Il sito de “Il Giornale” ha pubblicato, come estratto dal libro di Stefano Graziosi e Daniele Scalea Trump vs. everyone. America (and the West) at the crossroads, la prefazione firmata da Daniele Capezzone.

 

Questo saggio di Stefano Graziosi e Daniele Scalea è letteralmente prezioso: merita di essere studiato con attenzione, e tenuto a portata di mano fino alle elezioni del 3 novembre. Infatti, in un panorama “informativo” tutto schiacciato da una sola parte, che non esita a descrivere Donald Trump come un mostro da abbattere, come un fantasma da esorcizzare, come una parentesi da chiudere, questo libro svolge una funzione essenziale: ricostruisce in modo razionale gli eventi dal 2016 a oggi; mostra le ragioni sociali profonde che determinarono l’inatteso successo di Trump; descrive la campagna ossessiva – mediatica, giudiziaria e dello stato profondo – scatenata per quattro anni contro l’attuale inquilino della Casa Bianca; demistifica bugie e false narrazioni, pur senza nascondere errori e peculiarità caratteriali di Trump; e soprattutto mette in luce le due sfide strategiche che si preparano all’orizzonte, chiunque sia il vincitore del prossimo confronto elettorale statunitense.

Prima sfida: sul piano globale, la dittatura comunista cinese, con il suo espansionismo, il suo militarismo, la sua attitudine alla repressione della libertà non solo entro gli immensi confini nazionali, le sue pratiche commerciali scorrette, la sua capacità “acquisitiva” e di esercizio di influenza geopolitica.

Seconda sfida: nel nostro campo occidentale, la cancel culture come stadio ulteriore e più aggressivo del politicamente corretto, come volontà di accreditare una sola lettura della storia, come propensione a schiacciare il dissenso, come colpevolizzazione costante dell’Occidente e della nostra civiltà, come inclinazione orwelliana a imporre l’uniformità in nome della diversità (nella neolingua oggi corrente, prima ci si spiega che le diversità sono una ricchezza, e poi però si bastona selvaggiamente ogni opinione dissenziente e non omologata).

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Inutile girarci intorno: in assenza del terremoto sanitario ed economico causato dal Coronavirus, Donald Trump sarebbe stato avviato a una riconferma larga e spettacolare. Basti pensare che, grazie ai suoi tagli di tasse e un andamento economico record, ancora a febbraio scorso, prima del Covid 19, la disoccupazione negli Usa risultava pressoché azzerata, al 3,5%, ai minimi da oltre cinquant’anni. Dopo di che, il Coronavirus ha cambiato tutto. Secondo gli avversari di Trump, a causa della sua sottovalutazione specialmente iniziale del problema. Secondo gli osservatori meno prevenuti, per un oggettivo tsunami senza precedenti determinatosi in mezzo mondo, e quindi anche in America.

Certo, Trump inizia la volata finale della campagna elettorale in ritardo, secondo tutti i sondaggi. Allo stesso tempo, però, non va dimenticato che si tratta dei medesimi sondaggi che quattro anni fa lo davano per spacciato. Morale: è saggio riconoscere che oggi il presidente uscente è costretto a inseguire, ma è altrettanto prudente non darlo già per sconfitto. Anche perché, e questo mi pare sia il cuore del ragionamento e del racconto di Graziosi e Scalea, qualunque sia l’esito del voto di novembre, un numero elevatissimo di elettori Usa (circa la metà) e alcuni problemi non spariranno affatto, ma resteranno eccome. I colletti blu della Rust Belt (e non solo quelli), un ceto medio e medio-basso il cui living standard era crollato da anni (e che aveva visto proprio nel quadriennio Trump i primi segnali di una controtendenza positiva), un pezzo enorme di società americana che non ha nulla a che vedere con il tenore di vita, le conversazioni, le atmosfere di New York o della California: ecco, questi elettori, questi americani, ci sono e ci saranno ancora. A loro Trump ha dato voce, e c’è da immaginare che – in una forma o nell’altra – continuerà a farlo. …CONTINUA A LEGGERE SU ILGIORNALE.IT…