di Nathan Greppi

Prima ancora di uscire nelle sale e sulle maggiori piattaforme streaming, Mulan, versione con attori in carne e ossa dell’omonimo film d’animazione Disney del 1998, fu preso di mira da più parti a causa di alcune polemiche di natura politica: talune, legate alla critica della politica cinese, riguardano ad esempio delle dichiarazioni dell’attrice protagonista Liu Yifei a favore della polizia di Hong Kong quando questa reprimeva le proteste del 2019; un’altra questione riguarda il fatto che il film sia stato girato nello Xinjiang, dove il governo di Pechino ha istituito dei campi di concentramento per i musulmani uiguri dove vengono praticate persino sterilizzazioni forzate.

Ci sono state, tuttavia, polemiche legate più a quel politicamente corretto che negli ultimi anni è diventato sempre più pervasivo nella cultura pop anglosassone: la prima riguarda il personaggio del Capitano Li Shang, che nel film originale era il superiore della giovane con la quale sembra poi nascere una relazione. Per quest’ultimo aspetto, nel remake il personaggio è stato rimosso per non irritare le femministe del MeToo, per essere sostituito da due personaggi bisessuali. E sebbene gli attori fossero tutti asiatici, il film è stato criticato perché c’erano “troppi bianchi” nella produzione.

I casi sopra citati rientrano in un contesto più ampio: negli ultimi anni la Disney, così come gran parte dell’industria culturale statunitense, ha introdotto nei propri film temi e cliché appositi per soddisfare le richieste di coloro che vogliano un cinema più “inclusivo”, ossia dove viene dato maggiore spazio a donne, gay, neri e altre minoranze. Un fenomeno che ha (forse) raggiunto il culmine con la decisione di premiare agli Oscar, a partire dal 2024, solo quei film che includeranno una certa quota di minoranze nel cast e nella produzione.

Da quando la Disney ha iniziato a fare remake in versione live action dei suoi vecchi classici, non si contano le censure e le modifiche che vanno in questa direzione: nel 2017, quello de La Bella e La Bestia fece notizia perché rispetto all’originale fu introdotto il primo personaggio apertamente gay. Nella nuova versione de Lilli e il Vagabondo, invece, furono cancellati due gatti siamesi accusati di stereotipare gli asiatici. Ma la modifica più eclatante fu nella nuova versione di Aladdin, dove la principessa Jasmine viene addirittura nominata “sultano” dal padre. Si è salvato da questi rimaneggiamenti il remake de Il Re Leone, che forse è stato accusato di essere un film “fascista” proprio perché è quello più fedele all’originale. Un’accusa, questa, che veniva rivolta a questi cartoni già negli anni ’90.

Questa deriva si riflette anche sulla piattaforma streaming Disney Plus, che ha deciso di aggiungere un avviso per gli utenti che segnala contenuti ritenuti razzisti prima della riproduzione di vecchi classici. Da notare che questa tendenza si riflette anche nelle altre società del gruppo Disney, come la Marvel.

C’è da dire che anche i vecchi classici Disney erano a loro volta “edulcorati” rispetto alle fiabe e ai libri da cui erano tratte: basti pensare che nelle fiabe originali dei Fratelli Grimm, la matrigna di Biancaneve divorava il cuore di cinghiale che il cacciatore le aveva portato spacciandolo per quello della principessa, e le sorellastre di Cenerentola si tagliavano il tallone per far entrare i piedi nella scarpetta di cristallo. E che dire della Sirenetta, che nel libro di Hans Christian Andersen moriva trasformandosi in schiuma, o che nella mitologia greca Ercole uccideva degli innocenti in preda all’ubriachezza? Quello rimasto più fedele all’originale è Il gobbo di Notre Dame: sebbene nel romanzo di Victor Hugo sia Quasimodo sia Esmeralda muoiono e nel cartone no, in entrambi si parla del desiderio fisico che il malvagio giudice Frollo provava per la giovane zingara. Tra i recenti remake, quello de Il libro della Giungla presenta un livello di violenza maggiore rispetto al cartone, ma che forse lo rende più vicino al romanzo originale di Rudyard Kipling.

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I cambiamenti attuati dalla Disney della prima generazione sono dovuti al fatto che le opere originali, e in particolare le favole, avevano come scopo primario quello di aiutare i piccoli a esorcizzare e rielaborare le proprie paure tramite la fantasia, nonché a trasmettere loro una morale. Lo scopo dell’azienda, invece, era prima di tutto commerciale. Tutto questo pone dei seri interrogativi su come si adattano i classici della narrativa e dello spettacolo ai tempi che cambiano: è giusto snaturare un’opera d’arte in base ai gusti del pubblico od occorre tracciare un confine? Nel caso, è diverso rendere un’opera violenta più adatta ai bambini dal cedere alle richieste di attivisti fanatici? Domande alle quali è difficile rispondere.

Walt Disney non si è mai curato degli aspetti politici o ideologici dei suoi lavori. La compagnia ha iniziato a cambiare approccio nell’ultimo ventennio anche per tenere testa alla rivale Dreamworks; come spiega il saggio Dreamworks Animation di Simone Soranna e Matteo Mazza, la compagnia fondata da Steven Spielberg è riuscita a ritagliarsi un ampio spazio proprio ribaltando convenzioni artistiche e modelli narrativi che duravano da decenni. Per restare in cima, la Disney ha dovuto correre ai ripari cercando anch’essa di proporre storie diverse, il che da un lato gli ha permesso di creare personaggi più complessi e con una maggiore profondità, ma dall’altro li ha portati a volte a stilizzarli eccessivamente, ad esempio in chiave femminista (basti pensare a Ribelle, Frozen and Oceania). Si rimuovono vecchi stereotipi solo per crearne di nuovi, magari anche peggiori.

Comunque la si pensi, sta di fatto che la deriva intrapresa dalla Disney sarebbe stata difficile da immaginare fino a pochi anni fa. Non serve andare troppo indietro nel tempo per trovare opere che oggi potrebbero essere malviste: basti pensare a Nightmare Before Christmas, dove il messaggio di fondo era l’incompatibilità tra culture e mentalità troppo diverse, il cui mescolamento porta a dei disastri. Per fare un esempio legato ai fumetti, nei primi anni 2000 uscì una storia di Paperino in cui una specie aliena nota come “beebeeiani” invadeva Paperopoli sostituendosi gradualmente alla popolazione locale, in un modo che richiamava palesemente il tema dell’immigrazione senza regole. Paperino invitava i suoi concittadini all’accoglienza e alla tolleranza, salvo cambiare idea quando anche lui viene danneggiato personalmente dai nuovi arrivati, e a quel punto li convinse a tornare indietro suscitando in loro la nostalgia per la “propria casa”. Una storia, questa, che oggi non verrebbe mai pubblicata.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek and Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).