Le sinistre liberal di mezzo mondo non fanno in tempo a giubilare per un “traguardo” come quello della “prima donna premier” in un paese notoriamente maschilista, nella fattispecie il Giappone, che la persona in questione si rivela una vera e propria bestia nera (in tutti i sensi) secondo i canoni della sinistra liberal.
Takaichi Sanae, classe 1961, ha vinto lo scontro interno al Partito Liberal Democratico nipponico, divenendo presidente del partito e conseguentemente primo ministro in pectore, lanciata alla successione del dimissionario Ishiba Shigeru. Era il suo terzo tentativo di scalare il vertice della “balena bianca” giapponese, quel partito centrista-moderato che dal dopoguerra ha egemonizzato la politica di Tōkyō.
Il profilo della Takaichi è estremamente interessante perché rappresenta una vera e propria nemesi per l’ideologia wokeista-femminista all’insegna del “è brava perché femmina”. La Takaichi si attesta su posizioni ultra-conservatrici in tutti gli aspetti dell’agenda liberal, rovinando così non poco la festa a chi ne celebrava l’ascesa come “rottura del soffitto di cristallo” del maschilista sistema politico giapponese.
La lettura di un po’ di rassegna stampa in questi giorni è altamente istruttiva. Valga per tutti il pezzo traboccante bile di Jake Aldestein dalla newsletter di Substack “Tokyo Paladin“, intitolato L’ascesa del Trump femminile giapponese: perché Takaichi Sanae è la cosa peggiore che accade alla democrazia giapponese dai tempi di Abe 2.0. Leggere l’articolessa di Aldestein è estremamente piacevole ed è tutto all’insegna del “ma ha anche dei difetti”: si va da accuse di nazionalismo revisionista all’ostilità all’immigrazione fino a quella di diffondere bufale (gli immigrati che prendono a calci i cervi di Nara, paragonata agli haitiani che mangiano i gatti. Entrambe cose poi dimostratesi vere grazie ai video virali sui social, con buona pace dei debunker). Ma sopra tutto c’è lo spaventoso rimpianto di vedere “il soffitto di cristallo sfondato solo per scoprire che in realtà è il coperchio di una bara”. Il 2025 insomma, almeno in Giappone, si prospetta come un’ottima annata per le bottiglie di lacrime di femminista.
Un po’ di storia. Donne e politica in Giappone
Nella storia giapponese le donne hanno sempre avuto un ruolo marginale. Tuttavia in diversi momenti cruciali della politica nazionale, in particolare durante le vacanze di potere all’interno della dinastia imperiale o delle famiglie shogunali, alcune donne sono ascese al rango di imperatrici (sei in tutto) e reggenti, tenendo in pugno il paese con fermezza e intelligenza in attesa che un erede maschile potesse riprendere la linea di sangue legittima.
La mentalità confuciana importata dalla Cina prevede per la donna un ruolo politico subordinato a quello dell’uomo. Nelle cinque relazioni fondamentali, la donna è citata solo in quella maritale. Chi è in alto deve benevolenza e protezione a chi è in basso, il quale ha invece l’obbligo di obbedienza e devozione. I cinque rapporti sono fra sovrano e suddito, genitore e figlio, marito e moglie, fratello maggiore e fratello minore. Solo nell’ultimo – fra amico e amico – è previsto un rapporto paritario e perfettamente simmetrico. Alla donna dunque è riservato un ruolo subordinato, basti pensare che la traduzione in italiano di “imperatrice” per il termine equivalente giapponese è scorretto: in Giappone esiste solo il termine “imperatore” (Tenno – 天皇), riferito agli uomini. Negli otto casi (sei imperatrici, di cui due doppi regni) di imperatrici regnanti, si parla di “imperatori donna” (Josei Tenno – 女性天皇) o semplicemente di “Tenno“. Dunque un’imperatrice, essendo donna, non assume un ruolo assoluto, ma resta devota alla sua controparte maschile, ancorché assente, che diviene la famiglia, il successore, la nazione. In questo senso le donne al potere in Giappone hanno avuto generalmente ruoli considerati molto positivi dai cronisti.
Questa mentalità ha fatto sì infatti che gran parte delle donne protagoniste della politica giapponese nei secoli passati sia stata fanaticamente devota alla protezione degli interessi della sua famiglia o del clan nobiliare, modus operandi non molto differente da quello di un buon numero delle sovrane della storia europea, del resto.
In ogni caso, a differenza delle Messaline della nostra storia, in gran parte dei casi di potere al femminile in Giappone, la storia ne ricorda solo egregi esempi di potere illuminato. A partire da Suiko (554-628), ascesa al Trono del Crisantemo come imperatrice, di cui le cronache raccontano grandi imprese, fra cui quella d’aver accordato fiducia come reggente al principe Umayado. Insieme riformarono il Giappone introducendo il buddismo e i principi del confucianesimo. In seguito, l’imperatrice Jito (645-703) si distinse come riformatrice e poetessa, contribuendo con alcune sue composizioni al poema nazionale nipponico, il Man’yoshu. L’imperatrice Genmei (660-721) inaugurò l’epoca Nara, spostando in questa città la capitale. Unico caso nella storia giapponese, Genmei nominò sua figlia Hidaka come successore, la quale ascese al trono col nome di Gensho.
Donne di potere sono apparse anche nelle tante famiglie nobiliari giapponesi, e ai vertici di quelle che raggiunsero il ruolo shogunale, ossia, quel potere di “reggenza militare” che rappresentò il governo di fatto del Giappone a partire dal XII secolo fino alla Restaurazione Meiji del 1868, con gli Imperatori relegati a ruoli simbolici e il potere saldamente in mano al bafuku, il “governo della tenda” dello shogun. Non si possono non ricordare due personaggi cardine: Hōjō Masako (1157-1225): Moglie del primo shogun Minamoto no Yoritomo, figura centrale nell’ascesa del clan Hōjō, e Saigo (1552-1589), favorita di Tokugawa Ieyasu, il machiavellico (nel senso più puro del termine) signore feudale che riunificò il Giappone. I suoi consigli furono fondamentali per l’ascesa di Ieyasu, tanto che si dice che fosse l’unica fra le moglie e le concubine del potente daimyo a essere stata scelta per motivi personali e non di fredda alleanza dinastica. I cronisti riferiscono che Ieyasu amò sinceramente Saigo e ne teneva in grandissima considerazione le opinioni. Inoltre Saigo diede a Ieyasu il successore, Hidetada.
Donna, non femminista
Questa lunga digressione storica non è solo uno sfoggio di erudizione, perché ci porta di nuovo ai giorni nostri. Le sei Imperatrici e i loro otto regni (due di loro hanno regnato per due periodi distinti, infatti) infatti sono tutt’oggi oggetto di dibattito fra gli storici del Sol Levante: molti li considerano come parentesi e non regni effettivi. Mere reggenze. Una tesi sostenuta soprattutto dall’adozione per il Trono del Crisantemo di una legge simile a quella che regolava la successione degli Hohenzollern sul trono tedesco, durante le riforme imposte dall’imperatore Meiji nella seconda metà del XIX secolo. La Legge Salica, confermata nel dopoguerra, impone tutt’ora la linea di discendenza maschile come unico criterio valido per la successione al trono imperiale giapponese.
Il rischio, tuttavia, che gli attuali sovrani del Giappone possano restare senza un erede maschio ha di nuovo aperto il problema successorio, che è tanto pratico quanto spinto dalle smanie di “riforma” e perfino oggetto di pressioni internazionali per l’abolizione di una tradizione ritenuta “discriminatoria”.
Sanae Takaichi, che si avvia a divenire il primo premier giapponese donna, è fra i sostenitori del mantenimento della Legge Salica. Altro che “rompiamo il soffitto di cristallo”. Per la Takaichi la tradizione innanzi tutto.
E questo dunque ci conduce a quella che è la linea politica propugnata dalla Takaichi. Definita “uomo honoris causa” o “maschio di mezza età che indossa una maschera da femmina” da alcuni suoi detrattori, Takaichi Sanae è espressione di un conservatorismo quasi reazionario. Ha sostenuto il mantenimento del diritto maschile a imporre il cognome familiare, si oppone al cosiddetto “matrimonio” omosessuale e ha sostenuto leggi penali durissime per il vilipendio della bandiera. Aperta al dialogo con i movimenti di estrema destra giapponesi, la Takaichi è membro del think tank Nippon Kaiji, una influentissima organizzazione che conta oltre trentamila aderenti e al cui confronto i partiti conservatori europei appaiono come dei “moderati progressisti”. Inoltre è vicepresidente della Shinto Seiji Renmei, un’associazione che promuove il ritorno della religione tradizionale giapponese, lo shintoismo, al centro della vita politica e scolastica del paese.
Su questo fronte, Takaichi Sanae è stata attiva all’epoca del governo Abe – di cui era membro – porgendo omaggio, unica fra i ministri di quel gabinetto, al tempio Yasukuni di Tōkyō, insieme allo stesso Abe Shinzō. Lo Yasukuni è un santuario shintoista che funge da “milite ignoto” e sacrario per tutti i caduti in guerra del Giappone, senza alcuna distinzione: vi sono venerate le anime di 2.466.000 uomini e donne morti indossando l’uniforme imperiale, fra i quali quasi 28 mila aborigeni di Taiwan e oltre 21 mila coreani. Quest’ultima caratteristica lo pone da decenni al centro di polemiche feroci interne e soprattutto con l’estero, poiché fra i caduti per la Patria vengono annoverati anche coloro i quali sono stati dichiarati “criminali di guerra” dai tribunali dei vincitori nel dopoguerra, 1.068 persone in totale, di cui 14 marchiate come “Classe A”, i cosiddetti “crimini contro la pace”. Nello Yasukuni viene anche onorato l’unico giudice del Tribunale di Tōkyō (la cosiddetta “Norimberga giapponese”) che si oppose alla condanna dei “criminali di guerra” da parte alleata, l’indiano Radhabinod Pal. Un concentrato di nazionalismo impenitente che incendia il dibattito pubblico ogni volta che un esponente politico vi si affaccia.
Consapevole del potenziale polemico di queste posizioni, la Takaichi ha affermato tuttavia che non rinuncerà a visitare il santuario Yasukuni dopo la sua investitura a primo ministro:
“Il Santuario Yasukuni è un’istituzione centrale nel nostro paese per onorare i caduti in guerra. Spero che il mondo diventi un luogo in cui tutti possiamo mostrare rispetto per coloro che hanno dato la vita per i loro paesi. Quello che devo fare è aiutare a creare quell’ambiente”.
ha dichiarato. Del resto Takaichi Sanae ha espresso spesso posizioni che in Europa definiremmo “revisioniste” circa la storia giapponese del XX secolo: secondo la Takaichi la Seconda guerra mondiale è stato un conflitto difensivo per il Giappone e i crimini di guerra di cui il paese è accusato sono stati largamente esagerati, in particolare circa lo sfruttamento del lavoro forzato sui sudditi delle colonie e l’arruolamento forzato nei bordelli di guerra di ragazze dei paesi occupati. Anche sul massacro di Nanchino del 1937 la Takaichi ha espresso posizioni fortemente revisioniste, riducendo di molto al ribasso la stima delle vittime del sacco a cui la città cinese venne sottoposta dall’Esercito Imperiale giapponese.
Sul fronte economico, la Takaichi invece si pone in continuità col compianto predecessore Abe, che con la sua abenomics ha cercato di risollevare il Giappone dalle morte gore della crisi post 2008: un misto di liberalizzazioni del mercato e di politiche espansioniste keynesiane e monetarie. In questo senso, il paragone che molti hanno fatto della Takaichi con Margaret Thatcher si ferma alla sua figura di donna di ferro più che alla linea politica ultraliberista.
Takaichi Sanae, dagli Iron Maiden at Iron Lady
Il carattere di Takaichi Sanae è dunque ciò che più la avvicina alla premier britannica. In linea con l’immaginario di donna forte raccontata dal mondo pop di manga e anime, è quanto di più lontano si possa immaginare dal femminismo occidentale. Basti pensare che ha divorziato da suo marito nel 2017 per motivi di visione politica e di aspirazioni personali, salvo poi risposarlo nel 2021. Attualmente la Takaichi si occupa dell’assistenza al consorte, rimasto semiparalizzato da un ictus.
Il carattere di Takaichi Sanae emerge anche dalla sua gioventù: figlia di un lavoratore del settore automobilistico e di una poliziotta di Nara, ha dovuto rinunciare a entrare alle università Keio e Waseda di Tōkyō perché i genitori, molto severi, erano contrari a farle fare la vita da fuorisede. In compenso ha potuto coltivare passioni da ribelle, come quella per l’heavy metal, tanto da suonare come batterista in una band, e le motociclette, da vera biker chick. E nel frattempo scopriva la sua passione per la politica. Insomma, dagli Iron Maiden at Iron Lady per il Giappone.
Dopo la laurea, nel 1987 è andata a vivere e lavorare negli USA con una borsa di studio, collaborando con la democratica Pam Schroeder al Congresso USA. Al suo ritorno ha scritto libri su queste esperienze ed è diventata giornalista, commentatrice e conduttrice televisiva. A partire dal 1993 ha iniziato una carriera politica che l’ha portata a sedere nella Dieta giapponese e a vice ministro anziano del Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria nel gabinetto di Koizumi Jun’ichiro. Nel 2019-20 è stata quindi ministro degli Affari Interni e delle Comunicazioni sotto Abe Shinzō, insieme ai ministeri senza portafogli agli affari di Okinawa e dei territori del Nord, come Ministro aggiunto per la politica scientifica e tecnologica, Ministro aggiunto per l’Innovazione, Ministro aggiunto per la gioventù e l’uguaglianza di genere e Ministro aggiunto per la sicurezza alimentare. Un’esperienza di governo poi stroncata dalle pressioni per la gestione dell’emergenza Covid, quando nell’agosto 2020, ufficialmente per motivi di salute, Abe annunciava le sue dimissioni e il paese entrava in una serie di governi molto più ben disposti nei confronti dei desiderata internazionalisti: politica pandemica, “nuovi diritti”, “riforme scolastiche” e soprattutto apertura delle frontiere all’immigrazione.
Il nodo degli stranieri: il Giappone ai giapponesi
Stretto nella tenaglia delle pressioni sovranazionali e interne, in particolar modo da parte di quegli imprenditori a caccia di dumping salariale dopo l’espansione delle retribuzioni sotto Abe, il Giappone ha infatti allargato le maglie delle sue rigidissime regole sull’immigrazione.
Per comprendere quanto alieno sia al carattere giapponese la possibilità di accogliere immigrati, bisogna aver presente il concetto tutto nipponico di Kokutai. The Kokutai (国体 “corpo nazionale”) è un concetto estremamente complesso e radicato, che non possiamo riassumere in questa sede senza inevitabili approssimazioni e semplificazioni. In generale, esso tende a escludere categoricamente la possibilità che si possa diventare giapponesi per ius culturae o comunque per puro volontarismo. L’appartenenza al corpo nazionale giapponese è pressoché esclusivamente concessa per linea di sangue. Sebbene messo da parte come residuato del “nazionalismo sciovinista” prebellico, il concetto di Kokutai permea tutt’ora il sentire comune dei giapponesi. Appena 20 anni fa, l’ex primo ministro giapponese Asō Tarō poteva descrivere il suo paese come una nazione di «una razza, una civiltà, una lingua e una cultura». Parole che nell’Europa contemporanea verrebbero stigmatizzate, condurrebbero a dimissioni, se non direttamente fatte oggetto di prosecuzione legale come nell’attuale Gran Bretagna.
La crisi demografica del Giappone, tuttavia, ha spinto i governi di Tōkyō a un’apertura alle politiche immigratorie, cercando innanzitutto fra gli emigranti giapponesi del XX secolo e i loro discendenti, i nikkeijin, come possibili candidati. Negli anni a cavallo del cambio di secolo ci si è rivolti soprattutto a Perù e Brasile per spingere i giapponesi di seconda e terza generazione a tornare in patria. Un tentativo non coronato da successo, tanto che si è addirittura dovuto ricorrere a incentivi per spingere alla remigrazione in Sudamerica di molti nippo-brasiliani la cui integrazione è fallita.
Con il secondo decennio del XXI secolo ci si è orientati verso una politica a un tempo restrittiva e selettiva, con la concessione di numerosi permessi di lavoro temporaneo per maestranze specializzate, possibilmente provenienti da paesi est-asiatici. E’ tuttavia con la caduta del governo Abe e l’avvento dei gabinetti successivi molto più propensi ad ascoltare le sirene internazionaliste che in Giappone si inizia a sostenere la necessità di un’apertura non solo formale delle frontiere, ma innanzitutto sociale. Dal 2020 stanno aumentando i lavoratori dal subcontinente indiano e dall’Africa e soprattutto per la prima volta nelle linee guida governative (approvate il 16 giugno 2025) si inizia a parlare di “società di convivenza multiculturale” (tabunka kyōsei shakai), un termine che prima d’allora era stato impiegato solo in esperimenti-pilota in certe realtà locali.
Inutile aggiungere che in Giappone questo traguardo è stato preceduto da sottili e striscianti campagne a favore della società multurazziale and meticcia, con le immagini a cui l’Europa è abituata da decenni: pubblicità e programmi TV che enfatizzano sulle coppie miste (per lo più donna autoctona e uomo coloured), moltiplicazione dei fenomeni social su influencers soprattutto africani che cercano di far accettare il loro stile di vita da parte dei giapponesi (con siparietti nei metrò, per strada o perfino nei luoghi turistici e sacri, poi diffusi via social) e contemporanee rassicurazioni da parte governativa che il paese si sarebbe aperto solo agli immigrati “regolari” e “produttivi”. Nel frattempo però a Tōkyō si è lavorato sull’annacquamento dello stile di vita giapponese per incentivare “l’accoglienza” e con una riforma dei programmi scolastici del 2022 molto simile a quelle viste anche in Italia con la “Buona scuola”, con le nuove Gakushū shidō yōryō (linee guida per l’insegnamento) in cui in particolare per Storia e Geografia dove l’apprendimento delle nozioni di base è sostituito col “pensiero critico”, vale a dire un indottrinamento su migrazioni, cambiamento climatico e “diritti”.
Questa situazione è stata alla base del crollo di voti per i partiti della maggioranza nelle ultime elezioni giapponesi, con l’affermarsi del partito di estrema destra Sanseitō, che denuncia apertamente i rischi di sostituzione etnica per il Giappone, e le conseguenti dimissioni di Ishiba.
La Takaeshi: inversione di tendenza o tigre di carta?
Questo banco di prova sarà quello su cui si farà la nobiltà di Takaichi Sanae. Finora le sue dichiarazioni pubbliche circa il problema dell’immigrazione sono molto “democristiane”. Annoverata fra i radicali anti-immigrazione, la Takaichi ha espresso una visione contraria all’immigrazione clandestina e ai cosiddetti “overstayers“, cioè quegli stranieri che alla scadenza del permesso di soggiorno continuano a restare sul suolo nipponico. Cifre che in realtà in Giappone sono irrisorie rispetto ai nostri disastrosi standard: meno di 75 mila individui, per lo più da Vietnam, Corea del Sud e Thailandia. Allo stesso tempo la Takaichi ha dichiarato un giro di vite contro i falsi profughi ospitati per asilo politico: in Giappone i richiedenti asilo sono meno di 13 mila, con tassi irrisori di accoglimento delle domande. Le recenti riforme dovrebbero aprire le maglie delle procedure d’accoglienza, nel solco delle politiche filo-immigrazioniste del governo Ishiba.
Queste realtà sono tuttavia del tutto marginali. Il vero argine sfondato è quello dei lavoratori che entrano legalmente, grazie a politiche sempre più favorevoli all’importazione di manodopera più o meno specializzata per vie ufficiali. Anche il Giappone ha i suoi click day che nell’ultimo decennio ha raddoppiato il numero degli stranieri sul suolo dell’arcipelago, superando oramai il 3% della popolazione. Dopo la pausa imposta dal Covid, il trend annuo di ammissioni è addirittura triplicato, facendo aumentare di un milione gli immigrati in Giappone dal 2021 al 2024.
Quanto il nuovo gabinetto Takaichi sarà davvero in discontinuità con i suoi predecessori si vedrà dunque su questo fronte. Per un paese in crisi demografica come il Giappone, il rischio d’essere sommerso da una valanga di giovani immigrati è gigantesco: Takaichi Sanae sarà disposta a soffocare sul nascere la sostituzione etnica dei giapponesi, sul solco dell’esempio di Orban in Ungheria? O sarà uno dei tanti leoni da campagna elettorale, che ruggiscono sui palchi dei comizi e poi fanno le fusa in parlamento quando ci sono da approvare le politiche delle porte aperte per accontentare lobby internazionali e organizzazioni del padronato?
[Nota: in questo articolo si è scelto di impiegare l’uso giapponese di anteporre il cognome al nome]
Crediti fotografici: Dean Calma / IAEA
Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" e di "Storia in Rete". Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia and Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).





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