La globalizzazione imperante esige, tra le altre cose, anche un lessico specifico, tecnico, trascendente: viene stabilito un canone di ciò che è permesso dire e di ciò che è proibito dire. Se dopo il ’68 la parola d’ordine era “vietato vietare”, allo stato attuale la parola d’ordine è “attenzione a ciò che dici”.

Il lessico globalitarista è esigente ed escludente; discrimina determinati vocaboli affidandoli alle amorevoli cure del diritto penale e ammette una ristretta cerchia di parole “amiche”. Tra queste, non ha ovviamente spazio alcuno il termine tradizione. Fin dall’Illuminismo, la tradizione è sospetta, il retaggio un po’ vergognoso di un periodo nel quale l’uomo non era nemmeno veramente tale. Questo termine verrà ripreso nell’Ottocento, come reazione alla progressiva massificazione della società occidentale. Nell’epoca di Internet e del 5G, ha ancora senso parlare di tradizione? Dipende.

Parafrasando un noto filosofo, occorre evitare che il sovranismo cada nell’errore di abbracciare miti debilitanti come una determinata accezione del concetto di tradizione. Ci riferiamo alla sua caratterizzazione passatista, reazionaria, nostalgica. L’essere umano è antropologicamente portato per avanzare e per evolversi, sia individualmente sia collettivamente. Guardare al passato come a una sorta di immaginaria e nevrotica età dell’oro non è solo inutile, è soprattutto patologico. Patologico perché non è mai esistita un’età dell’oro (che è poi la versione generalizzata dell’infanzia felice e innocente di ciascuno di noi) e perché se all’essere umano viene recisa la spinta verso il futuro, esso muore, così come morirebbe un albero senza rami. Se le radici, in senso reale e metaforico, sono essenziali per una sana esistenza, anche le ramificazioni verso il cielo lo sono altrettanto, essendo entrambe co-necessarie all’essere umano.

Uno dei pericoli maggiori del sovranismo, dal punto di vista filosofico, è quindi quello di dirsi tradizionalista. Il tradizionalismo non è altro che la versione caricaturale della tradizione, la sua degenerazione più ridicola. Come per i cosiddetti “duri e puri”, che alla fine incontrano uno più “puro” di loro, anche i tradizionalisti “gareggiano” tra loro nell’elogio e nella nostalgia del tempo perduto, che può essere l’Ottocento, il Medioevo, perfino il Paleolitico (è il caso di certi anarco-ambientalisti “primitivisti”).

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La tradizione è quindi la cornice, culturale, emotiva e storica, entro la quale una data civiltà cresce e si sviluppa. I contenuti all’interno della cornice cambiano senza sosta, poiché l’essere umano è necessariamente un animale neotenico. Esso, cioè, si costruisce a partire da determinate carenze che altri primati non hanno (tra cui l’istinto), come ha ben dimostrato Arnold Gehlen, e sulle quali edifica la cultura, che è l’unico mezzo grazie al quale l’uomo è in grado di sopravvivere nel mondo. Lo fa superando sé stesso, spinto e gettato in avanti, ma soprattutto verso l’alto, verso il cielo, da una necessaria volontà di oltrepassarsi, animato da uno spirito faustiano che esige un continuo rinnovamento e ripensamento.

La tradizione, quindi, è la necessaria base dalla quale l’uomo deve innalzarsi, e può essere definita come l’accumularsi, cronologicamente ordinato, di esperienze culturali condivise e vissute come specifiche, se non uniche. Più che la tradizione esistono dunque le tradizioni, tante quante sono le culture del pianeta e dei popoli che lo abitano.

Se il tradizionalismo recide i rami dell’albero di una determinata cultura, il globalitarismo recide le radici di quello stesso albero, tollerando inoltre un unico ramo, il suo, e considerando gli altri come escrescenze tumorali da eliminare. Entrambi i modelli, illusoriamente contrapposti, menomano l’essere umano e le culture alle quali essi appartengono, perché partono da presupposti antropologicamente errati. Da un passato immobile, cristallizzato, rarefatto, come quello della tradizione, si è passati, con l’epoca della globalizzazione, al suo opposto. Il tempo, da fermo, è diventato un vortice incessante di novità, in misura superiore a quanto un essere umano è in grado di sopportare e di elaborare culturalmente. Un sistema chiuso alla fine deperisce e si atrofizza, ma anche un sistema instabile e perennemente cangiante come quello globalitario alla fine implode per eccesso di mutamenti.

Ecco quindi l’urgenza di pacificare e di far dialogare tra loro tradizione e cambiamento (non usiamo la parola progresso in quanto termine ideologico e non reale), stabilità e avanzamento, in quanto co-creatori di quel primate difettoso chiamato uomo.

[LEGGI LA PRIMA PARTE: UGUAGLIANZA]