Se scrivete «It’s ok to be white» («va bene essere bianchi») su Facebook avete un’ottima probabilità d’essere bloccati all’istante secondo le «linee guida» del social. Essere orgogliosi d’avere la pelle bianca è un atto di «razzismo». Non è ben chiaro per quale motivo cantare «Vorrei la pelle nera» (Nino Ferrer, 1967) è considerato antirazzista, mentre il contrario no.

In questo clima si verificano episodi come quello denunciato lo scorso 12 febbraio da “The College Fix” – testata online americana che rappresenta una finestra aperta sulla vita dei campus universitari statunitensi, vero focolaio d’infezione di ogni trovata sociopatica degli ultimi 50 anni.

«Ci sono troppi bianchi qui». In un video divenuto virale, una studentessa di colore entra nella sede del Centro Studentesco Multiculturale dell’Università della Virginia e annuncia di dover fare una comunicazione di servizio: «Ci sono troppi bianchi qui», appunto. «Se non lo sapevate, questo è il MSC [Multicultural Student Center] e, francamente, ci sono troppi bianchi qui. Questo è uno spazio per le persone di colore. Quindi, siate davvero consapevoli dello spazio che state occupando, perché mettete a disagio alcuni di noi POC [person of color] quando vediamo troppi bianchi qui. È aperto solo da quattro giorni e francamente c’è l’intera università per molti di voi e ci sono pochissimi spazi per noi. Quindi tenetelo a mente. Grazie». Seguono applausi. E migliaia di condivisioni sulla rete. Il tutto mentre i rappresentanti studenteschi di questo circolo, contattati dai giornalisti, si trincerano dietro il no comment, il rettorato dell’ateneo si limita a dire che i centri «sono aperti a tutti i membri della comunità universitaria» e i commenti su Twitter assumono toni compiaciuti: «Avreste dovuto vedere quanto RAPIDAMENTE i bianchi facevano le valigie e se ne andavano!», chiosa la gongolante attivista del video sul proprio profilo (ora chiuso).

Ovunque in Occidente sta montando una vera e propria isteria anti-bianca, fatta in parti uguali di colpevolizzazione degli europei e della loro storia e di razzismo alla rovescia. Una lunga lista di esempi è stata fatta nel volume White guilt. Il razzismo contro i bianchi al tempo della società multietnica di Emanuele Fusi. Uno dei più recenti esempi invece viene riportato dal britannico “The Guardian“: negli Stati Uniti sta impazzando una moda che consiste nell’organizzare raffinate e formali cene fra sole donne, alle quali vengono invitate due attiviste anti-bianchi, Regina Jackson, che è afroamericana, e Saira Rao, che «si identifica come indiana». Queste iniziative, chiamate «Race to dinner» («Corsa alla cena», con un gioco di parole sul termine “race“, corsa, ma anche razza), hanno lo scopo di convincere le commensali bianche del «loro razzismo». «Se lo facessi in una sala conferenze, se ne andrebbero», ha detto la Rao. «Ma alle donne bianche benestanti è stato insegnato a non lasciare mai la tavola». La Rao e la Jackson hanno ideato queste sedute di colpevolizzazione dei bianchi tutte al femminile per un misto di strategia di marketing e di odio sessista verso i maschi, che sarebbero «una causa persa». Le donne liberal sono invece più facilmente raggiungibili dai loro argomenti emozionali, facendo leva sul senso di colpa di non «stare facendo abbastanza contro il razzismo bianco». Inoltre, una volta convertite attraverso questo metodo – che fonde tattiche da setta religiosa, pīpàn dòuzhēng («sedute di autocritica») maoiste e cene sofisticate da upper class americana – le commensali diventano preziose alleate nella diffusione dell’ideologia razzista anti-bianca perché «vicine ai centri del potere e della ricchezza», come spiega la Jackson.

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Il culmine di questo masochismo auto-razzista è dato dal prezzo pagato da queste signore dell’America-bene: ogni cena costa (oltre alla cena stessa), ben 2.500 dollari (2.312 euro), per avere il singolare privilegio di farsi insultare in casa propria.


Emanuele Mastrangelo è redattore capo di “Storia in Rete”.

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Editor of the Centro Studi Machiavelli “Belfablog,” Emanuele Mastrangelo is editor-in-chief of “CulturaIdentità” and has been editor-in-chief of “Storia in Rete” since 2006. A military-historical cartographer, he is the author of several books (with Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).