La denuncia è stata presentata dal tenente in congedo Pasquale Trabucco, presidente del Comitato 4 Novembre, cui si è associato l’Osservatorio Vittime del Dovere: è l’ultimo strascico delle polemiche suscitate dalle infelici uscite della comica militante Luciana Littizzetto. Sul canale di riferimento dell’estrema sinistra, “La7”, è andato in scena un siparietto durante il quale la Littizzetto ha pesantemente ironizzato sulla presunta mancanza di valore militare del popolo italiano. La morale è stata riassunta con la consueta signorilità dalla comica: “Noi italiani non siamo capaci a fare la guerra. Facciamo cagarissimo”.
Non è intenzione di chi scrive aprire una polemica contro la signora Littizzetto, le cui uscite lasciano spesso il tempo che trovano. Ma se le battute della comica torinese hanno scarsa importanza, non ce l’ha il milieu culturale in cui si inseriscono.
Che gli italiani possano eccellere in tanti campi ma non in quello militare, è un’idea che le ultime tre o quattro generazioni si sono viste inculcare dalla scuola come dai media; l’hanno succhiata assieme al latte materno, fino a convincersene, a dispetto di tutte le evidenze storiche del contrario. Tale convinzione è nutrita tanto dall’opinione pubblica di sinistra quanto da quella di destra. Essa ha permeato profondamente anche la parte di società che si ritiene più patriottica.
La leggenda nera dell’Italia imbelle
La promozione di questa cognizione errata e mortificante non è avvenuta per caso, né si può imputare in toto alla prevalenza politica nel dopoguerra di democristiani e comunisti – due culture politiche ostili al nazionalismo e che hanno finito per confondere col fascismo tanti valori positivi rei solo di aver co-esistito con esso, tra cui l’orgoglio nazionale. La narrazione degli italiani imbelli, degli italiani “santi, poeti, navigatori, scienziati” ma giammai “eroi”, fu spinta, consapevolmente o inconsciamente, per reazione alla rovinosa sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Essa costituì una sorta di “vaccinazione” del popolo italiano contro ogni revanscismo o bellicismo. Amputare l’orgoglio nazionale del suo arto militare e guerresco mirava a impedire alle presenti e future generazioni di italiani d’imbarcarsi in nuovi avventurismi bellici.
È un meccanismo simile al mantra, diffusosi nel dopoguerra e ossessivamente ripetuto nella “comunità della politica estera”, che l’Italia sia una “media potenza” e non possa ambire a un peso superiore. Ciò potrebbe anche corrispondere a realtà nello scenario odierno, ma era moneta comune anche quando l’economia italiana superava quella della Gran Bretagna e molte eccellenze industriali albergavano nel nostro paese. Il senso più profondo era quello di negare ogni ambizione d’essere una “grande potenza”, perché le grandi potenze sono chiamate, di tanto in tanto, a difendere il loro status anche con la forza militare.
Così ci vogliamo preparare a un futuro pericoloso?
La narrazione della “l’Italietta che non sa far la guerra” aveva già dei precedenti (in genere promossi da potenze straniere rivali), ma trovò il suo acme dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale. Il suo fine era abortire sul nascere ogni velleità bellicista che potesse riemergere in Italia.
Ma se per decenni chi denunciava il problema è stato emarginato e deriso, tacciato di essere un “fascista” o un “guerrafondaio”, oggi i tempi sono cambiati; molti si rendono conto di come questa narrazione avvilente stia seriamente mettendo a repentaglio la sicurezza della nazione.
Nubi minacciose s’addensano all’orizzonte. In Europa si è tornati a combattere un grande conflitto convenzionale, com’è quello tra Ucraina e Russia. Alle porte del Mediterraneo la guerra tra Israele e Hamas minaccia ogni giorno di potersi allargare in uno scontro regionale con l’Iran. I jihadisti hanno preso il potere in Siria e confermano d’avere una grande presa tra le popolazioni islamiche – non escluse quelle ormai impiantatesi in Europa, come dimostra lo stillicidio di attentati. E mentre la Cina colma rapidamente il gap con gli USA, questi ultimi segnalano in maniera esplicita e chiara la volontà di disimpegnarsi dal grosso dell’onere di difendere l’Europa. La Commissione UE reagisce varando un grande piano di riarmo del continente – un piano difettoso e lacunoso, che ispira poca fiducia, ma che nasce da una percezione di insicurezza che appare giustificata.
Il campo di coloro che vogliono rafforzare lo strumento militare italiano è assai variegato. C’è chi guarda alla difesa nazionale e chi a quella europea. C’è chi vuole armarsi perché teme la Russia o persino gli USA, mentre altri vogliono assecondare proprio le richieste di Washington (condividendone la preoccupazione per l’ascesa della Cina comunista). C’è chi ha paura delle minacce provenienti dal mondo islamico e chi non ha in mente specifici avversari, ma semplicemente vuole aumentare la capacità di deterrenza e difesa in uno scenario instabile e facilmente infiammabile. Alcuni avranno ragione, altri torto, probabilmente in proporzione variabile, e la storia penserà a stabilire chi siano gli uni e chi gli altri; ma di una cosa siamo già certi: può sbagliarsi qualcuno, ma non possono sbagliarsi tutti quanti. In un mondo che si fa sempre più caotico, anarchico e bellicoso, guai a farsi trovare disarmati e impreparati a difendersi. Un triste destino, da preda e da vittima, incombe su chi commetterà questo errore.
Non c’è sicurezza senza orgoglio
Nel nuovo clima europeo, quello del “ReArm” o di “Prontezza”, non v’è più spazio per le narrazioni autolesioniste. A poco servirà spendere miliardi di euro, o acquisire le armi più all’avanguardia, se non ci sarà nessuno disposto a imbracciarle. E siamo scettici che possano scaldare i cuori di potenziali combattenti i discorsi cari all’establishment europeo, quelli sull’intangibilità dei confini dell’Ucraina, l’ordine internazionale liberale, l’Europa di Ventotene e dell’Erasmus. L’unica cosa che motiva alla difesa della patria è l’amore per essa. La nazione è cara solo a chi ha identità nazionale. Sarà disposto a battersi esclusivamente chi ha fiducia in sé stesso, la fiducia che si ricava dal sentirsi parte d’una storia e d’un popolo che, generazione dopo generazione, ha sempre trovato la forza di combattere, quand’era necessario, e spesso anche di vincere.
Ripristinare l’orgoglio e la fiducia nei propri mezzi, anche militari, negli italiani: si tratta di una strada obbligata se si vuole un’Italia più forte e sicura. Non è possibile conciliare una narrazione svilente e svilirilizzante, quella dell’italiano imbelle e incapace in guerra, con i progetti tesi a dare maggiori capacità difensive all’Italia. La prima è un mito incapacitante e, come tale, incompatibile con l’acquisizione o rafforzamento di capacità di difesa.
Se insomma si vuole che gli italiani sappiano difendersi, a prescindere dalla minaccia individuata, occorre sfatare leggende nere e stereotipi, rileggendo la nostra storia senza le lenti della propaganda.
Un popolo anche di eroi, guerrieri, condottieri
Vale la pena dunque di riprendere in mano i capitoli del nostro passato più recente. Non c’è bisogno d’andare a Giulio Cesare o Orazio Coclite al Ponte Sublicio, esempi che qualcuno potrebbe criticare per la distanza che separa i moderni italiani dai progenitori quiriti. Basterebbe invece citare le imprese in guerra dei nostri padri (per esempio le missioni in Libano e Somalia della fine del XX secolo), dei nostri nonni (la Seconda Guerra Mondiale) e bisnonni (la Grande Guerra).
In Libano, in particolare, nel 1982 vennero mandati non professionisti bensì soldati di leva, la cui bravura sul campo venne unanimemente riconosciuta da tutto il mondo. Eppure erano gli stessi “soldatini” presi in giro dalla propaganda dell’epoca e dai film ridanciani o di “denuncia sociale” degli “orrori della naja”. La leva fu invece un’istituzione che non aveva affatto solo lo scopo di preparare “soldati”, ma anche di dare a tutti i giovani italiani maschi un anno di educazione ulteriore alla scuola: educazione alla vita collettiva, all’obbedienza e alla responsabilità del comando, alla precisione e alle regole, alla solidarietà fra italiani e allo spirito di corpo.
La Seconda Guerra Mondiale: anche nella sconfitta c’è onore
Checché ne dica la signora Littizzetto e gli autori che le hanno scritto il siparietto, si può essere eroici in guerra anche nelle battaglie perdute. Del resto la battaglia più eroica per antonomasia, quella delle Termopili, non è forse una gloriosa sconfitta? E se la Seconda Guerra Mondiale l’abbiamo perduta, va detto che, a dispetto della propaganda dei nostri nemici, l’abbiamo fatto comunque a testa alta.
Fra 1940 e 1943 l’Italia tenne testa contro la Gran Bretagna (e poi tutti gli Alleati) per la bellezza di 39 mesi. Contro la Germania (sconfitta dai medesimi Alleati) la Polonia resse 35 giorni, la Francia 45; la stessa URSS, se non avesse avuto un’enorme profondità strategica, avrebbe capitolato in pochi mesi, viste le perdite materiali e territoriali subite. E noi eravamo reduci da dieci anni di guerre (Libia, Etiopia, Spagna, Albania) che avevano svuotato i nostri magazzini. Durante la guerra – e bene ha fatto il colonnello Gianfranco Paglia a ricordarlo – i nostri nonni scrissero comunque pagine di gloria, come quella di El Alamein.
Là, i nostri soldati hanno retto contro un nemico soverchiante. L’ultima frase del marconista della Ariete («Carri armati nemici fatto irruzione sud Divisione Ariete. Con ciò Ariete accerchiata, trovasi 5 km nord-ovest Bir-el-Abd. Carri Ariete combattono»), il 5 novembre 1942, è degna di Leonida, Cambronne o Costantino XI Paleologo.
Nonostante le maldicenze, gli italiani in guerra tennero duro non solo contro gli avversari, ma soprattutto contro le avversità, a partire dalla povertà di mezzi e armamenti causati dall’esaurimento delle riserve nei decenni precedenti e da un’industria impreparata a reggere lo sforzo di una guerra totale.
A dicembre 1941, sempre in Libia, un pugno di volontari dei Giovani Fascisti assieme a dei bersaglieri e una decina di “scatolette di latta”, i carri leggeri L3, avevano retto l’urto di un intero corpo corazzato inglese, il XXX, composto da una brigata indiana, una divisione corazzata e una brigata guardie, tenendo le posizioni a Bir el Gobi fino all’arrivo dei rinforzi inviati da Rommel: 1.500 mal contati italiani contro più di 20 mila britannici.
Sei mesi prima, nel maggio 1941, all’Amba Alagi la resistenza dei nostri soldati guidati dal Duca d’Aosta aveva ottenuto dai vincitori l’onore delle armi. Ma fra i difensori dell’AOI – che, ricordiamolo, erano isolati dalla madrepatria e inesorabilmente condannati alla resa non appena avessero finito munizioni e rifornimenti – ci fu pure chi riuscì a non deporre le armi, come Amedeo Guillet, detto “il comandante diavolo”, incubo degli occupanti britannici, idolo dei suoi soldati indigeni e perfino degli ex nemici abissini, che non accettarono mai di consegnarlo in cambio della taglia di 1.000 sterline d’oro messa sulla sua testa dagli inglesi.
E citiamo appena le imprese degli incursori della Marina, la Decima MAS, controversa per i 20 mesi di militanza nella RSI, ma che nei tre anni di guerra precedenti aveva messo “pancia a mollo” tante navi britanniche con azioni così temerarie che gli stessi ufficiali nemici vollero decorare i nostri, quelli sopravvissuti, dopo l’Armistizio.
Interludio fra due guerre mondiali
Merita anche un passaggio ciò che avvenne in Spagna durante la guerra civile che insanguinò il paese iberico fra 1936 e 1939. In quel conflitto soldati italiani hanno preso le armi con entrambi gli schieramenti. A Guadalajara nel marzo 1937 gli italiani antifascisti combatterono contro i volontari in camicia nera: fu “una guerra civile nella guerra civile” ma entrambi si batterono con coraggio.
E due anni prima era stata l’Africa Orientale il teatro in cui i soldati italiani si imposero all’ammirazione del mondo, combattendo contro gli etiopi ma soprattutto contro un ambiente ostile che fu domato con la costruzione di strade man mano che i nostri eserciti avanzavano in profondità nell’impero coloniale rivale di Hailé Selassié.
Ma non ci sono solo i conflitti a testimoniare il valore degli italiani. Fra le due guerre le imprese aeree dei piloti italiani sui dirigibili o nelle crociere aeree transatlantiche e transcontinentali mostravano al mondo un paese i cui uomini erano “fegatacci” in grado di sfidare la morte. Non si trattava di passeggiate per sport: molti dei trionfi delle ali azzurre erano stati ottenuti con un salato prezzo di sangue versato da aviatori coraggiosi e sprezzanti, perfettamente consapevoli dei rischi a cui si sottoponevano.
La vittoria più grande: la Prima Guerra Mondiale
Ancora andando indietro nel tempo viene il momento di alzarsi in piedi per celebrare quella che è la nostra Vittoria per antonomasia. L’impresa compiuta dai nostri bisnonni, la Grande Guerra, coi suoi 670.000 caduti e 127.500 ricompense al valore. Tre anni di passione in cui il popolo italiano seppe dare il meglio di sé, dall’entusiasmo patriottico dei giovani volontari alla sorprendente capacità di sopportazione del popolo richiamato alle armi. I film come “Uomini contro” hanno cercato di infangare quell’epopea ingigantendo alcuni episodi crudi e drammatici, ma la realtà, che invece emerge dai diari, dalle lettere, dalle corrispondenze dal fronte, era molto diversa. E quegli italiani tanto denigrati (anche allora), tennero botta contro gli austro-tedeschi, dapprima ponendosi sempre all’offensiva, poi nell’impresa gigantesca di tenere il fronte sul Piave e sul Montello quando tutto sembrava perduto.
Perché sì, è vero che c’era stata Caporetto, ma subito dopo ci fu la ritirata ordinata di due armate intere e l’assestamento sul Fiume Sacro. Merita d’essere ricordato l’episodio nodale in cui il re Vittorio Emanuele III, durante la conferenza interalleata di Peschiera, prese in mano le redini della situazione e rifiutò agli anglofrancesi ogni ingerenza nella conduzione della guerra. Gli italiani erano sul Piave e ci sarebbero rimasti. E da là sarebbero balzati di nuovo avanti per chiudere una volta e per sempre i conti con l’Austria.
E le storie individuali d’eroismo in terra, cielo e mare si sprecano: da Enrico Toti, in guerra senza una gamba, a Raimondo Scintu della Brigata Sassari, che assaltò con un pugno di compagni una trincea e ne tornò con un buco di pallottola nei polmoni portandosi dietro 50 prigionieri austroungarici. Da Luigi Rizzo, l’Affondatore, che aveva sfidato le corazzate imperiali-e-regie su dei gusci di noce armati di siluri, ai piloti che varcarono le Alpi non per tirare bombe sui civili di Vienna, ma volantini tricolori, insieme al poeta-soldato D’Annunzio. L’atroce conflitto di trincea che fu la Prima Guerra Mondiale consentì agli italiani di dimostrare il meglio delle loro virtù, come fecero gli Arditi – fegatacci spesso poco raccomandabili – ma anche i ragazzi del ’99, cresciuti a pane e Salgari, che a diciott’anni compirono il loro dovere e vinsero la guerra anche per quegli ingrati che sarebbero venuti anni dopo…
Altro che “Italietta”…
Quei giovani erano cresciuti a pane e Salgari, e non solo. La loro formazione non prevedeva mestatori che andassero a mortificarli, soffiando nelle loro orecchie parole deprimenti e castranti. Al contrario l’Ottocento fu un secolo di educatori che ricordavano ai nostri ragazzi di chi fossero figli: degli eroi sfortunati dell’Amba Alagi e di Adua, di quelli delle Guerre d’Indipendenza, dei garibaldini dell’eroe dei due mondi con la sua folgorante impresa da Marsala al Volturno, e dei patrioti che dieci anni prima avevano tenuto le mura del Gianicolo contro un nemico soverchiante e infido: Mameli, Manara, Bixio, Anita Garibaldi e Colomba Antonietti… E gli studenti universitari di Curtatone e Montanara, l’eroica piccola vedetta lombarda ricordata da Edmondo De Amicis, i volontari vittoriosi a Bezzecca e sconfitti a Mentana, i regolari vittoriosi a San Martino e Solferino e sconfitti a Custoza (ancorché quella fosse più un pareggio che una disfatta…).
E se vogliamo dirla tutta, italiani erano anche i briganti, che diedero filo da torcere all’esercito unitario per quasi un decennio nel Mezzogiorno. Guerrieri anche loro, e di prim’ordine, spesso.
A ritroso nei secoli
Ma continuiamo la carrellata, anche se a volo d’uccello: si possono dimenticare i reggimenti italiani di Napoleone – a ben vedere, italiano lui stesso? Così come italiani furono i due più grandi e geniali condottieri del Sei-Settecento, il principe Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli, entrambi al servizio dell’Impero asburgico contro gli ottomani. Col ramo spagnolo invece basta citare due nomi: Ambrogio Spinola e Alessandro Farnese, pilastri della grandezza iberica e dell’Europa cattolica. E ancora contro gli ottomani non possiamo non ricordare quel pugno d’eroi veneziani, e non solo, che a Famagosta nel 1571 inchiodarono un esercito ottomano forte di 200 mila uomini. Il loro comandante, Marc’Antonio Bragadin, fu torturato per giorni e poi scuoiato vivo, ma non rinnegò la fede in Cristo. Per tacer poi della grandissima parte dei combattenti di Lepanto nel 1574, che tardivamente vendicarono Bragadin, e che erano italiani, così come lo erano stati metà abbondante dei difensori di Malta nel 1565. Per contro, il più grande ammiraglio ottomano di quel tempo – Uccialì – era calabrese, e fu l’unico a riportare a casa le sue navi da Lepanto (un derby fra italiani, insomma…).
A ritroso nel XVI secolo facciamo l’ultima tappa a Barletta, dove i boriosi francesi di monsieur Guy de la Motte osarono dire in faccia ai nostri le stesse frasi che oggi ritroviamo scritte sulla letterina di Luciana Littizzetto. Venne chiesta loro soddisfazione, ottenuta sul campo, in una tenzone fra cavalieri francesi e italiani, provenienti da ogni regione del nostro paese allora diviso in staterelli. Risultato, 13 a 0 secco per gli italiani. Una lezione che è necessario ricordare per i tanti, troppi che hanno sghignazzato al numero della Littizzetto pascendosi della loro ignoranza storica.
Restituire orgoglio e fiducia agli italiani
La storia degli italiani non è affatto quella di un popolo “che non sa fare la guerra”, e che dunque – sottotesto implicito – bene farebbe ad alzare le mani contro ogni nemico e darsi schiavo e prigioniero. Gli italiani sono stati anche un popolo di eroi e di guerrieri. Questo è ciò che dobbiamo tornare a insegnare loro. Non certo perché si vagheggino “campagne espansioniste” o altri progetti bellicosi, ma perché – la storia lo dimostra – solo un popolo capace di difendersi riesce a meritarsi la pace.
Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" e di "Storia in Rete". Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia and Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).
Founder and President of Centro Studi Machiavelli. A graduate in History (University of Milan) and Ph.D. in Political Studies (Sapienza University), he teaches “History and Doctrine of Jihadism” at Marconi University and “Geopolitics of the Middle East” at Cusano University, where he has also taught on Islamic extremism in the past.
From 2018 to 2019, he served as Special Advisor on Immigration and Terrorism to Undersecretary for Foreign Affairs Guglielmo Picchi; he later served as head of the technical secretariat of the President of the Parliamentary Delegation to the Central European Initiative (CEI).
Author of several books, including Immigration: the reasons of populists, which has also been translated into Hungarian.
La cultura politica del dopoguerra, come si evince dall’articolo, ha cercato di allontanarsi dal militarismo e dall’immagine di un’Italia aggressiva per prevenire il ritorno di un nazionalismo estremista. Tuttavia, questo ha generato l’effetto negativo di alimentare la percezione che le risorse destinate alla difesa fossero una spesa superflua, anziché considerarle un investimento essenziale per la sicurezza e il benessere del paese, o, come afferma il Ministro della Difesa, un valore aggiunto al Sistema Paese.