La narrativa dominante del nostro tempo, intrisa com’è di femminismo, sembra a prima vista promuovere le donne a scapito degli uomini. Ma questa apparente esaltazione delle donne nasconde una realtà più complessa e insidiosa, che danneggia non solo gli uomini, ma anche il sesso femminile stesso, minando le fondamenta della nostra civiltà. Intendiamo dunque esplorare, nell’analisi che segue, le contraddizioni di tale ideologia, evidenziando come il suo fine ultimo non sia l’emancipazione femminile, ma una decostruzione culturale di stampo neo-marxista.

La crociata femminista contro il maschio

Negli ultimi tempi il discorso pubblico è stato saturato da una retorica femminista che presenta il “patriarcato” come un nemico onnipresente. La “lotta al patriarcato” si fa tanto più feroce quanto più si palesa la sua odierna inesistenza. Le quote rosa in politica e nei consigli di amministrazione, le campagne per l’empowerment femminile, la condanna di ogni forma di mascolinità sono sintomi di questa crociata.

Gli uomini, e in particolare i giovani, si trovano esposti a una campagna martellante e frustrante: i loro impulsi naturali – come l’agonismo, il senso dell’onore o la fisicità – vengono demonizzati come “tossici” o retrogradi. Questo assalto ha prodotto una reazione inevitabile: la cosiddetta “androsfera” o “manosfera”, un movimento online sempre più popolare tra i giovani maschi occidentali. Sebbene la manosfera contenga elementi problematici – certi estremismi misoginistici o derive anti-sociali – essa è in gran parte una risposta (eguale e contraria) alla costante gogna pubblica cui è sottoposta la virilità. È il prodotto di una generazione di maschi che si sente privata di un’identità positiva, spinta a radicalizzarsi da un sistema culturale che disprezza la loro natura e respinge ogni loro aspirazione.

Un esempio recente di questa dinamica è il successo della serie TV di Netflix Adolescence, che appare come un progetto ideologicamente orientato a demonizzare la manosfera, dipingendola come una minaccia incombente sulla nostra società. L’obiettivo sembra essere quello di generare allarmismo, giustificando così misure repressive contro la libertà di espressione. Benché Adolescence non si basi su fatti reali, nel Regno Unito i media l’hanno messa al centro del dibattito pubblico e il governo Starmer la sta usando come pretesto per ventilare interventi governativi. Per paradossale che possa sembrare la situazione (con la leader dei conservatori, Kemi Badenoch, costretta a difendersi sulla BBC per non avere guardato la serie…), essa non sorprende in Gran Bretagna, un paese dilaniato dall’estremismo islamico ma in cui le autorità dedicate a prevenire la radicalizzazione, paradossalmente, si concentrano sull’estrema destra.

Se Atene piange, Sparta non ride: il femminismo contro le donne

Se le ultime ondate di femminismo vanno indubbiamente a detrimento degli uomini, esse non stanno risparmiando nemmeno le donne. A prima vista, il femminismo dominante sembra promuovere i loro interessi, ma un’analisi più approfondita rivela che le donne sono spesso sacrificate sull’altare di obiettivi ideologici più ampi.

Innanzi tutto, la repressione della virilità tradizionale priva le donne del loro naturale complemento maschile, con conseguenze drammatiche: il crollo dei tassi di natalità, il declino dei matrimoni e persino una riduzione dell’attività sessuale tra i giovani, sono indicatori di una società che ha perso l’equilibrio tra i sessi.

Ma non è tutto. Come abbiamo già trattato altrove, secondo la mentalità marxista che sottende al woke, le donne non sono un fine, ma un mezzo – come lo era il proletariato nella lotta di classe – per abbattere l’ordine culturale occidentale. Ciò diventa evidente quando gli interessi delle donne entrano in conflitto con quelli di altri gruppi privilegiati dall’ideologia dominante, come i cosiddetti “transgender”. L’intransigenza con cui il woke sostiene l’ingresso di uomini biologici negli sport femminili (anche quando ciò implica che su un quadrato un uomo prenda a pugni una donna) o nelle carceri femminili, dove si registrano abusi sulle detenute, rivela una gerarchia di priorità in cui le donne occupano un posto subordinato.

Il silenzio femminista sull’islam

Ancora più clamoroso è l’atteggiamento del femminismo di fronte alla cultura islamica, che rappresenta oggi la vera riserva di patriarcato e misoginia nei paesi occidentali. Le femministe promuovono con zelo l’immigrazione di massa e il multiculturalismo, ignorando come ciò si traduca in genere in un regresso per i diritti femminili, essendo le società extra-occidentali più maschiliste delle nostre. Siamo giunti persino al paradosso delle femministe che esaltano il velo come simbolo di libertà e autodeterminazione. Tacciono di fronte all’evidenza, che include anche l’aumento di molestie e stupri in Europa, spesso legato a immigrati provenienti da contesti musulmani. Le grooming gangs di origine pakistana nel Regno Unito sono solo l’esempio più noto di un fenomeno ampio e articolato.

La crescita di tali comunità comporta un progressivo restringimento della libertà femminile. Le donne, musulmane e non, si trovano a modificare i propri comportamenti per paura: evitano di uscire sole in certi orari, rinunciano a vestiti considerati “provocanti”, si adeguano a codici di condotta sempre più restrittivi. Tra le musulmane, questo avviene per convinzione culturale; tra le non musulmane, per costrizione sociale. In entrambi i casi, il risultato è un ritorno a limitazioni che il femminismo storico aveva combattuto, e la nostra società considerava obsolete. Le femministe, però, non solo ignorano questa realtà, ma la negano attivamente o addirittura appoggiano de facto. Mentre puntano il dito contro un immaginario patriarcato occidentale, si adoperano per importarne uno reale da altre civiltà.

Il paradosso è tale solo nella mente di coloro che non abbiano afferrato la vera natura del femminismo post-sessantottino, ossia l’essere un semplice ingranaggio nella decostruzione neo-marxista della società occidentale.

La condanna dei ruoli naturali

L’ideologia woke non si limita a creare divisioni tra uomini e donne; colpisce anche le inclinazioni naturali di entrambi. Come abbiamo detto, fin dall’infanzia ai maschi viene insegnato che i loro tratti distintivi – come la fisicità, la competizione, il bisogno d’appartenere a un gruppo gerarchizzato – sono negativi o “tossici”. Allo stesso modo, alle femmine viene trasmesso che le qualità loro più congeniali – come l’istinto accudente, l’empatia, la gentilezza, il pudore – sono segni di debolezza o sottomissione. Scelte come quella di essere madre a tempo pieno vengono dipinte quale forma di ingiusto sacrificio e umiliazione, mentre il modello ideale diventa quello di una donna forte, decisa e dominante, secondo schemi e ambiti, per paradosso, tipicamente maschili.

Alle donne, in buona sostanza, viene chiesto di comportarsi come uomini. Questo “empowerment” forzato ha un costo psicologico elevato. Le donne che non riescono a incarnare tale modello – innaturale e controintuitivo per la maggior parte di loro – finiscono per sentirsi inadeguate, fallite. La narrazione femminista, lungi dal liberarle, alza l’asticella delle aspettative a livelli insostenibili, generando frustrazione e insicurezza.

Una manipolazione che comincia dall’infanzia

Un esempio lampante di questa dinamica si trova nei prodotti rivolti alle bambine. Osserviamo un paio di esempi tra i cartoni animati, particolarmente indicativi dell’imprinting cui sono oggi soggette le bambine.

Una delle più famose serie internazionali creata negli anni ’80, I Puffi, aveva in pratica un solo personaggio femminile, Puffetta, nella quale spiccavano le caratteristiche tradizionali del genere: gentile, elegante, amante dei fiori e dei vestiti, attirava la cortesia e le attenzioni galanti di tutti i puffi maschi. Nel re-boot odierno, però, il personaggio è stato stravolto: Puffetta è divenuta un’esperta di arti marziali, più forte sia mentalmente sia fisicamente di tutti i puffi maschi. Per rafforzare il messaggio, è stato introdotto anche un villaggio di puffe, tutte – manco a dirlo – abili cacciatrici, fisicamente dominanti, intellettualmente superiori, dedite a sport di contatto o simili rudi passatempi.

A uno sguardo superficiale, si potrebbe ravvisare nello svilimento dei maschi (i puffi sono tutti stereotipati in senso negativo, e generalmente stupidi e immaturi) una forma di celebrazione delle femmine. Ma prodotti come questo, in realtà, impongono alle bambine un modello irraggiungibile per la maggior parte di loro: si normalizza l’idea che tutte, ma proprio tutte, le femmine debbano superare fisicamente e mentalmente tutti, ma proprio tutti, i maschi. Per una bambina, è più facile immedesimarsi nella Puffetta gentile che cura l’aspetto estetico, o nella Chuck Norris in gonnella (per modo di dire: veste quasi solo in tuta) più vigorosa anche di Forzuto? Quale dei due modelli riuscirà più facilmente a realizzare nella vita, e quale invece rischia di essere solo fonte di frustrazione e senso di inadeguatezza?

La Disney, come sappiamo, segue una traiettoria simile ed è anzi all’avanguardia nella produzione di indottrinamento woke per bambini. L’ultimo esempio è il live action di Biancaneve recentemente uscito al cinema. Biancaneve è la principessa delle favole che più di tutte incarna innocenza e gentilezza. La sua bontà d’animo è tale da riuscire a ingentilire anche le figure maschili più ruvide con cui si trova a interagire: il cacciatore, che non ha il cuore per ucciderla malgrado le minacce della regina; e i sette nani, rozzi e trasandati, che imparano da lei a prendersi cura di sé stessi. Tutto questo era ben rappresentato nel celebre cartone del 1937, ma in questo film Biancaneve diventa una figura ossessionata dalla politica, una sorta di Foucault in costume di carnevale che vede il potere in ogni rapporto umano.

Questi nuovi modelli eccentrici non solo confondono le bambine con messaggi forzati e innaturali, ma le spingono verso ideali che, nella realtà, risultano spesso inaccessibili, alimentando un senso di inadeguatezza.

Riconciliare i sessi

La narrativa femminista woke, malgrado il suo apparente sostegno alle donne, in realtà colpisce a destra e a manca. Attacca gli uomini, privandoli di un’identità positiva: la mascolinità è “tossica” e, dunque, ai maschi non resta che cercare di sopprimere questa natura sciagurata. Ma il femminismo tradisce le donne, sacrificandole a un’agenda ideologica che mira alla decostruzione dell’Occidente.

La soluzione? Un ritorno al buon senso: riconoscere e valorizzare le differenze naturali tra i sessi, promuovendo una complementarità che rispetti le inclinazioni di ciascuno. Solo così potremo ricostruire una società equilibrata, in cui uomini e donne possano prosperare senza essere costretti in ruoli innaturali o demonizzati per ciò che sono.

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Founder and President of Centro Studi Machiavelli. A graduate in History (University of Milan) and Ph.D. in Political Studies (Sapienza University), he teaches “History and Doctrine of Jihadism” at Marconi University and “Geopolitics of the Middle East” at Cusano University, where he has also taught on Islamic extremism in the past.

From 2018 to 2019, he served as Special Advisor on Immigration and Terrorism to Undersecretary for Foreign Affairs Guglielmo Picchi; he later served as head of the technical secretariat of the President of the Parliamentary Delegation to the Central European Initiative (CEI).

Author of several books, including Immigration: the reasons of populists, which has also been translated into Hungarian.