“Geopolitica” significa qualcosa oggi?
“Geopolitica”, un termine che ha acquisito nel linguaggio corrente un impiego talmente ampio da aver assunto contorni semantici quantomai indefiniti. Nel recente passato, infatti, un certo rinnovato interesse per la geopolitica si è trasformato in una vera e propria moda culturale, che nel nostro paese ha visto anche una discreta fioritura di iniziative editoriali dagli inizi degli anni ‘90.
Oramai da tempo il termine affiora con naturalezza laddove questioni latamente politiche abbiano una qualche minima implicazione internazionale; di fatto negli anni è risultato sempre più à la page mostrare nell’analisi dei problemi un’attenzione “geopolitica” (qualunque accezione volesse darsi alla parola), talvolta suscitando ironie anche fondate sull’uso sterile e altisonante del termine.
Ci si chiede allora quale significato dare oggi alla geopolitica, e in che misura questa ha qualcosa da dirci nel faticoso tentativo di leggere il mondo.
Origine e sviluppi della geopolitica classica
Non c’è un’univoca definizione di geopolitica ma certamente, sin dalla sua nascita, la disciplina si è occupata di problematizzare il nesso tra territorio e realtà politiche, con attenzione, sin dai suoi primi sviluppi, al fattore geografico nei rapporti di potere internazionali.
Il termine “geopolitica” è stato coniato dallo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922), che aveva così denominato lo studio del rapporto fra Stato e territorio, inteso come specifica partizione di una più ampia indagine dello Stato concepito quale ente organico, assimilato agli organismi biologici nelle loro funzioni essenziali. Il pensiero di Kjellén aveva importanti elementi di continuità con quelli del tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904), per il quale la stessa espansione territoriale dello Stato rappresentava un processo analogo alla crescita biologica degli organismi viventi.
Nell’ambito della geopolitica classica merita primaria attenzione il pensiero del geografo britannico Halford J. Mackinder (1861-1947), secondo il quale il fulcro geopolitico mondiale risiedeva in un’area Pivot, poi denominata Heartland (cuore della terra), individuata nello spazio geografico posto fra Europa e Asia (la cui estensione venne parzialmente rimodulata nel corso degli anni). Secondo Mackinder, chi avesse controllato quell’area avrebbe dominato l’intera World Island (isola del mondo) e cioè l’intera massa continentale europea, asiatica e africana e – da lì – il mondo intero.
Nello sviluppare la propria teoria, Mackinder aveva evidenziato la dialettica fra popoli marittimi e popoli continentali e aveva preso atto del grande sviluppo tecnologico occorso agli inizi del XX secolo che – in particolare con la rete ferroviaria – aveva compattato i grandi spazi eurasiatici, costituendo un importante contrappeso all’influenza delle potenze marittime. Fra le prospettive più seriamente considerate dall’autore – riguardo allo sviluppo della competizione globale – vi era la possibile saldatura politica dell’area russo-tedesca, che avrebbe potuto irrimediabilmente compromettere la posizione delle potenze marittime occidentali.
Le idee di Mackinder vennero ampiamente riprese e sviluppate da diversi autori. Lo studioso statunitense Nicholas J. Spykman (1893-1943), partendo da una analoga macro-suddivisione del globo, individuò l’area strategica fondamentale per il controllo del mondo non nell’Heartland mackinderiano (il cuore dell’Eurasia), bensì in un territorio marginale – il Rimland – ricompreso nella fascia peninsulare e insulare che circonda la massa continentale eurasiatica, dall’area scandinava passando per il Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Asia Meridionale e Sudorientale, l’Estremo Oriente e la Siberia orientale.
Sempre in ambito statunitense, in precedenza l’ammiraglio statunitense Alfred T. Mahan (1840-1914) aveva rilevato il carattere fondamentale dell’interconnessione fra la posizione di uno Stato e il ruolo congiunto della marina commerciale e militare. Avendo evidenziato le caratteristiche del dominio storico dell’Impero Britannico sui mari, Mahan osservò che gli Stati Uniti dovevano proseguire una politica di potenza marittima di sostanziale continuità e affinità con la Gran Bretagna, mirante al controllo degli snodi marittimi fondamentali di accesso al mare (come i britannici avevano fatto con Gibilterra, S. Elena, Città del Capo, Cipro, Suez, Aden, Singapore…).
Nell’ambito della Geopolitik tedesca, Karl E. Haushofer (1869-1946) riprese le tesi di Mackinder ma in una prospettiva assiologica capovolta, nella quale l’integrazione territoriale dell’Heartland ad opera delle potenze continentali era auspicata e non temuta; in particolare, un’intesa fra Germania e Unione Sovietica nello spazio continentale eurasiatico avrebbe rotto l’assedio della politica dell’anaconda (Anakondapolitik), attuata dalle potenze marittime (allora l’Impero Britannico) che potevano chiudere il libero accesso ai principali porti in caso di conflitto con le realtà continentali.
Per Haushofer è opportuno anche un richiamo alla teorizzazione di aggregati continentali individuati in distinte “pan-idee” e correlative “panregioni”. In particolare l’autore tedesco teorizzava una ristrutturazione delle sfere di influenza in blocchi panregionali estesi sulle linee dei meridiani – quindi con sviluppo spaziale verticale – suddivisi in: Pan-Europa (comprendente anche Mediterraneo, Africa e Vicino e Medio Oriente fino al Golfo Persico); Pan-America; Pan-Russica (estesa fino all’India, ma non più menzionata a partire dal 1941); Pan-Pacifica (a egemonia giapponese, comprendente Cina, Indonesia e Australia). Il sistema Mediterraneo avrebbe avuto una sua autonomia, sotto egida italiana, nell’ambito della Pan-Europa.
La prospettiva panregionale merita peraltro particolare attenzione giacché intuizioni legate a grandi aggregati territoriali – autarchici sul piano economico ed il più possibile omogenei sul piano politico, unificati da un sentire comune e dalla leadership di una grande potenza – rappresentano elementi di una visione in diversa misura diffusa in particolare fra le due guerre mondiali e ripresa, anche con una gran diversità di presupposti e assunti, pure dalle riflessioni geopolitiche e politologiche successive, arrivando sino all’attualità del dibattito sul multipolarismo di cui si farà cenno nel seguito.
Concezioni e approcci della geopolitica classica. Il fattore elementale
Nei principali autori della geopolitica classica, pur a fronte di sviluppi teorici e conclusioni dissimili, si ritrova una condivisione fondamentale di alcuni concetti e approcci per l’interpretazione del mondo.
È ad esempio spesso comune l’attenzione primaria alla dialettica fra le forze continentali della massa eurasiatica e forze periferiche marittime; per queste ultime l’integrazione del macro-continente Eurasia rappresenta una minaccia da evitare. Sovente però la dialettica fra realtà terrestri e marittime nelle relazioni internazionali è stata considerata quale aspetto superficiale di uno scontro più profondo e non privo di marcati connotati metastorici.
Simili concezioni vennero riprese dal noto giurista tedesco Carl Schmitt (1888-1985) che, nella sua opera del 1942 “Land und Meer” (“Terra e mare”), scrisse una sintetica storia elementale pregna – in una narrazione molto suggestiva – di echi e implicazioni chiaramente geopolitici. Schmitt parte dalla considerazione che la storia del mondo è lotta tra terra e mare: si pensi nell’antichità ad Atene, vincitrice della potenza terrestre persiana e sconfitta dall’altrettanto terranea Sparta; o a Roma, città terrestre che prevalse sulla marittima Cartagine. È la lotta fra l’Orso e la Balena (come nell’‘800 si raffigurava la rivalità fra Russia e Inghilterra) o quella – che caratterizzava la storia del mondo per i cabalisti medievali – fra i mostri biblici Behemoth e Leviatano, con il primo, bestia terrestre, che cerca di azzannare e incornare il secondo, mostro marino, il quale a sua volta con la coda gli serra le mascelle (con ciò rievocandosi, secondo Schmitt, il blocco navale perpetrato dalle potenze marittime nella lotta con le rivali terranee).
In generale, presso diversi autori legati alla geopolitica classica, si tendono a sottolineare precise distinzioni fra genti di terra e quelle di mare, evidenziando ad esempio nei popoli marittimi una vocazione individualista, democratica e mercantile (che si esprime anche nel colonialismo e nel capitalismo), a fronte di visioni del mondo comunitariste e organizzazioni gerarchiche che caratterizzano i popoli di terra.
Peraltro Schmitt aveva posto pure attenzione – nell’ambito dei profondi cambiamenti in atto nel ‘900 – sull’aria quale nuovo elemento da considerare nella sfida dell’esistenza, alla luce della crescente rilevanza del dominio dell’uomo sullo spazio aereo. E a ben riflettere – osservava Schmitt – l’elemento aggiuntivo in questo contesto pareva infine essere piuttosto il fuoco, quello della combustione dei carburanti che animano le macchine e quello, terribile, che pioveva dal cielo nel secondo conflitto mondiale con una potenza distruttiva sino a quel momento sconosciuta. [1 – continua]
Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

Giacomo Guarini
A lawyer, graduate in Law ( Third University of Rome) and PhD in Roman Law, Theory of Systems and Private Market Law (Sapienza University of Rome), he is the author of several papers on international law and politics.
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