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Il giorno 7 ottobre 2023 ha segnato l’inizio di un nuovo sanguinoso capitolo del lunghissimo conflitto arabo-israeliano, determinando contestualmente l’interruzione del processo di pace tra lo Stato di Israele e diverse nazioni facenti parte del mondo islamico. Allo stato attuale continuazione del conflitto risulta a completo vantaggio di una delle principali fonti di instabilità nell’area mediorientale, la Repubblica Islamica dell’Iran. La principale via verso una pace nel lungo termine, nonché la principale garanzia alla sicurezza dello Stato di Israele, consiste nella formazione di una solida realtà statale palestinese.

Ozymandias

Il 7 ottobre 2023 Hamas ha conseguito un enorme successo strategico tanto sotto il profilo militare, quanto politico, nei confronti dello Stato di Israele. Sotto il primo aspetto, il gruppo terroristico avente la propria roccaforte a Gaza è riuscito a sorprendere lo Stato ebraico mediante un’audace operazione di infiltrazione delle proprie forze nelle retrovie israeliane. L’azione di Hamas è risultata nell’occupazione di intere città, nonché nella cattura di numerosi ostaggi. In relazione al secondo aspetto, lo Stato di Israele ha scatenato una possente operazione militare di rappresaglia risultata in una vera e propria invasione su vasta scala della Striscia di Gaza. Tale operazione è risultata sin dal primo momento segnata da obbiettivi di lungo termine piuttosto vaghi, nonché privi di un’effettiva simmetria tra questi ultimi e gli strumenti a disposizione. La leadership dello Stato ebraico ha infatti asserito che il proprio obbiettivo prioritario risulta essere la distruzione delle capacità militari di Hamas, ma si è rivelata incapace di identificare con chiarezza i termini di tale obbiettivo, fallendo al contempo nell’indicare come portare avanti regolari attività di governo nella striscia una volta che il conflitto sia cessato. In virtù dell’elevatissima densità abitativa della Striscia di Gaza l’operazione ha provocato immani perdite civili, nonché devastanti danni infrastrutturali.

L’azione militare israeliana nella Striscia di Gaza ha sinora avuto tre disastrose conseguenze sul piano internazionale. In primo luogo, il processo di pace arabo-israeliano, riattivatosi a seguito della firma degli Accordi di Abramo nel 2020, è stato temporaneamente interrotto. Il desiderio di pace e la comune ostilità nei confronti dell’Iran sono ormai assunti allo status di fattore strutturale nelle politiche estere dei paesi arabi e di Israele, ma le disastrose conseguenze della guerra di Gaza hanno temporaneamente congelato ogni possibilità di normalizzazione dei rapporti tra le parti. In particolare, le nazioni arabe hanno costantemente richiesto l’assicurazione da parte di Israele della nascita di un futuro Stato palestinese, concessione che al momento pare non essere nei piani della leadership dello Stato ebraico. In secondo luogo, la reputazione internazionale di Israele ha raggiunto il minimo storico a causa delle atroci immagini provenienti dalla Striscia di Gaza. In tutto il mondo si sono diffuse forti proteste antisraeliane, risultate talvolta nell’occupazione di alcune strutture universitarie. In ultima analisi, il danno forse più grave cagionato dal confitto risulta essere la crescente frattura tra il “Nord” e il “Sud” globale. La risoluzione dell’Assemblea Generale Onu del 26 ottobre 2023 volta a richiedere una tregua umanitaria a Gaza ha visto solo gli Stati Uniti e diverse nazioni occidentali optare per il voto contrario e l’astensione. Il cosiddetto “Sud Globale” ha unanimemente richiesto un cessate il fuoco, criticando duramente la condotta delle operazioni israeliane. Viceversa, gli Stati Uniti hanno adottato una postura completamente favorevole allo Stato ebraico, tanto sotto il profilo diplomatico, quanto militare. Washington ha infatti posto il veto a diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU volta al raggiungimento di un cessate il fuoco.

Contemporaneamente gli Stati Uniti hanno fornito un esteso supporto militare all’operazione israeliana. Tale sostegno è stato erogato pressoché interamente mediante un aggiramento del Congresso da parte della Presidenza. La politica statunitense nei riguardi del conflitto ha comportato pesanti critiche da parte delle nazioni facenti parte del Sud Globale, le quali hanno accusato Washington di ipocrisia, in virtù della pesante opposizione all’invasione russa dell’Ucraina, alla quale si è tuttavia affiancato un sostegno de facto all’occupazione israeliana di Gaza. In conseguenza di ciò, il presidente Joe Biden è stato definito “isolato” sullo scenario internazionale. Un aggettivo in precedenza utilizzato per descrivere la sua nemesi, il presidente russo Vladimir Putin.

Il pantano

Allo stato attuale il conflitto risulta essere in uno stallo politico e militare. Il centro di gravità del conflitto risulta infatti essere politico, dato il sostegno popolare raccolto da Hamas tra la popolazione palestinese in virtù della propria opposizione armata alle politiche israeliane. Viceversa, l’operazione israeliana risulta chiaramente avere un centro di gravità “cinetico”, rivolto alla distruzione degli asset militari di Hamas. Ciò lascia quindi lo stato ebraico privo di ragionevoli opzioni. Anche laddove Israele riuscisse infatti a distruggere le capacità militari del gruppo palestinese, il successivo esercizio delle attività di governo nella Striscia di Gaza rappresenterebbe un’incognita estremamente pericolosa per lo Stato ebraico. Un pieno ripristino del controllo israeliano su Gaza costringerebbe lo Stato ebraico ad assorbire i costi derivanti dalla necessità di erogare servizi a circa due milioni di civili palestinesi. Al contempo, difficilmente la popolazione della striscia accetterebbe una nuova occupazione israeliana, continuando a provocare disordini che peggiorerebbero ulteriormente la posizione internazionale israeliana. Una seconda opzione potrebbe consistere nella cessione da parte di Israele della Striscia di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche tale scenario risulterebbe altamente problematico. L’ANP è infatti un’istituzione debole, delegittimata e afflitta da profonda corruzione. Contemporaneamente, è altamente improbabile che un’istituzione palestinese possa ottenere un sufficiente sostegno popolare venendo insediata sulle macerie dell’operazione israeliana.

Una politica volta quindi al conseguimento di una improbabile vittoria militare su Hamas nell’ambito del presente conflitto risulta decisamente disfunzionale ad una sua risoluzione nel lungo termine. Allo stato attuale, l’unica opzione possibile pare essere l’invio di una missione di pace araba e musulmana sul territorio della Striscia di Gaza. La presenza di contingenti di pace arabi e musulmani determinerebbe infatti la formazione di una zona cuscinetto de facto tra le parti garantendo la sicurezza di Israele. Hamas non potrebbe infatti lanciare alcuna “intifada” nei loro confronti e al contempo, Israele non potrebbe condurre altre azioni offensive di fronte al rischio di un conflitto regionale con gli attori coinvolti. La storia ha più volte dimostrato come l’invio di contingenti neutrali risulti altamente funzionale a fare da contrappeso agli intenti bellicisti di due attori. Il dispiegamento da parte degli Stati Uniti della Settima Flotta nello Stretto di Taiwan riuscì infatti ad impedire tanto un’invasione dell’isola da parte delle forze maoiste, quanto un tentativo da parte di Chiang Kai-shek di riprendere il controllo della Cina continentale.

Disinnescare la crisi

La formazione di una missione di pace nella Striscia di Gaza determinerebbe inoltre un altro importante risultato, la possibilità di formare un effettivo Stato palestinese. Il movimento terroristico di Hamas trae infatti la propria forza proprio dall’assenza di solide istituzioni statali, fornendo ai cittadini i servizi non garantiti da queste ultime e creando al contempo un costante clima di mobilitazione nei confronti di un nemico esterno, percepito come principale responsabile delle condizioni socioeconomiche palestinesi. Il monarca francese Luigi XVIII mostrò alle nazioni europee durante la fase della restaurazione come la rinascita di uno Stato nazionale francese avrebbe costituito il principale contrappeso alla marea rivoluzionaria che aveva devastato l’Europa negli anni precedenti. La formazione di uno Stato palestinese dotato di istituzioni solide priverebbe Hamas della sua ragione d’essere, nonché del proprio sostegno popolare.

L’attacco perpetrato il 7 ottobre da Hamas ha visto come effettivo beneficiario la Repubblica Islamica dell’Iran, maggiore sostenitore del gruppo terroristico. Allo stato attuale la mancata assicurazione da parte di Israele circa la formazione di uno Stato palestinese rappresenta il principale ostacolo al completamento del processo di pace arabo-israeliano. Tale impasse risulta notevolmente vantaggiosa per Teheran, la quale grazie ad essa evita di ritrovarsi in un pieno isolamento diplomatico. Le nazioni arabe non possono infatti normalizzare pienamente i propri rapporti con Israele sino alla conclusione del conflitto a Gaza in virtù del devastante impatto che ciò avrebbe sulle proprie opinioni pubbliche. La formazione di uno Stato palestinese garantirebbe il pieno conseguimento del processo di pace arabo-israeliano, determinando un isolamento diplomatico dell’Iran, principale fonte di instabilità in Medio Oriente assieme ai gruppi terroristici sunniti, aprendo contestualmente grandi opportunità commerciali tra Israele e le nazioni arabe.

Allo stato attuale uno dei principali ostacoli al raggiungimento di tale obbiettivo risulta essere la scarsa lungimiranza delle autorità israeliane. Colpito duramente dagli scandali di corruzione che lo hanno coinvolto, il premer israeliano Benjamin Netanyahu è stato fortemente indebolito dal fallimento del progetto di riforma giudiziaria provocato dalla forte reazione della società civile. L’attacco del 7 ottobre ha segnato un colpo probabilmente irreversibile alla carriera politica del premier, in virtù di ciò, la continuazione del conflitto rappresenta attualmente il principale appiglio di Netanyahu per la continuazione della propria carriera politica. Dato tale stato di cose, una politica incentrata sulla mera continuazione del supporto militare allo Stato di Israele non risulta funzionale alla risoluzione del conflitto. Viceversa, l’assunzione di una postura che subordini la fornitura allo Stato ebraico di materiale bellico in funzione anti-iraniana pare decisamente più in linea con l’obbiettivo di conseguire una risoluzione del conflitto nel lungo termine.

L’attacco iraniano condotto a danno di Israele il 13 aprile 2024 ha visto l’abbattimento del 99% dei droni impiegati. Tale risultato non sarebbe stato conseguibile senza il supporto diretto e indiretto fornito dagli alleati occidentali, Stati Uniti, Francia e Regno Unito, nonché dei partner arabi, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. A tal proposito, gli Stati Uniti e le nazioni arabe dispongono di una rilevante leva negoziale per spingere lo stato di Israele ad una soluzione che garantisca la nascita di un effettivo Stato palestinese. In un’eventuale guerra aperta contro l’Iran lo stato ebraico si ritroverebbe infatti in una posizione estremamente complicata, a dispetto della sua chiara superiorità militare. Le immagini dei bombardamenti israeliani sulle città iraniane peggiorerebbero ulteriormente la reputazione di Israele nei paesi del Sud Globale. Allo stesso tempo, le possenti strutture sotterranee iraniane adibite alla produzione di missili e droni garantirebbero a Teheran la possibilità di continuare a colpire lo Stato ebraico anche in condizioni di estrema difficoltà.

Il conflitto arabo-israeliano ormai in corso dal 1948 ha inizialmente visto lo stato di Israele preservare la propria sicurezza attraverso una schiacciante superiorità militare nei confronti dei propri vicini, impiegata con enorme successo durate i conflitti del 1948, del 1956 e del 1967. La Guerra dello Yom Kippur segnò i limiti di tale approccio, spingendo gli israeliani a dubitare per la prima volta della propria capacità di sconfiggere l’Egitto in un nuovo eventuale conflitto. A tal proposito, dal 1973 lo Stato ebraico ha adottato una nuova postura, concretizzatasi mediante la cessione di territori occupati in cambio della pace con i propri ex nemici. Ciò ha notevolmente incrementato la sicurezza dello Stato ebraico, contribuendo in maniera decisiva a determinare il collasso della coalizione di nazioni ad esso ostile. Allo stato attuale, il passo decisivo per una vera pace tra Israele e le nazioni arabe risulta essere il via libera da parte dello Stato ebraico alla formazione di uno Stato palestinese, la miglior garanzia alla propria sicurezza nel lungo termine.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli

Foto: Palestinian News & Information Agency (Wafa) in contract with APAimages, CC BY-SA 3.0, 

giovanni chiacchio
Giovanni Chiacchio
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A political science undergraduate at the University of Naples Federico II, he completed the post-graduate course "Leadership for International Relations and Made in Italy" at the Fondazione Italia USA as a fellow and attended the Heritage Foundation's summer academy. He writes for various blogs. His fields are international relations, strategic studies and English-speaking conservatism.