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Neppure è iniziata la seconda presidenza Trump che una ventata di aria nuova sembra entrata in diversi regimi del nostro Occidente allargato, fino al 5 novembre scorso lanciati in una corsa senza freni verso l’approvazione di leggi liberticide dai caratteri orwelliani. Così il governo australiano sembra volersi riallineare azzerando il Misinformation and disinformation bill contro cui si era scagliato lo scorso settembre Elon Musk, definendola legge fascista.

Per diversi mesi in Australia il dibattito intorno a questa legge e all’«Hates crimes bill», aggiornamento della legislazione del 1995 in merito ai “crimini d’odio”, aveva travalicato i confini nazionali finendo perfino nei titoli di giornale europei e statunitensi.

Da una parte il Misinformation and disinformation bill definito assolutamente “fuori di testa” dal fondatore di «Quillette», il principale magazine conservatore australiano. E dall’altra l’Hates crimes bill, giudicato dagli attivisti, in particolare quelli dei gruppi LGBT, nonostante le pene fino a sette anni per le minacce di violenza, troppo permissiva in tema di “odio online”. Proposta di legge che invece sta continuando il suo percorso legislativo.

Due proposte di legge le cui interpretazioni sono state agli antipodi, e che pure non presentano gli eccessi che si erano visti in simili legislazioni dell’Anglosfera.

In particolare l’Hates crimes bill australiano si limita ad ampliare la casistica delle minacce di violenza contemplate della legge del 1995 che verrebbe integrata aggiungendo a sesso: “sexual orientation, gender identity, intersex status”. Al netto delle modifiche, l’impostazione della legge rimarrebbe quella originale, ovvero per procedere ci deve essere una minaccia di forza e violenza («threatens to use force or violence») e la ragionevole certezza che la minaccia possa avere seguito. Motivo che ha causato l’insoddisfazione degli attivisti che speravano in un approccio predittivo analogo a quello della legislazione scozzese e irlandese.

Ma sfortunatamente per i forcaioli dell’Isola Verde, la legge irlandese che era stata palleggiata per tre passaggi tra le due camere era prima stata messa in naftalina alla vigilia dell’approvazione definitiva, in vista delle elezioni generali di fine novembre, e al momento la sua approvazione al momento pare scongiurata, anch’essa dopo il risultato elettorale di Washington.

Sull’Hates crimes bill australiano e le omologhe scozzese e irlandese vale anche un’altra notazione. Nella proposta australiana oltre a identità di genere e orientamento sessuale compare anche l’intersex status, probabilmente un effetto delle polemiche in merito alla querelle olimpica della scorsa estate intorno al pugile algerino ammesso nella categoria femminile. Elemento non esplicitamente menzionato nella proposta irlandese, mentre in quella scozzese del 2021 si parlava genericamente di “variazioni delle caratteristiche sessuali”. Viceversa solo la legislazione irlandese esplicita la fattispecie della “espressione di genere”, non presente né in quella scozzese né in quella australiana. È quindi utile rimarcare ancora una volta come queste nuove legislazioni woke non sappiano nemmeno definire in maniera univoca quali declinazioni e permutazioni debbano tutelare.

Anche il «Misinformation and disinformation bill» che è stato abbandonato nelle scorse settimane si pone in apparenza equilibrato, privo di quei contraddittori cortocircuiti woke spesso disseminati in questa tipologia di legislazione. A colpire (e preoccupare) è però l’estrema vaghezza del tutto, delegando tutti i poteri all’ACMA, Australian Communications and Media Authority. Claire Lehmann di «Quillette» ha brillantemente riassunto la questione in “The people who often are using the term misinformation are purveyors of misinformation themselves.”

Cos’è la “disinformazione” contro cui vorrebbe operare questa legge? Riassumendo dagli articoli dal 13 al 15 essa è definita come un contenuto che «contiene informazioni ragionevolmente verificabili come false, fuorvianti o ingannevoli». Contenuto il quale una volta condiviso sulle piattaforme online diventa «ragionevolmente in grado di causare o contribuire a un danno grave».

Danno grave che a sua volta viene definito con la seguente casistica:

danneggiare il funzionamento o l’integrità di un processo elettorale o referendario del Commonwealth, dello Stato, del Territorio o di un’amministrazione locale; oppure
            (b) danni alla salute pubblica in Australia, compresa l’efficacia delle misure sanitarie preventive in Australia; o
            (c) denigrazione di un gruppo della società australiana distinto per razza, religione, sesso, orientamento sessuale, identità di genere, condizione intersessuale, disabilità, nazionalità o origine nazionale o etnica, o denigrazione di un individuo a causa della convinzione che l’individuo sia un membro di tale gruppo; o
            (d) ha intenzionalmente inflitto lesioni fisiche a una persona in Australia; o
            (e) imminenti:
                        (i) danni alle infrastrutture critiche; o
                        (ii) interruzione dei servizi di emergenza in Australia; o
            (f) danno imminente all’economia australiana, compreso il danno alla fiducia del pubblico nel sistema bancario o nei mercati finanziari;
che abbia:
            (g) conseguenze significative e di vasta portata per la comunità australiana o per un segmento della comunità australiana; oppure
            (h) gravi conseguenze per un individuo in Australia.

Nel valutare la “disinformation” e il “serious harm” occorre tenere conto delle

circostanze in cui il contenuto viene diffuso;
            (b) l’oggetto delle informazioni contenute nel contenuto che è ragionevolmente verificabile come falso, fuorviante o ingannevole;
            (c) la portata potenziale e la velocità della diffusione;
            (d) l’autore delle informazioni
            (e) lo scopo della diffusione;
            (f) se le informazioni sono state attribuite a una fonte e, in tal caso, l’autorità della fonte e la correttezza dell’attribuzione;
            (g) altre informazioni correlate diffuse che siano ragionevolmente verificabili come false, fuorvianti o ingannevoli.

Permangono le esenzioni a riguardo di «notizie professionali, e (ragionevolmente) tutto quello che è satira, parodia, contenuto accademico, artistico, scientifico, o religioso». Le eventuali violazioni per le piattaforme potrebbero arrivare a multe fino al 5% del fatturato annuo. A leggere questi estratti non appare una legislazione così restrittiva al netto delle questioni LGBQ in merito alla vilification, diffamazione o denigrazione, di gruppi in base a

denigrazione di un gruppo della società australiana distinto per razza, religione, sesso, orientamento sessuale, identità di genere, condizione intersessuale, disabilità, nazionalità o origine nazionale o etnica, o denigrazione di un individuo a causa della convinzione che l’individuo sia un membro di tale gruppo.

Ma vengono tutelate libertà, per satira, ricerca, fede religiosa e notizie (ma solo quelle professionali) e il fatto che di contro l’Hate speech bill manterrebbe la sussistenza di una vera minaccia per poter procedere. Ma il reale problema di questa legislazione, come di legislazione simili, è che le fattispecie non vengono definite chiaramente, ma è tutto demandato al rapporto tra la prassi dell’agenzia governativa di turno e le piattaforme online, che da un lato vogliono vedere iterazioni, accessi e contenuti ma allo stesso tempo vogliono evitare le corpose multe.

La situazione che si verrebbe a creare in Australia con la nuova legge, come sottolinea il think-thank libertario statunitense Cato Institute, è analoga a quella vigente oggi in Europa grazie al DSA: «Il disegno di legge sembra ispirarsi in parte alla legge sui servizi digitali dell’UE in termini di creazione di responsabilità e regolamenti significativi».

E in Europa, sarebbe il caso di ammetterlo, in termini di libertà di parola si sta prendendo una piega che forse fa rimpiangere certe democrature. Il DSA, Digital Services Act europeo, in vigore dal 2022 e volto a “tutelare” il cittadino europeo da “contenuti illegali e disinformazione”. Ma il DSA non definisce cosa siano i contenuti e i discorsi illegali. E il cittadino pensa giustamente che un “contenuto illegale” “discorso illegale” sia effettivamente ascrivibile all’illegalità così come definita nel codice civile e nel codice penale del proprio Stato. In realtà non è così semplice.

Le piattaforme online devono infatti sottostare al DSA e, soprattutto quelle statunitensi non hanno tutta questa voglia di dedicarsi alla complessa burocrazia europea e alle multe milionarie sempre in agguato. Succede così che le piattaforme interpretino come “illegale” come qualunque cosa che possa far alzare il sopracciglio al burocrate europeo.

Come è accaduto ad una coppia di youtuber sino-italiani basati in Cina, che si sono visti censurare un video dedicato alla bandiera della Corea del Sud perché nel video si accennava alla bandiera della Corea del Nord.

Il video in questione era stato subito demonetizzato dal sistema, ovvero era stato escluso dalla possibilità di ospitare clip pubblicitarie e ricevere quindi degli introiti da essi. Non una censura tout-court, ma un’azione sufficiente a demotivare l’azione di chiunque intenda guadagnarsi da vivere realizzando contenuti in rete. Una forma di repressione strisciante che si aggiunge a quella, già praticata da lunga pezza, dello shadow ban, la più perfida, per la quale i contenuti vengono liberamente immessi sulle piattaforme, ma gli algoritmi non li fanno apparire nelle ricerche o nelle bacheche dei possibili fruitori, trasformando ogni prosumer “scomodo” in una vox clamantis in deserto. È interessante notare che lo shadow ban può spesso essere aggirato… pagando le piattaforme perché i propri contenuti vengano diffusi con maggiore intensità. Qualcosa che appare come un vero e proprio pizzo legalizzato: se non paghi, ti oscuriamo al tuo pubblico…

Peraltro, la stolidità della censura di YouTube nel caso del video sulle Coree si è dimostrata dal momento che è bastato togliere i riferimenti alla Corea del Nord per rendere il video di nuovo fruibile e monetizzabile. Di fatto il combinato disposto tra DSA e regole delle piattaforme social realizza un meccanismo di censura preventiva per il quale sia il creatore del contenuto che l’utente sono costretti a evitare qualunque argomento “sensibile”, a prescindere dal fatto che esso sia legale o non secondo la legislazione vigente nel proprio Stato.

Il DSA europeo si pone dunque come una legislazione – o meglio una situazione giuridica, i quanto combinato disposto di fattispecie fumose e proattività dei soggetti privati a cui è imposto farsi controllori – da fare invidia alla censura cinese: questa la vicenda colpisce infatti proprio perché si parla di content creator ben avvezzi al contesto cinese e dunque esperti nel muoversi fra le maglie di una censura da Stato dittatoriale che per paradosso vengono censurati in Europa e non in Cina.

È “solo” YouTube si dirà. Eppure una grossa fetta dell’informazione ormai passa proprio da YouTube e dagli altri canali social che il DSA mette sotto ipoteca. Informazione che arriva al pubblico anche a causa della crisi di autorevolezza della stampa “ufficiale”. Su YouTube ci sono, anche in lingua italiana, autori di contenuti che vantano decine di migliaia di iscritti e decine di migliaia di visualizzazioni su ogni singolo video. Numeri che fanno invidia alle tirature sempre più asfittiche dei quotidiani dei “professionisti dell’informazione” e che iniziano a insidiare anche quelli dei telegiornali. Per tacer poi dell’assoluta qualità di quei contenuti, basati su rassegne stampa internazionali (dalla Cina agli Stati Uniti, agli aggiornamenti sulla guerra in Ucraina) e ragionate che i media mainstream, anche quelli più paludati, non riescono oramai ad offrire con lo stesso livello di approfondimento e correttezza informativa.

La logica conseguenza è che sempre più utenti, anche per motivi anagrafici, si rivolgono alle piattaforme su internet per cercare informazione attendibile, tanto che su X, all’alba del risultato elettorale ottenuto da Donald Trump, Elon Musk ha potuto tuonare trionfante “ora i media siete voi”.

Usare il DSA come grimaldello più o meno indiretto per affossare questo tipo di contenuti non restituirà la fiducia del pubblico ai media mainstream e non garantirà maggiori vendite ai quotidiani. Anzi aumenterà ancora la sfiducia verso l’Unione Europea e le sue istituzioni.

Enrico Petrucci
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An essayist and popularizer, his publications include "Alessandro Blasetti. The forgotten father of Italian cinema" (Idrovolante, 2023). And with Emanuele Mastrangelo "Wikipedia. The Free Encyclopedia and the Hegemony of Information" (Bietti, 2013) and "Iconoclasm. The contagious insanity of the cancel culture that is destroying our history" (Eclectica, 2020).