di Vincenzo Pacifici

YAEL TAMIR, Le ragioni del nazionalismo, Bocconi Editore, Milano, 2020, 201 pp.

Dopo la lettura della IV pagina di copertina mi ero preparato ad un’analisi condivisibile e piena di buon senso: “Il male della nostra epoca nasce dallo svuotamento della comunità politica e dalla debolezza dello Stato. La preferenza liberale per i valori universali ha infatti portato a coltivare una concezione della persona come soggetto affrancato da qualsiasi specifica relazione, appartenenza o identità. Il nazionalismo ha invece sottolineato la natura particolaristica delle relazioni umane e ha raccontato una storia capace di dare significato all’esistenza collettiva, consentendo agli individui di espandere il proprio io in una dimensione comune, aiutandoli così a dare significato alla propria vita e a sentirsene artefici”.

L’autrice è Yael Tamir , presidente dello Shenkar College of Engineering and Design a Ramat Gan in Israele e professore aggiunto alla Blavatnik School of Governement di Oxford. Il volume risulta comunque interessante ma davvero non affascinante e tanto meno trascinante. Accademicamente meriterebbe un positivo ma grigio voto di 24/30mi. Sono diversi i passaggi accettabili mentre frequenti sono i passi tortuosi e assai poco chiari. Occorre riconoscere non facile e non semplice seguire la realtà da angoli visuali ben differenti e ben distanti tra loro. Ad esempio la tabella dell’indagine sulla cittadinanza globale è troppo parcellizzata e non tiene conto dell’Italia.

Appunto sul nostro Stato, in un volume destinato e venduto proprio sul mercato nazionale, desta stupore l’attenzione superficiale e contraddittoria a vicende specifiche come quelle della Lombardia e del Veneto. La signora Tamir, dopo aver rispolverato la massima di Massimo d’Azeglio, sorvola (o non conosce) le nostre pagine nazionali, in cui non mancano davvero indagini sul nazionalismo e sugli esponenti del pensiero, a cominciare da un certo Dante Alighieri. Scarna è poi la conoscenza della storia europea, anche se sono citati in maniera centrata autori dell’età moderna, a fronte però di dilaganti e condizionanti segnalazioni di studiosi americani o inglesi, stretti nella loro realtà di studio.

Meritano comunque siano raccolte citazioni da utilizzare anche nel dibattito nostrano. Secondo Milan Kundera “un uomo sa di essere mortale, ma dà per scontato che la sua nazione possieda una sorta di vita eterna”. Per l’autrice “il liberalismo ha fallito proprio sul terreno di maggior successo dei suoi principali antagonisti, il nazionalismo e la religione: anteponendo l’universale al particolare, non ha colto l’importanza di una identità specifica”. Secondo Jean-Jacques Rousseau “la scuola deve plasmare la mente dei piccoli e indirizzarne i gusti e le opinioni in modo da renderli patriottici per inclinazione, per istinto e per necessità”. La Tamir ricorda poi come “il nazionalismo abbia cancellato le differenze tra alta cultura e cultura di massa, creando un linguaggio unificante; come la cultura abbia cementato i legami sociali facendo sentire le persone più vicine tra loro; come le narrazioni nazionali abbiano suggellato quest’alleanza coltivando una serie di punti di vista sociali e politici fondati sul presupposto di una coscienza nazionale”. E ancora: “L’istruzione [il doppio discorso può ben essere valido per la nostra nazione] compì uno sforzo eroico al fine di cancellare (o attenuare) le differenze di classe, creando così le condizioni per la mobilità interna e aprendo ai membri delle classi inferiori un’ampia gamma di opportunità politiche ed economiche. La lingua comune [intenzione disgregante coltivata dalla sinistra è il rilancio del dialetto, uno per ogni singolo Comune!] ridusse i costi della formazione facilitando la circolazione delle persone all’interno del paese e creando possibilità di cambiamento sociale ed economico”.

La studiosa israeliana, con un pesante giudizio sul quale si dovrebbe riflettere e che andrebbe addirittura tesaurizzato, afferma che “Marx non riuscì a comprendere il punto di vista dei lavoratori: lo Stato-nazione offriva loro vantaggi decisamente maggiori di quelli che avrebbero mai potuto ricavare da una lotta di classe su scala internazionale. Perciò, con sua grande delusione, le classi subalterne sposarono il nazionalismo, che divenne così l’ideologia più popolare del Novecento”.

Le pagine conclusive , dal tono inutilmente tribunizio, sostengono – non può essere passata sotto silenzio la lettura storica innaturale – che “i liberaldemocratici e socialdemocratici di mente aperta, e ogni persona che abbia a cuore la giustizia, devono imparare a servirsi del nazionalismo per la propria causa, dando vita a un ordinamento sociale più giusto”. È facilmente confutabile la fertilità di una siffatta commistione tra una ideologia sobria quanto sfuggente e una ideologia decisa e forte.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.