George Washington con un ambitissimo contratto a tempo indeterminato, riuscendo anche a spuntare finanziamenti a diversi zeri per le sue «ricerche» che poi si riassumevano in un continuo attivismo propagandista e rabbioso contro i «bianchi», il «patriarcato», l’«eteronormatività» e ovviamente la polizia americana e il suo «razzismo». Paradossalmente poi le lezioni della Krug – che comprendevano perfino l’apologia di fattacci di cronaca, come l’assassinio a colpi di machete di un ragazzino del Bronx accusato di fare l’informatore per la polizia – venivano svolte in slang portoricano – il barrio – risultando così caricaturali, così come caricaturali erano le mise con cui si presentava in pubblico e nelle foto ufficiali, con il tipico cattivo gusto di una vaiassa dei bassifondi.
Ma straordinariamente, finché è durata la credulità di colleghi e studenti circa la sua provenienza etnica, nessuno di questi atteggiamenti, né l’oggettiva ridicolaggine dei suoi studi universitari, è mai stata oggetto di critica, anzi. Ora invece che il re è nudo, gli altri docenti iniziano a interrogarsi sulla rapidità della sua carriera e l’attendibilità del suo lavoro accademico, mentre gli studenti – specialmente quelli afroamericani o caraibici – si dichiarano “oltraggiati” dalla “appropriazione culturale” della Krug e dagli “stereotipi” impiegati per sembrare «una di loro».
Alla fine, messa alle strette, la Krug ha riconosciuto la verità in un post sul social “Medium” gettando la colpa delle sue menzogne su presunti “problemi mentali” e senza scusarsi, ma offrendo le sue dimissioni dall’università di Washington. Un atto più che obbligato, visto che i suoi colleghi, una volta scoperta la verità, hanno scritto una lettera aperta chiedendole ufficialmente di dimettersi, pena l’espulsione dal corpo docente.
Ma la Krug non è affatto un caso isolato. Nell’ambiente liberal sono numerosi i casi, tutti al femminile, di impostura razziale. Satchuel Paigelyn Cole, nata Jennifer Benton, attivista del Black Lives Matter e di altre organizzazioni per i diritti dei gay e degli indiani, è stata smascherata lo scorso anno. Poco dopo è toccata a CV Vitolo-Haddad (CV è il nome che l’ex docente dell’Università del Wisconsin-Madison impiega), in contemporanea quasi con la confessione della Krug. Peggio ancora è andata a Rachel Dolezal, più nota come Nkechi Diallo, attivista e ultrà anti-bianchi, che è stata accusata di frode ai servizi sociali per aver sfruttato la sua presunta origine afroamericana per ottenere benefici.
Esiste un misto di furbizia truffaldina e di problemi psicologici alla base di questi comportamenti. Infatti la società americana tende a premiare sproporzionatamente i membri delle minoranze etniche e sessuali rispetto ai loro oggettivi meriti, nell’ansia di ricerca di una «uguaglianza» forzata. Alla base di queste politiche – e dell’interiorizzazione morbosa che moltissimi americani hanno nel nome del politicamente corretto – c’è la coltivazione di un sentimento di colpa da espiare. La combinazione di queste due componenti crea l’ambiente perfetto per le imposture, dal momento che questi personaggi raccontano alla società americana – e soprattutto alla sua parte liberal – esattamente ciò che essa vuol sentirsi raccontare.
Editor of the Centro Studi Machiavelli “Belfablog,” Emanuele Mastrangelo is editor-in-chief of “CulturaIdentità” and has been editor-in-chief of “Storia in Rete” since 2006. A military-historical cartographer, he is the author of several books (with Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).
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