«I dilettanti parlano di strategia, i professionisti di logistica» pare avrebbe detto Omar Bradley. In tempi in cui il tema della difesa e del riarmo è tornato centrale nei media, e quindi un po’ tutti si improvvisano strateghi, le notizie che arrivano dal fronte della logistica gettano una sinistra ombra sulla fattibilità dei progetti di riarmo europei. A raccontarci una storia che ci spiega quanto sia differente preparare una difesa seria dal giocare alla guerra su un tabellone coi dadi è l’articolo intitolato Brücken, Straßen, Schienen: Was passieren muss, damit sie auch im Verteidigungsfall nicht schlapp machen, (letteralmente “Ponti, strade, ferrovie: cosa bisogna fare per evitare che si rompano in caso di pericolo”), a firma Andrea Barthélémy e pubblicato dalla tedesca RND, “Redaktionsnetzwerk Deutschland“, lo scorso 19 marzo. La RND è l’agenzia di stampa che fornisce contenuti per gran parte dei quotidiani locali tedeschi, e ha tra i principali azionisti la SPD.

Che scrive la Barthélémy? Che la rete logistica tedesca di terra – autostrade, 13 mila km, e ferrovie, 38.400 km – non è in grado di reggere allo spostamento di masse di uomini e mezzi pesanti che verrebbe richiesto da una guerra ad alta intensità. Tra gli aspetti evidenziati dall’articolo della RND, il fatto che 4.000 ponti, il 10% del totale, non siano in grado di consentire il trasporto pesante (cosa risaputa almeno dal 2022), il che costringe già adesso gli autotrasportatori a deviazioni di centinaia di chilometri. Altre testate parlano di 5.000 tra ponti e cavalcavia della rete stradale tedesca in cattive condizioni.

Il tutto per tacer della situazione ferroviaria, notoriamente già critica da anni: si prendano ad esempio l’articolo de Il Post del 2018 e quello del 2023. Ritardi non dovuti, come nel caso italiano, all’elevata frequenza dei treni che amplifica i disservizi causati anche da piccoli imprevisti, bensì causa di una rete che su alcune tratte è ormai fatiscente. E, tra l’altro, come riferisce il sito tedesco specializzato in difesa hartpunkt.de, la Bundeswehr starebbe pianificando l’acquisto di vagoni ferroviari antiaerei per garantire la difesa del trasporto ferroviario.

Fermati dai ponti, non dal nemico?

La capacità di movimento per linee interne era uno dei fiori all’occhiello della storia militare della moderna Germania. I piani dello Stato Maggiore imperiale nel 1914 prevedevano di sconfiggere rapidamente la Francia per poi spostare il grosso dell’esercito a est e dare il benservito ai russi, lenti nelle operazioni di mobilitazione. Nel 1933 il grandioso progetto di Autobahnen voluto dal neo-cancelliere Adolf Hitler puntava anche a creare una rete carrabile in grado di consentire lo spostamento-lampo alla sua nuova Wehrmacht all’interno del Reich. Una concezione all’avanguardia, tanto che i criteri di base sul non intasamento delle reti autostradali sarebbero stati ripreso dalla DARPA nella progettazione della rete internet, coi dati al posto dei veicoli.

Ma oggi le capacità di movimento veloce per linee interne della Germania sembra appannato. Oggi spostare solo una brigata corazzata (in media 88 panzer e un altro centinaio d’altri mezzi da combattimento e d’artiglieria, più 150-250 mezzi motorizzati di supporto logistico) comporta snodare su strada una coda che va dai 7 km ai 25, a seconda se ci si sposta in sicurezza o in un’area operativa sotto tiro nemico. Lo spostamento diventa poi ancora più complicato se si pensa che ciascuno degli 88 carri da battaglia Leopard 2, caricati su carrello per la movimentazione stradale, giunge a pesare fino a 100 tonnellate: circa il 120% in più di quanto consentano le norme europee per il transito autostradale (che pongono il tetto a 40-44 tonnellate). E comunque, anche a voler ignorare la burocrazia, ora sappiamo che si tratta di un carico eccessivo per troppi fra i ponti e i cavalcavia tedeschi e in generale europei ai sensi delle leggi della fisica, non a quelli del codice stradale.

“Alè, tutti in auto, avanti 100 metri”

Mentre dunque i dilettanti parlano del numero dei carri e dei cannoni, i professionisti si preoccupano delle gigantesche difficoltà che avrebbe un esercito attuale di un paese europeo a spostarsi in massa sulla propria rete logistica (figuriamoci uno accresciuto…). È dunque evidente che il problema della mobilità militare non possa fare a meno di coinvolgere in pieno il tema delle infrastrutture, realizzate nei decenni del boom (anche con un’ottica legata alle necessità di manovra nella deprecabile ipotesi di uno scontro terrestre fra NATO e Patto di Varsavia) ma poi completamente trascurate negli anni post-Guerra Fredda, fra irenismi da “fine della storia” e vincoli di bilancio.

Così il tema infrastrutturale e logistico sta emergendo dalle retrovie, bussando prepotentemente alla porta e chiedendo di entrare nel dibattito pubblico in quanto parte in causa, mentre la Commissione Europea parla di riarmo, o meglio di “prontezza”, visto che il “Rearm Europe” è stato prontamente ribattezzato “Readiness 2030“, ufficialmente per convincere gli Stati mediterranei, ma viene il dubbio che vi sia una certa dose di adeguamento al politicamente corretto e soprattutto alla difficoltà di rebranding della comunicazione dell’Unione Europea per mantenere una certa coerenza con lo slogan “L’Unione Europea ci ha dato ottant’anni di pace”.

Così a Varsavia, Andrius Kubilius, commissario europeo alla Difesa, ha parlato di mobilità militare, citando uno stanziamento da 70 miliardi, ma nei giornali si è discusso maggiormente dell’aspetto normativo-burocratico in merito al transito dei mezzi militari. Mentre Madrid, sottolinea “Politico”, chiede di inserire il tema della “resilienza delle infrastrutture”, con la cognizione che un apparato autostradale e ferroviario verrebbe messo sotto stress dalla mobilitazione per intero di un esercito, finendo per logorarsi tanto per l’uso che per gli eventuali attacchi nemici.

Il fatto che sul piano infrastrutturale delle reti di trasporto europee la situazione sia quella descritta fa emergere il fallimento del ruolo del PNRR o Next Generation EU, che sarebbe dovuto servire anche a strade e rete ferroviaria. Ma spesso è cosa nota che certi proclami siano ben lontani dalla prova dei fatti: basti ricordare quando l’UE sarebbe dovuta diventare autosufficiente per la produzione di batterie per autotrazione entro il 2025, cosa ripetuta nel 2020 e nel 2022, salvo poi assistere al fallimento del campione europeo del settore, la svedese Northvolt, nonostante le numerose iniezioni di liquidità: 1 miliardo di dollari da parte della Banca Europea d’Investimento e 900 milioni di euro da parte dello stato tedesco.

Una digressione che vale come doppia critica all’Unione Europea e alla sua classe dirigente di questi anni. Da un lato, le capacità di indirizzo non adeguate alle realtà industriali e infrastrutturali. Dall’altro, gli aspetti relativi ai “vincoli di bilancio” che hanno causato il degradamento di quelle reti di trasporto che non ricadevano nei nuovi progetti infrastrutturali. Ovvero, si costruisce il nuovo, ma non si manutiene il già costruito.

Fare come in Corea del Nord? No, ma quasi…

L’occasione attuale di ripensare le politiche europee di difesa appare dunque un’eccellente occasione in chiave logistico-infrastrutturale. Sul tema, beninteso, si potrebbe continuare a delegare con lo strumento all’appalto, coadiuvato dagli immancabili fondi europei. Oppure ripensare il tema logistico-infrastrutturale come elemento ausiliario ma fondamentale delle politiche di difesa e deterrenza. Un tema in cui possono e devono essere coinvolti sia il personale militare sia le aziende del comparto Difesa. Ovviamente non si tratta di fare come in Corea del Nord, dove l’Esercito Popolare sostituisce in toto gli appaltatori di opere pubbliche e stradali e i soldati vengono impiegati come operai.

Il tema della collaborazione fra aziende del comparto Difesa e delle infrastrutture stradali ha offerto un bell’esempio nella storia italiana recente, nato dalla tragica vicenda del crollo del ponte Morandi. Il nuovo viadotto, denominato Genova-San Giorgio ha visto l’intervento determinante di Fincantieri Infrastructure, che ha realizzato le diciannove campate in acciaio del nuovo ponte nei suoi cantieri navali, dai quali escono anche le navi per la Marina italiana. Un esempio di dual use in senso lato, in cui il know-how della cantieristica e la perizia nell’uso degli acciai ha permesso di ripristinare in breve tempo un’infrastruttura fondamentale per la rete autostradale italiana.

Anche in un’ottica della diatriba “burro o cannoni” l’impiego del comparto Difesa nella realizzazione e adeguamento delle reti infrastrutturali nazionali può diventare una soluzione da uovo di Colombo: comprare burro che però possa tornare utile anche nella peggiore delle ipotesi, quella di una guerra.

Il tutto con la non disprezzabile ricaduta determinata dal fatto che se le spese militari verranno stornate dai vincoli di bilancio, mettendo in quei capitoli strade, ponti e ferrovie si potrebbe progettare grandiosi rinnovi delle reti logistiche e infrastrutturali senza la spada di Damocle dei limiti di budget, con un effetto keynesiano sensibile. E la sicurezza che in caso di reale mobilitazione non si debba andare incontro a intoppi logistici.

Si è fatto l’esempio del viadotto genovese come proficua collaborazione tra azienda del comparto Difesa e rete infrastrutturale, e sul piano delle Forze Armate? Qui si entra nel tema della formazione del personale: durante la Guerra Fredda le nazioni avevano investito nella creazione di intere legioni di tecnici e specialisti, ben istruiti in scuole pubbliche efficienti e ben pagati con salari oggi da favola, il cui compito sarebbe stato quello di sostenere uno sforzo militare prolungato. Alle spalle di ogni soldato al fronte, infatti, vi sono almeno quattro uomini nell’apparato logistico che si occupano di nutrirlo, vestirlo, equipaggiarlo e tenere in efficienza il suo armamento.

A costoro si aggiungono tutti quelli che devono tenere in funzione la rete logistica che fa da cordone ombelicale: un’attività un tempo affare delle varie specialità del Genio, e che oggi, in molte nazioni sono state diluite messe da parte o perfino esternalizzate, tanto che l’Italia è l’unico paese NATO (e tra i pochi al mondo, insieme alla Russia) ad avere ancora in organico un reggimento di Genio ferrovieri, adibito al funzionamento e il ripristino delle reti ferroviarie.

Affidare l’espansione e la manutenzione delle reti logistiche e delle infrastrutture strategiche al Genio militare significa ovviamente doverlo rimpolpare con grandi quantità di mezzi e uomini. Uomini che verranno istruiti e addestrati e che diventeranno il lubrificante con cui si manterrà in efficienza la capacità di spostamento delle Forze Armate sul territorio in caso di conflitto. Ma che in tempo di pace (si spera ininterrotto) saranno utilissimi e progressivi per tutto il sistema-Paese.

Nell’ottica della ricostruzione della deterrenza delle proprie brigate corazzate, è bene non dimenticare che queste brigate, per realizzare la detta deterrenza devono poter essere dispiegate sul territorio. E celermente.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

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An essayist and popularizer, his publications include "Alessandro Blasetti. The forgotten father of Italian cinema" (Idrovolante, 2023). And with Emanuele Mastrangelo "Wikipedia. The Free Encyclopedia and the Hegemony of Information" (Bietti, 2013) and "Iconoclasm. The contagious insanity of the cancel culture that is destroying our history" (Eclectica, 2020).

Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" e di "Storia in Rete". Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia and Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).