Pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore alcune pagine dal saggio “Elogio della Storia. L’Italia nella guerra civile europea 1914-1953” (Oaks, pp. 450, € 28,00), di Aldo G. Ricci. Le drammatiche riflessioni di Benedetto Croce, pilastro della cultura liberale italiana, di fronte alle contraddizioni del Trattato di Pace imposto al nostro paese, alle devastazioni delle due guerre mondiali, materiali e spirituali. Un testo a margine del convegno organizzato dal Centro Studi Machiavelli con il contributo del Ministero della Cultura “La ricostruzione dell’identità italiana dal secondo dopoguerra”, del 12 dicembre 2024.
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Le amare considerazioni di Croce circa il trattamento riservato dagli Alleati all’Italia dopo la fine della guerra trova un approfondimento nel dibattito del luglio 1947 sulla ratifica del Trattato di pace da parte dell’Assemblea Costituente. Si trattava di un passaggio difficile, anche se era stato preceduto il 10 febbraio dalla firma a Parigi del Trattato stesso da parte del Governo nella persona del Presidente De Gasperi, nonostante le resistenze di Sturzo, Croce stesso e molti altri esponenti politici, che ritenevano pressoché impossibile che, successivamente, l’Assemblea non ratificasse quanto già sottoscritto senza compromettere i rapporti con gli Alleati e gli aiuti previsti dal Piano Marshall.
Dopo le discussioni preliminari, che videro la resistenza delle sinistre alla ratifica definitiva (PCI e PSI in particolare, che pure avevano approvato la firma del 10 febbraio, ma erano ormai passati all’opposizione dell’esecutivo e in cerca di consensi elettorali), le maggiori critiche vennero da parte dei principali esponenti del mondo politico prefascista: anche questa volta Nitti, Orlando e Croce. Il confronto in Aula si aprì il 24 luglio per concludersi con il voto finale di approvazione del 31, che vide la non partecipazione alla seduta dei socialisti, l’astensione dei comunisti e il voto contrario dei “grandi vecchi” dell’Italia liberale.
Orlando concluse il suo intervento con un drammatico appello ai costituenti “di non farsi complici di un atto dettato da cupidigia e servilismo”, ma fu Croce, il 24 luglio, a svolgere nel modo più netto le ragioni per respingere la ratifica.
Dopo aver dichiarato il suo dolore di fronte a un documento umiliante, Croce affermò che “è pacifico quanto evidente” che “noi italiani abbiamo perduto una guerra e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere”, “perché non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte”.
Ma riconoscere la sconfitta, proseguiva, non poteva comportare anche accettare il “giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del continente nero”.
Un tempo i vincitori, senza ipocrisia, non davano tregua ai vinti fino a quando non pervenivano a metterli a morte, mentre oggi (“bisogna pur confessarlo”, chiosa sommessamente la voce dal sen fuggita del grande Storico) vengono istituiti tribunali “senza alcun fondamento di legge” per “giudicare, condannare, impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti”.
“L’Italia così purgata e purificata” con l’accettazione di questo documento “dovrebbe rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli”. Ma come si può credere, si domanda Croce, che ciò sia possibile se, dopo aver sollecitato e accettato il concorso dell’Italia nell’ultima parte della guerra contro la Germania, “l’avete (rivolto agli Alleati), con pertinace ostilità esclusa dai negoziati della pace”, offendendola “nel fondo dell’anima sua”?
Questo documento, aggiunse, non è accettabile “né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né come Europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea”. Subire questo dettato, concludeva con toni fortemente accorati, non può voler dire approvarlo. “Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile a un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela”.
Sono parole dure e drammatiche, che mettono il dito nella piaga di un equivoco che accompagnerà lo sviluppo della coscienza civile in Italia per molti anni e resta in qualche modo ancora irrisolto, sia pure accuratamente seppellito e rimosso: l’equivoco di un Paese che era uscito dalla guerra senza appartenere né alla schiera dei vincitori, né, interamente, almeno in apparenza, a quella dei vinti (nella quale venivano annoverati soltanto i sostenitori della RSI, gli sconfitti della guerra civile); un Paese sospeso in una terra di mezzo, carica di ambiguità che avrebbero condizionato la sua maturazione politica.
Alla luce di queste considerazioni si comprendono meglio gli accenti tragici di alcuni degli ultimi scritti di Croce. Sono lontani i tempi dell’inizio del secolo, quando Croce parlava di “progresso cosmico” a proposito degli sviluppi della storia umana. “Il male, scriveva, essendo ciò che non è, è irreale, e ciò che è realmente è sempre solo bene”: insomma come argomentava il sommo Hegel, il razionale e sempre reale e viceversa.
La storia, quindi non comporterebbe mai regressi duraturi, ma solo contraddizioni. “Le soluzioni, una volta raggiunte, sono acquisite per sempre; i problemi, una volta risoluti, non risorgono più, o, che è lo stesso, risorgono in modo diverso dal passato”.
Da queste considerazioni derivava una fede razionale nella libertà nata tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento: una libertà indistruttibile perché, anche se, in alcuni periodi, sarebbe potuto accadere che i regimi liberali dovessero soggiacere per qualche tempo a regimi autoritari e illiberali, “la libertà avrebbe seguitato a operare dentro di questi e a corroderli e, infine, ne sarebbe tornata fuori più sapiente e più forte”. Quindi, anche attraverso il male il progresso verso il bene sarebbe comunque razionalmente assicurato.
Alla luce di queste considerazioni, Croce, nel saggio “La storia come pensiero e come azione”, respingeva l’idea di accettare la presenza dell’irrazionale nella Storia, perché, a suo giudizio, l’irrazionale non è altro che la faccia negativa della realtà del razionale e può essere inteso e rappresentato solo in quanto si rappresenta e si comprende la realtà.
Questo quadro di ottimismo razionale muta profondamente in seguito alla Seconda guerra mondiale e, in particolare, alla catastrofe che travolge l’Italia. Già dopo il primo conflitto europeo, osserva Croce, si erano diffusi sentimenti di un declino irreversibile dell’Occidente (Spengler), ma dopo il secondo conflitto questo sentimento è diventato sempre più radicato, coinvolgendo soprattutto la civiltà europea.
Le distruzioni sistematiche e intenzionali che la guerra ha comportato, hanno significato la rottura della tradizione e l’instaurazione della barbarie, che ha spazzato via molte delle migliori opere della creazione umana per puro spirito nichilista, dando corpo a quella fine della civiltà che molti temevano imminente.
Questi pensieri trovano spazio esplicitamente nel saggio “L’Anticristo che è in noi” del 1946, dove Croce parla di “imbarbarimento”, nel quadro di una guerra di tutti contro tutti, in un mondo dove il totalitarismo, anche dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo, continuava a prosperare e ad espandersi, aprendo le porte a un’epoca che non poteva certo essere definita di civiltà e di progresso.
Le parole di Croce in proposito sono altamente drammatiche. “L’Anticristo distruttore del mondo, scrive, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuole comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”.
Sembra una prospettiva senza via d’uscita, una crisi senza speranza, in cui il negativo è destinato a prevalere. La possibilità di una decadenza, sempre avversata dal filosofo, si è fatta invece concreta e immanente, mentre appare, in alcuni passaggi, addirittura irreversibile.
Ma, a leggere con attenzione, nel quadro delineato, alle ombre prevalenti si alternano anche delle luci; la fiducia ottimistica nella razionalità della Storia e nel progresso senza cadute è venuta meno, ma ha lasciato il posto a una visione più complessa e articolata che, alla luce delle crisi mondiali, ha fatto propri il realismo senza illusioni del binomio che Machiavelli pone alla base delle vicende umane (Virtù e Fortuna) e il pessimismo del Leopardi de “La ginestra”.
Croce, quindi, prende atto di una profonda e dolorosa crisi interiore. E non a caso nello stesso testo si legge questa confessione: “Richiede uno sforzo penoso passare alla diversa visione della civiltà umana come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa”.
Parole drammatiche e inequivocabili. Lo Spirito e quindi la civiltà possono sempre prevalere sull’Anticristo, ma all’interno di un conflitto senza fine, in cui non si può mai pensare che la vittoria della Libertà, e quindi della civiltà, sia stata ottenuta una volta per tutte, mentre invece essa va riconquistata attraverso una lotta continua, grazie alla “forza eterna e immortale dello Spirito”: un messaggio la cui attualità appare ancora oggi assolutamente indiscutibile, soprattutto in tempi come quelli che viviamo, in cui molte e preoccupanti ragioni propendono in favore di una visione del futuro certamente non ottimistica e progressiva.
Aldo Giovanni Ricci
Archivista, storico, saggista. Per oltre 40 anni ha lavorato all’Archivio Centrale dello Stato di cui è stato direttore dal 2004 al 2009. Esperto della valorizzazione della memoria storica nazionale dall’Unità a oggi, e autore di libri, articoli, edizioni di fonti. Per 16 anni è stato collaboratore fisso di "Storia in Rete", curando la rubrica di libri e recensioni.
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