“Torniamo all’antico, faremo un progresso”. Icastica battuta di Ettore Petrolini con la quale faceva tanto satira delle smanie futuriste quanto di quelle archeologiche del Fascismo, ma con cui affermava una solida verità: quando si è imboccati un binario morto se si vuol andare avanti è imperativo tornare indietro e riprendere da dove si era fatto lo scambio.

Tale è la situazione della scuola italiana allo scoccare del primo quarto di secolo. Da decenni ci si sbracciava lamentandosi del progressivo declino del sistema d’istruzione pubblico e tutto ciò che si è ottenuto è un andare ancora più a fondo, come un esploratore finito nelle sabbie mobili. Aver abbandonato per motivi squisitamente ideologici l’impianto della scuola gentiliana, perfezionata con la riforma della scuola media unificata del 1963, ha condotto quattro generazioni di italiani a fare i conti con un sistema d’istruzione sempre più velleitario, annacquato e incapace di fornire una solida crescita umana.

Guerra al latino

Come nel 1962, durante il dibattito per la riforma della scuola media, anche oggi una delle pietre dello scandalo è l’insegnamento del latino alle medie. Gli schieramenti sembrano essere diretti eredi di quelli dell’epoca: contrari i comunisti e oggi il fronte liberal; favorevoli i conservatori (missini, democristiani di destra e – sorpresa! – parte dei socialisti); in mezzo i tiepidi, per lo più democristiani disposti al compromesso a ribasso con il PCI. È molto interessante leggere le argomentazioni con cui uno dei principali artefici di quella riforma, il socialista Tristano Codignola (1913-1981), si ergeva a difensore del diritto dei bambini a poter accedere alla cultura classica:

Una coltura generale unica è indispensabile se vogliamo formare una classe dirigente veramente democratica, la quale, come dimostrano le esperienze antiche e recenti, non può fare a meno di una solida preparazione umanistica. La coltura particolare non può e non deve essere data dalle scuole medie, ma dalle facoltà universitarie. I tecnocrati senza coltura umanistica, incapaci di una visione panoramica della vita, sono un autentico pericolo pubblico.

Sfortunatamente per l’Italia, a spuntarla negli anni successivi saranno invece proprio i nemici di questa visione, coloro che insistevano per la cancellazione della cultura classica, considerata “classista” e “roba da ricchi” e che si infatuavano per le suggestioni pauperiste di una delle figure più sopravvalutate e in ultima analisi dannose della storia della pedagogia italiana: don Lorenzo Milani con la sua retorica dei “saperi”. Alla visione solidamente sociale di Codignola, che prevedeva al rialzo la creazione di una robusta base culturale accessibili a tutti a prescindere dal ceto di provenienza, i ministeri dell’Istruzione hanno preferito le riforme al ribasso, con l’esaltazione dei “saperi” particolaristici. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che il livello culturale generale della nazione è progressivamente tracollato, come chiunque può constatare confrontando uno scritto di un maturando attuale con un temino di quinta elementare di una qualunque classe d’età nata nella prima metà del secolo scorso.

Ma a che serve la scuola?

La recente quasi-abolizione negli USA del dipartimento dell’Istruzione è un’occasione per riflettere sulle varie concezioni della scuola nel mondo occidentale. Anche se la mossa di Trump non è, come molti hanno suggerito all’estero, l’abolizione della “scuola pubblica”, che invece viene lasciata ai singoli Stati nello spirito jeffersoniano di questa amministrazione, va detto che forte è in America e in generale nel mondo della nuova destra conservatrice dell’Anglosfera una reazione contro l’istruzione pubblica e obbligatoria, considerata egemonizzata dalla sinistra liberal, utile solo all’indottrinamento ideologico dei bambini e a fornire allo Stato scuse per tassare ulteriormente i cittadini. Una polemica che ultimamente si è estesa alle conseguenze dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro: quella che era inizialmente considerata una “emancipazione” è ora vista come uno strumento con cui le famiglie hanno dovuto rinunciare all’educazione domestica dei figli, costringendo le donne a lavorare per avere il reddito con cui pagare con le tasse o le rette alle scuole private un’educazione che allontanerà i bambini dai valori della famiglia. Insomma, lavorare per pagare ciò che prima si poteva fare senza lavorare e con maggior vantaggio, almeno dal punto di vista di questa ideologia ultra-individualista.

L’ostilità – in stile “Hey, teacher, leave us kids alone” di pinkfloydiana memoria – all’educazione pubblica di una parte del mondo occidentale (soprattutto nell’Anglosfera) si contrappone all’idea classica, mutuata da Platone, Aristotele, Cicerone o Quintiliano: la scuola come “educazione” (ex ducere, “condurre fuori”, nel senso di liberare i talenti dei bambini), formazione che conduca alla comprensione del mondo attraverso la conoscenza. Ma non solo: anche la scuola come creazione di nuovi cittadini. L’eudaimonia aristotelica, infatti, poteva essere raggiunta solo con una vita armonica e produttiva all’interno della comunità. Per questo la funzione fondamentale della scuola doveva essere formare cittadini, considerando ovviamente come cittadino migliore colui il quale avesse una migliore comprensione del mondo garantita dallo studio e dall’affinamento delle capacità ragionative ed espositive.

Nel mondo classico, insomma, non c’è una educazione scolastica “tecnica”, ma solo teorica. L’unica tecnica applicata, se così vogliamo considerarla, è l’oratoria, intesa come scienza della buona esposizione del pensiero, che tuttavia è funzionale al perfezionamento dell’individuo. Il ragazzo, una volta apprese le basi teoriche che gli consentono di conoscere il mondo – matematica, musica, storia, logica, etica etc. – è pronto a perseguire la conoscenza applicata per proprio conto. Non da ultimo, la semplice difficoltà di queste discipline risulta formativa per il carattere, ottenendo così il duplice risultato di aver fornito alla mente gli strumenti e l’allenamento necessari al passo ulteriore.

Se si confrontano queste due concezioni dell’educazione – quella individualista e quella classica – si vede come la moderna scuola creata dopo la seconda metà del XX secolo sia la negazione di entrambe. Le scuse di una maggiore “eguaglianza” fra i bambini e la lotta al classismo sono state sfruttate dal marxismo culturale di qua e di là dell’Atlantico per “decostruire” la cultura collettiva (le cosiddette “narrazioni nazionali”), obbiettivo candidamente ammesso da uno dei più recisi critici della riforma Valditara, Giulia Albanese. Dal dopoguerra in avanti i bambini sono stati progressivamente sottratti alle famiglie per cicli scolastici e tempi giornalieri sempre maggiori, quasi da collegio, ma anziché fornire loro una solida formazione civica (cosa che, come visto, non può prescindere dall’impiego di materie squisitamente teoriche), si è invece puntato verso il basso, con lo svuotamento dei programmi, la retorica dell’“inclusione” a ogni costo, l’abolizione progressiva di ogni difficoltà e del cosiddetto “nozionismo” fino agli ultimi orrori wokeisti, con perfino l’abolizione delle festività nazionali per sostituirle con generici eventi privi di qualunque collegamento con il contesto identitario (si pensi ai “paesaggi invernali” allestiti in tante scuole al posto dei presepi, in uno sterile esercizio di modellismo del tutto svuotato d’ogni significato).

La scuola è diventata così uno strumento di dis-integrazione dei bambini, dalle loro famiglie e dal loro contesto culturale. Non stupisce dunque che nel XXI secolo il concorrente medio di reality show non abbia idea di chi sia Napoleone mentre solo qualche decennio fa un siparietto d’avanspettacolo strappava risate a un pubblico popolare e di bocca buona che però sapeva perfettamente chi fosse il Gran Còrso, Giuseppina o Maria Walewska e conosceva i versi de “Il 5 Maggio” di Manzoni.

La reazione wokeista contro Valditara

Ora gli epigoni dei responsabili di questo disastro pedagogico sparano a palle incatenate contro le “Nuove Indicazioni 2025” del ministero dell’Istruzione. Sotto il fuoco di fila degli “esperti” wokeisti, eredi di quell’intellighentzia cattocomunista che distrusse la scuola gentiliana a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, finisce innanzitutto il latino ma anche e soprattutto l’impostazione data allo studio della storia da parte del Ministero. La riforma che Giuseppe Valditara sta proponendo alle scuole va in direzione della ricostituzione di un sistema educativo che metta il bambino in condizione di svilupparsi come individuo e come cittadino, comprendendo il dove e il quando delle proprie origini attraverso la geografia e la storia. In questo quadro la reintroduzione del latino alle medie, ancorché solo in forma facoltativa, si configura come uno strumento di consolidamento delle proprie radici linguistiche. Beninteso senza dimenticare che il latino è una delle spine dorsali dei linguaggi tecnico-scientifici e giuridico.

L’impostazione della riforma che vuol ricostituire una gerarchia fra storia nazionale, storia dell’Europa e dell’Occidente e infine storia mondiale è una delle bestie nere della critica liberal. L’argomento di base è che oramai le classi scolastiche sono piene di bambini d’origine straniera e “imporre” loro l’insegnamento della storia nazionale italiana sarebbe “escludente”. La fallacia logica di questa affermazione è che se questi ragazzi si trovano in Italia è perché le loro famiglie hanno scelto proprio il nostro paese, nell’ottica di una progressiva integrazione. E se l’obbiettivo finale è di diventare “italiani” nel senso civico del termine lo strumento fondamentale è proprio acquisire i fondamentali della storia nazionale, tanto più importante poi è farlo a scuola laddove le famiglie, per ovvi motivi, non sono in grado di istruirli alla conoscenza della storia del loro nuovo paese. Se – pur legittimamente – le famiglie d’origine vogliono mantenere la propria cultura d’origine, non c’è dubbio che per vivere armoniosamente con gli italiani sia necessario conoscerne comunque usi, costumi e tradizioni, cosa che può avvenire solo con una adeguata comprensione del passato storico. I terzo caso, ossia il rifiuto di voler conoscere la storia e l’identità del nostro paese non dovrebbe neppure essere presa in considerazione poiché è auto-escludente.

Non è un caso però che questa terza posizione sia quella che trova il favore di elementi ultra-liberal, in particolare gli aderenti alle teorie de-colonialiste, che sulla falsariga di certe mode d’oltreoceano (tipo il “Progetto 1619” americano) considerano la storia nazionale come una sequela di orrori e ingiustizie perpetrate contro i popoli “colorati”, meritevole d’essere studiata solo come penitenziagite per i bianchi e per instillare in costoro una coscienza disposta all’auto-mortificazione e alle riparazioni “dovute” agli afro-discendenti. Ma se negli Stati Uniti la popolazione d’origine africana è presente da una dozzina di generazioni, facendo parte integrante della storia nazionale, c’è da chiedersi cosa spinga chi odia la storia di uno Stato nazionale europeo fino a 20 anni fa etnicamente omogeneo come l’Italia a volersi stabilire proprio qua e a insistere per accedere alla cittadinanza di una nazione che in ultima analisi disprezza.

Così a nulla rileva l’obbiezione mossa dai critici di Valditara allo “scarso spazio” riconosciuto all’islam nei programmi italiani: “Si parla di islam solo in riferimento all’espansione islamica. Non è un po’ poco, visto che i musulmani in Italia sono circa un milione e mezzo?” domanda polemicamente “L’Espresso” nella citata intervista alla Albanesi. La domanda, o dovremmo dire l’assist, ovviamente ottiene una risposta retorica. Eppure basta la conoscenza della storia a dare una risposta: l’islam non ha mai fatto parte della storia nazionale italiana, se non come elemento di scontro e come minaccia esterna. Gli apporti maomettani (che si limitano a qualche elemento architettonico, all’aver fatto da tramite per la matematica indiana e per la riscoperta di Aristotele, ai nomi di alcune stelle visibili e alla pasticceria siciliana) sono per lo più in negativo, come antagonisti nell’epica cavalleresca dei cicli dei paladini e nella storia delle Crociate. Il resto è “mamma li turchi!”, ovvero una storia di razzie e deportazioni di centinaia di migliaia di schiavi bianchi nei serragli del Nordafrica, una storia che trova nelle tantissime “Marina di…” che punteggiano le nostre coste l’eloquente testimonianza di popolazioni costrette ad abbandonare le località di mare per rifugiarsi nell’entroterra, da cui sono ridiscese solo con l’annientamento della pirateria barbaresca nell’Ottocento, grazie al colonialismo. Naturalmente nulla toglie al fatto che l’islam sia stato una civiltà di grande splendore e molteplici sfaccettature. Ma con la nostra storia nazionale questo cosa c’entra? Cosa c’è alla base della cultura italiana, la Divina Commedia o le Mille e Una Notte?

Medesimo ragionamento che si applica all’enfasi giustamente data nella riforma Valditara allo studio della Bibbia: come si può comprendere la Cappella Sistina michelangiolesca senza conoscere Antico e Nuovo Testamento? Come si può capire perché Melville apre “Moby Dick” con “Chiamatemi Ismaele” e punteggia il suo capolavoro di riferimenti biblici? Come sapere di cosa canta il celeberrimo “Va’ pensiero” verdiano? Il peso che altri testi sacri hanno nella storia italiana, e occidentale nel suo complesso, è trascurabile (con buona pace di alcune affermazioni della Von der Leyen di questi giorni). Né ha senso invocare una presunta “laicità” della scuola, poiché lo studio della Bibbia non è relativo ai suoi aspetti religiosi bensì culturali, esattamente come si studiano i testi della classicità pagana senza per questo sentirsi in dovere di sacrificare agli Dei dell’Olimpo.

Viva il nozionismo!

E se le obbiezioni contro la scrittura in corsivo e le poesie mandate a memoria suonano più come rancori non superati per le frustrazioni giovanili che non reale pedagogia, è ancora il frusto armamentario contro il “nozionismo” a fornire il cavallo di battaglia a gran parte delle critiche alla riforma Valditara. Immaginando perfino – come fa sempre l’“Espresso” nella sua intervista alla Albanese, che i bambini di elementari e medie possano esercitare “pensiero critico” sui fatti storici, mancando e di conoscenza degli stessi (le famigerate “nozioni”…) e di categorie etiche evolute, che possono svilupparsi solo con la crescita, l’esperienza e l’apprendimento (ancora una volta, “nozioni”).

Al contrario il tanto vituperato “nozionismo” rappresenta invece un preziosissimo strumento di costruzione di un telaio di conoscenze. Grazie alle informazioni mandate a memoria si realizza nel cervello degli individui una griglia di concetti, persone, dati e fatti nei quali è sempre più facile inserirne e sistematizzarne di nuovi. Storia e geografia, in particolare, rappresentano i due assi cartesiani fondamentali della conoscenza, fornendo il quando e il dove d’ogni aspetto calato nel tempo e nello spazio reali. Non c’è dubbio che le ideologie decostruzioniste vedano questo come una bestia nera, in grado di fornire all’individuo una bussola cognitiva solida mentre tutto dovrebbe spingere verso la de-strutturazione, l’ambiguità, la “fluidità”, la dis-integrazione della persona dal proprio contesto per trasformarla in una monade alienata.

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Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" e di "Storia in Rete". Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia and Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).