In un recente articolo per il “Corriere della Sera”, Maria Pia Abbracchio e Paolo Soldati, affermavano, con intento polemico verso la presidenza di Donald Trump, che “la vera arma dell’Europa è la libertà di produrre conoscenza”. Sorvolando sull’ormai consolidata tattica di confondere Europa e Unione Europea, viene spontaneo paragonare e contrapporre questa dichiarazione, che giungeva a commento dell’intenzione dell’amministrazione statunitense di tagliare i fondi federali a quelle università che ostacolano il pluralismo, alle ormai note dichiarazioni del vicepresidente J. D. Vance esternate durante il suo intervento alla Conferenza sulla Sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera lo scorso 14 Febbraio.

“Autocrati sarete voi!”

Partendo dal presupposto che il potere politico, in qualsiasi tipo di regime e governo, tende a non gradire le contestazioni, lo scambio di accuse tra le due sponde dell’Atlantico riguarda essenzialmente lo stesso punto: la libertà di espressione. Come noto, il vicepresidente James David Vance ha fatto presente come nell’Unione Europea e nel Regno Unito si assista ormai ad un progressivo arretramento di quella libertà di espressione che per decenni era stata il cardine dei sistemi politici occidentali. Dal canto suo, il Vecchio Continente respinge l’accusa, accusando a sua volta l’amministrazione di Washington di agire in maniera autocratica e, peggio ancora, di farlo in combutta con gli altri autocrati del pianeta.

Democrazia: una parola, molti concetti

In merito a questo scambio di accuse, che riguarda il rapporto tra poteri politici e centrali di diffusione e produzione del sapere, occorre però tenere a mente un dato essenziale: mentre gli Stati Uniti nascono, già nel 1776, con una forma statuale essenzialmente liberaldemocratica, gli Stati europei si adattano al paradigma liberaldemocratico in misura minore, e soltanto molto più tardi, oltre che in maniera diseguale tra Stato e Stato. Quando parliamo di democrazia va dunque sempre tenuto a mente che malgrado la parola sia la stessa, viene a cambiare, a seconda della sponda atlantica sulla quale ci troviamo, il concetto al quale ci si riferisce. Negli Stati Uniti, paese di tradizione genuinamente liberale e liberaldemocratica, si dà per scontato che con democracy si intenda una sostanziale eguaglianza di strumenti a disposizione che i singoli individui poi useranno, mediante il loro ingegno naturale, per arrivare a risultati diversi commisurati al proprio merito. Lo stesso non si può dire, ad esempio, in Francia, dove la parola démocratie si riassume nel noto motto rivoluzionario Liberté, Égalité, Fraternité. Va sempre ricordato che il motto della rivoluzione, impregnato com’è della sua connotazione illuministica, non è il punto di partenza ma il programma della Rivoluzione Francese. Questa diversità prospettica fa sì che mentre negli Stati Uniti (e negli ordinamenti che ad essi si ispirano) l’eguaglianza sia vista come un punto di partenza, in Europa essa viene vista come punto di arrivo. Si tratta di una divergenza profonda che, spesso sottovalutata, ha ricadute profonde nel modo in cui le società del Nuovo e del Vecchio Continente vedono i propri ordinamenti.

Un dibattito non più rimandabile

Tali divergenze, che non nascono certamente con la seconda presidenza Trump, sono spesso rimaste in secondo piano quando, di fronte alla sostanziale sovrapponibilità delle agende economiche e geopolitiche delle due sponde dell’Atlantico, erano subordinate a sfide più importanti. Con il ri-orientamento dell’attenzione della geopolitica di Washington verso lo scacchiere indopacifico, le agende delle cancellerie europee e di quella degli Stati Uniti divergono, lasciando spazio ad accuse incrociate che mettono a nudo la questione mai risolta di due visioni diverse, e per molti aspetti opposte, di quella che da sempre è l’idea cardine della narrazione occidentale, la libertà.

Nella tradizione liberaldemocratica americana il pluralismo delle opinioni, comprese quelle più moralmente inaccettabili, non è soltanto un caposaldo ideologico, ma anche economico e politico: più sono le voci libere di esprimersi e maggiori saranno le possibilità, per il potere politico (ma anche per il commercio, la scienza ecc.), di accedere a contenuti, teorie ed opportunità in grado non solo di rafforzare il potere e lo Stato medesimo, ma anche di rendere potenzialmente felici i propri cittadini. Nel Vecchio Continente, invece, dove l’obbiettivo della società è dato ex ante (ed è l’Égalité, come abbiamo visto), la libertà di espressione è concepita soltanto per quelle opinioni e quelle teorie che si dichiarano funzionali al raggiungimento dell’obbiettivo egualitario prefisso.

Fino ad oggi la lotta contro i fascismi e, più tardi, contro il blocco sovietico, aveva sempre rimandato il dibattito interatlantico sull’essenza della libertà ma oggi, con l’avvento di Donald Trump, sembra ormai non più rimandabile. Come è ovvio, essendo diversa l’idea di libertà che le due sponde dell’Atlantico considerano come meritevole e degna di essere difesa, anche le accuse in merito al suo intaccamento risentono di questa divergenza prospettica; ne consegue che, per uno statunitense, la prima minaccia alla libertà è la messa in discussione del pluralismo mentre, generalmente (ma non sempre) per un politico europeo essa si configura come una messa in discussione dell’obbiettivo egualitario. Da questa profonda divergenza ne nasce un’altra, non meno importante, sul ruolo dello Stato: a tutela della libertà di opinione negli Stati Uniti, a guardia dell’eguaglianza (e soggetto attivo nel perseguirla) in Europa. Strutture sovranazionali come l’Unione Europea, dove giocoforza si radunano idee diverse su cosa sia l’eguaglianza e su come vada attuata (l’idea di libertà, eguaglianza e democrazia è certamente diversa, ad esempio, a seconda che ci si trovi a Parigi, Budapest o Helsinki) tendono obtorto collo ad agire in maniera coercitiva sulla libertà di espressione. Se l’obbiettivo di una società egualitaria è già dato, tanto più numerose sono le differenze (etniche, religiose, sociali) maggiori saranno le voci dissenzienti da silenziare. Tale problema si pone, tra le altre cose, anche all’interno delle singole comunità nazionali, a mano a mano che i valori fondanti delle singole comunità si sfilacciano in una moltiplicazione nichilistica di punti di vista indifferentemente intercambiabili tra loro (è questo il caso del Regno Unito che, pur non facendo parte dell’Unione Europea, è ormai un paese multiculturale a tutti gli effetti, al netto delle preesistenti differenze etniche e religiose tra le varie componenti delle isole britanniche). In questa prospettiva, entrambe le sponde dell’Atlantico agiscono in maniera conforme alla propria tradizione politica: Donald Trump penalizza le istituzioni che non tutelano la libertà di opinione (il caso delle università americane schiave del politicamente corretto era ormai diventato emblematico), mentre i politici europei intervengono contro le voci dissenzienti verso l’ideale utopistico sottinteso al progetto neogiacobino dell’Unione Europea (o dell’Occidente per come l’Europa lo concepisce).

Dalle ghigliottine a Ventotene, passando per il socialismo reale

È importante rimarcare come tale cambio di passo nella politica europea, seppur venuto a palesarsi soltanto ora, fosse in realtà già sotteso e in potenza fin dalle origini delle democrazie europee, laddove la missione trascendente delle società monarchiche di diritto divino, ormai orfana dei troni e degli altari, si traspose completamente nell’utopia razionalistica della realizzazione della “giustizia sulla terra” (qualsiasi cosa ciò significhi), fatta propria prima dal giacobinismo, poi dal socialismo e infine dal messianismo globalista dell’Unione Europea, ben rappresentato dall’esternazione in diretta televisiva di Roberto Benigni, durante il suo monologo Il Sogno dello scorso 19 marzo, nel quale l’Unione Europea, definita “utopia ragionevole”, era descritta come avente il compito di annunciare ai popoli del mondo: “Siete fratelli!” con una traslazione perfetta del messaggio del Cristo dal Vangelo al Manifesto di Ventotene.

Felicità vs Utopia

Questa svolta, come ogni afflato utopistico che, per essere realizzato, si affida alle istituzioni, nasconde in sé una potenziale deriva totalitaria le cui avvisaglie sono ormai sotto gli occhi di tutti. Se l’utopia rimane il fine unico da perseguire diventa chiaro come il fine giustifichi i mezzi, e mentre nel Nuovo Mondo a stelle e strisce la ricerca della felicità rimane un diritto (e non un obbligo) per i cittadini, in Europa non è consentito secedere individualmente dall’utopia. Per uscire dall’impasse, l’Europa ricorre spesso e volentieri al celeberrimo paradosso di Popper, tra le più controverse teorie del liberalismo, secondo il quale la tolleranza si deve a chiunque meno che agli intolleranti. Grave vulnus del paradosso è però chi definisca cosa è intollerante, e che titolo abbia per farlo.

Senza scendere in dettagli nell’analisi politologica della teoria popperiana, argomento che meriterebbe un saggio a parte, possiamo notare, in accordo con Vance, che dal punto di vista americano (e genuinamente liberale) libertà d’espressione e, di conseguenza, democrazia, di fronte a questo “il fine giustifica i mezzi”, sia realmente in arretramento in Europa. Vance si è spinto oltre definendo correttamente tale arretramento come la prima minaccia all’esistenza medesima delle società europee.

Democrazie o democrature?

Nel corso degli anni i sintomi sono andati progressivamente aggravandosi. Le irregolarità elettorali e le intimidazioni giudiziarie ai candidati sono, di solito, tra i primissimi sintomi della degenerazione di una democrazia in una democratura. Il dissidente jugoslavo di etnia croata Predrag Matvejević, che del termine democratura fu l’inventore, la descrisse con un esempio:

Nei paesi democratici il tribunale ti condanna e vai subito in prigione. Nella nostra regione [la Jugoslavia NdA] c’è un ibrido di democrazia e dittatura, che io chiamo democratura. Uno dei leader chiama un altro al telefono e dice: “Non farlo imprigionare, questa cosa non ci serve ora.” Ma in un’altra situazione direbbe: “Arrestalo, che ci fa comodo, mostra ciò di cui siamo capaci“.

Definizione diversa, seppur complementare, ne diede nel 1965 lo scrittore svedese Vilhelm Moberg, che in un editoriale per il Dagens Nyheter scrisse:

In una democratura vengono preservate elezioni generali libere, anche la libertà di parola è formalmente preservata, ma la politica e i media sono controllati da un sistema che cerca di garantire che solo determinate opinioni siano discusse pubblicamente. La conseguenza è che i cittadini vivono in una società influenzata da immagini distorte della realtà. L’oppressione delle opinioni inappropriate è ben nascosta, il libero dibattito è soffocato.

Entrambe le definizioni, a ben vedere, potrebbero applicarsi all’attuale stato della maggior parte delle democrazie europee. Il passo di Moberg risulta consonante con le riflessioni di un altro analista della vita democratica occidentale, Colin Crouch, autore del saggio Postdemocrazia, il quale denuncia, già nell’anno 2000, la degenerazione delle liberaldemocrazie occidentali in repubbliche oligarchiche gestite da comitati d’affari, le cui tornate elettorali sarebbero a loro volta manovrate da oligarchie dell’informazione il cui unico compito sarebbe quello di orientare gli elettorati ad una mera “controfirma” di decisioni, già prese ex ante da quello che oggi chiameremmo deep state. L’esempio di Matvejević, invece, ricorda un’altra prassi della democratura, quella della cosiddetta giustizia a orologeria, che generalmente comincia a operare soltanto più tardi, ovvero quando l’informazione è già completamente irreggimentata o quasi. Se la cosa poteva essere ovvia nella Jugoslavia soggetta alla dittatura della Lega dei Comunisti di Josip Broz Tito, la cosa lo è meno nelle odierne postdemocrazie europee. Come già detto, le irregolarità elettorali e la giustizia a orologeria sono due cartine tornasole importanti per la salute delle democrazie. Gioverà, a tal proposito, un breve riepilogo, peraltro parziale, dei fatti accaduti in Europa negli ultimi dieci anni.

Molti sintomi, una sola malattia

Primo macroscopico caso fu, nel Vecchio Continente, l’annullamento del ballottaggio delle elezioni presidenziali austriache del 2016, quando al secondo turno arrivarono il verde Alexander van der Bellen, appoggiato da tutti i partiti nel nome di un Brandmauer antifascista, e l’esponente della destra populista della FPÖ Norbert Hofer, appoggiato solo dalla sua formazione. Hofer, candidato forte reso popolare dall’emergenza migratoria della rotta balcanica che in quei mesi stava investendo l’Austria, riuscì ad ottenere un cospicuo numero di voti dagli elettori tradizionalmente vicini agli altri partiti e fu dato per vincitore dagli exit poll con il 50,2% dei voti contro il 49,8% dello sfidante. L’esito si ribaltò il giorno successivo, quando ai conteggi passò in testa il candidato ambientalista, in contemporanea alla venuta a galla di molteplici irregolarità nelle operazioni di voto, tutte rigorosamente a favore del candidato dell’establishment; valgano, a titolo di esempio, il caso di Waidhofen an der Ybbs (Bassa Austria) dove l’affluenza toccò il 147%, o quello del collegio ospedaliero di Linz, dove su 3.586 elettori registrati se ne recarono alle urne oltre 21.000, o la comparsa nottetempo di oltre ventimila schede di voti postali, tutte per il candidato verde, durante lo scrutinio dei voti nel Land della Carinzia. Numeri pesanti se si considera che Van der Bellen si impose con uno scarto di soli 13.000 voti. Il caso, imbarazzante per una democrazia occidentale come l’Austria, finì davanti alla Corte Costituzionale di Vienna, che riconobbe le massicce irregolarità, annullò l’esito del ballottaggio e ne indisse uno nuovo (che vide comunque la vittoria del candidato ambientalista).

Non andò meglio alle federali tedesche del 2021, vinte da Olaf Scholz contro il candidato merkeliano della CDU Armin Laschet. In quel caso le massicce irregolarità riguardarono nientemeno che la capitale Berlino, nel cui Land aveva luogo un election day chiamato a decidere anche l’elezione del sindaco e dei rappresentanti delle circoscrizioni. La “cattiva organizzazione” della giornata elettorale fu talmente vasta che in molti seggi, soprattutto quelli periferici tradizionalmente più vicini ad Alternative für Deutschland, mancarono le schede elettorali o ne furono utilizzate altre recanti errori di stampa, mentre altri seggi rimasero semplicemente incustoditi. Dietro presentazione di un ricorso da parte di AfD, la Corte Costituzionale del Land si vide costretta ad annullare la tornata elettorale nella capitale e a farla ripetere.

Spostandoci in Europa Orientale a destare preoccupazione, anche oltreatlantico, è il caso della Romania, dove le elezioni presidenziali tenutesi il 24 novembre 2024, che avevano visto prevalere al primo turno il candidato indipendente di destra Călin Georgescu, sono state annullate a causa di una semplice nota dei servizi segreti di Bucarest, secondo i quali Georgescu avrebbe beneficiato, per la sua propaganda, di bot on TikTok con l’attivo supporto di “potenze straniere”. Le accuse, mai comprovate, hanno valso alla Romania l’annullamento delle elezioni, che saranno ripetute il prossimo 4 maggio, mentre a Georgescu è stato semplicemente impedito di candidarsi nuovamente, con tanto di arresto e perquisizioni domestiche, con un tempismo ed un’equivocità dei fatti contestati che ricordano molto l’esempio jugoslavo citato sopra.

Non va meglio in Polonia dove, al netto di una sostanziale correttezza delle operazioni di voto, si assiste ormai ad un quotidiano bullismo istituzionale nei confronti dell’opposizione conservatrice al governo liberale di Donald Tusk, un approccio che quest’ultimo ha ribattezzato democrazia militante, e che vede, come ultimo episodio, la furiosa lotta per far approvare una controversa legge contro il cosiddetto hate speech che ricorda molto da vicino l’altrettanto controverso, e fortunatamente mai approvato, ddl Zan italiano.

Si parla della medesima libertà di parola che appare minacciata in uno storico bastione della stessa, quel Regno Unito un tempo patria del liberalismo e che oggi vede non solo la libertà di opinione ma anche quella religiosa minacciata dietro il paravento della tolleranza, con attivisti antiabortisti (casi citati a Monaco dallo stesso vicepresidente Vance) tratti in arresto per il semplice fatto di essersi raccolti in preghiera.

Il caso francese della dichiarata ineleggibilità di Marine Le Pen (peraltro per fatti non gravi e non commessi direttamente da lei) è quindi solo l’ultimo sintomo di una tendenza ravvisabile nell’intero continente europeo, dove le elezioni si svolgono in un clima sempre più avvelenato da irregolarità e intorbidimenti e, dove i candidati antisistema, quando si fanno troppo forti, vengono semplicemente arrestati, processati o dichiarati incandidabili, in una maniera non dissimile da come avviene in paesi quali la Russia o la Repubblica Islamica dell’Iran.

Quale libertà?

Alla luce di tutto questo, viene davvero da chiedersi se, come afferma la gran parte della classe politica dell’Unione Europea, sono davvero i populisti di destra la vera minaccia alle democrazie occidentali, accusati a piè sospinto di essere complici e fiancheggiatori di quegli autocrati le cui prassi sono però ampiamente praticate proprio da coloro che si proclamano paladini della liberaldemocrazia e della tolleranza. Viene da chiedersi, altresì, se invece non abbia ragione proprio il vicepresidente statunitense Vance, che, forse grazie ad un punto di vista libero dai condizionamenti mediatici che avviluppano l’opinione pubblica europea, gode di un punto di vista certamente più oggettivo su cosa accade nel Vecchio Continente.
Rimane, infine, un’altra domanda da porre a noi stessi: siamo soddisfatti di cosa sono le nostre democrazie? Domanda che però, a monte, ne sottende una ulteriore: che tipo di libertà vogliamo? La libertà degli individui di ricercare, pur nel rispetto delle leggi e degli altri, la propria felicità, oppure la libertà di perseguire un’utopia già scelta per noi? Il dibattito è aperto.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

Marco Malaguti
+ post

Research fellow at the Machiavelli Center. A philosophy scholar, he has been working for years on the topic of the revaluation of nihilism and the great German Romantic philosophy.