La pubblicazione lo scorso giugno della Strategic Defence Review da parte del ministero della difesa britannico ha riacceso l’interesse mediatico intorno alle capacità di deterrenza nucleari del Regno Unito.

Il primo ministro britannico Keith Starmer nel presentare la Strategic Defence Review, roadmap decennale degli investimenti nella difesa, ha puntato fin da subito sul tema nucleare. E alle parole sono seguiti i fatti: dopo poche settimane la conferma che la Royal Air Force, l’aviazione britannica, sarà dotata nuovamente di una propria deterrenza nucleare, capacità di cui era priva dal 1998.

Rafforzamento delle capacità di deterrenza d’Albione intese a far tornare il Regno Unito battle-ready soprattutto in una prospettiva antirussa. Sebbene il Regno Unito non faccia più parte dell’Unione Europea, l’annuncio britannico incentrato sul proprio ruolo di potenza nucleare è stato subito rilanciato dai media europei nel solco della grande narrazione su riarmo e readiness della difesa europea, come nei casi del dibattito sull’ombrello nucleare francese e sul piano di riarmo tedesco.

Nei media italiani non sono mancati coloro che hanno letto il “riarmo” britannico anche in una possibile chiave anti-trumpiana, come ha fatto Simone Matteis su Linkiesta:

«pressione arrivata ai massimi storici anche in virtù dei rischi a cui è esposto il lato settentrionale europeo, teatro delle mire espansionistiche degli Stati Uniti a danno della Groenlandia e la presenza della Russia, sia in termini militari che commerciali attraverso la cosiddetta flotta fantasma di petroliere e navi cargo».

Ma il piano di “Riarmo” britannico è tale tra virgolette, perché se certamente la Strategic Defence Review si inserisce in maniera estremamente positiva nel quadro degli investimenti della difesa, in un contesto che giova anche agli interessi strategici e industriali italiani vista la collaborazione con Londra nel programma anglo-nippo-italiano GCAP (e la questione aperta del nuovo addestratore per la Royal Air Force), andando a leggere le 144 pagine del report e tenendo conto di quelli che dovrebbero essere programmi già avviati da parte britannica, siamo più vicini a una conferma e rassicurazione dei progetti già in essere, che a un vero ampliamento delle prospettive della difesa britannica al netto della rinnovata capacità nucleare della Royal Air Force ufficializzata nelle settimane successive.

Più conferme che novità

Lo sottolinea anche il Guardian riprendendo le dichiarazioni del Ministro della Difesa Pollard:

«Luke Pollard ha affermato che la revisione strategica è stata la prima dalla fine della guerra fredda che il governo ha rivisto l’esercito senza apportare tagli. Il numero di navi da guerra, jet e carri armati rimarrà invariato».

Insomma, si potrebbe azzardare un certo paragone con le spese per la Sanità italiane: per un governo non averle tagliate è già da considerare come un aumento degli investimenti nel settore. E obiettivamente sembra essere così, ricordando le vecchie indiscrezioni a mezzo stampa sui possibili tagli indiscriminati alla difesa che erano stati ipotizzati con l’arrivo del governo Starmer. Indiscrezioni incontrollate dove si vociferava persino che il Regno Unito dovesse scegliere tra il nuovo programma di sottomarini lanciamissili balistici o il caccia di sesta generazione GCAP non potendoli finanziare entrambi. O che si dovesse rinunciare a una delle due portaerei classe Queen Elizabeth.

Allo stesso tempo non si può far a meno di notare alcuni limiti di questo piano, il cui hype al netto delle rassicurazioni dei programmi in essere, non appare così convincente nel risolvere le criticità attuali.

La deterrenza nucleare

Al Capitolo 7.1 della Strategic Defence Review si parla della deterrenza nucleare, che nella visione britannica ha una duplice implicazione. Da un lato gli accordi con gli Stati Uniti, quello del 1958  Mutual Defence Agreement e il Polaris Sales Agreement del 1963 che portarono negli anni ’60 alla cessazione dello sviluppo di vettori missilistici britannici. Dall’altro il fatto che a differenza della deterrenza nucleare francese, che rimane fuori dal perimetro NATO, l’attuale arsenale atomico britannico rappresentato dai sottomarini lanciamissili balistici di classe Vanguard è invece assegnato alla deterrenza nucleare NATO.

La Strategic Defence Review di fatto si limita a confermare i programmi in essere: i quattro SSBN classe Dreadnought che dovranno rimpiazzare i Vanguard e il programma per la nuova testata ASTRAEA di produzione britannica da installare sui Trident II che saranno imbarcati sui Dreadnought.

Il Regno Unito e il possibile ritorno alla diade nucleare

In merito alla possibilità di far tornare le armi nucleari nell’arsenale della Royal Air Force, priva di deterrenza nucleare dal 1998 quando furono dismesse le bombe a caduta WE.177 (sempre negli anni ‘90 il Regno Unito rinunciò sia allo sviluppo di un proprio missile aria-superficie TASM, sia alla possibilità di dotarsi di armi analoghe statunitensi o francesi), il documento del Ministero della Difesa britannico si limitava a delle raccomandazioni piuttosto generiche sulla maggiore integrazione NATO.

I “bombardieri nucleari” con cui hanno titolato alcune testate italiane si riferiscono a una esclusiva del Times pubblicata il 31 maggio in merito alla possibilità che la Royal Air Force si doti anche di F-35A Lightning II dotati di bombe B61 Mod 12. Indiscrezione ufficializzata solo a fine giugno con l’ordine per 12, dodici, F-35A terrestri. Attualmente la Royal Air Force dispone infatti unicamente degli F-35B, la variante STOVL (decollo corto/atterraggio verticale) destinata alle portaerei classe Queen Elizabeth, e non della versione A per l’impiego terrestre (del Lightning II esiste anche la versione F-35C imbarcata destinata alle portaerei statunitensi con il decollo da catapulta).

Le bombe B61 Mod.12 e gli F-35A

L’F-35A è l’unica variante del Lightning II certificata per poter operare con le bombe nucleari a caduta libera B61 Mod 12 (per enfatizzare le capacità dell’arma sui media c’è chi ha parlato di bomba a “caduta gravitazionale”).

Il Regno Unito inizialmente prevedeva di acquisire unicamente gli F-35B e gli F-35A non erano stati presi in considerazione. Anche perché la Royal Air Force, che ha rinunciato alle proprie bombe nucleari nel 1998, non fa parte del programma di nuclear sharing NATO: la presenza di testate sotto controllo statunitense nelle basi Aviano, Ghedi, Büchel (Germania), Incirlik (Turchia), Kleine Brogel (Belgio) e Volkel (Paesi Bassi) e che in ipotetico caso di guerra potrebbero essere caricate sugli aeromobili dell’aeronautica del paese ospitante.

E per diciassette anni nemmeno la US Air Force aveva tenuto ordigni nucleari nei depositi delle proprie basi britanniche. Nel 2008 dalla base della US Air Force di Lakenheath nel Suffolk erano state rimosse le ultime bombe atomiche statunitensi presenti nelle isole britanniche. Ma dopo gli annunci in merito all’acquisizione di  F-35A e B-61 da parte britannica la US Air Force sembrerebbe aver trasferito nuovamente le B61 in Inghilterra a Lakenheath. Insomma a quanto pare la US Air Force non perde tempo, altro che “indipendenza strategica” dagli Stati Uniti.

Certo quando la combinazione F-35A e bombe B61 Mod 12 diventerà operativa per la RAF (l’ordine per gli F-35A sarà completato nel 2033), consentirà al Regno Unito di recuperare una specialità dismessa dal 1998. Ma sicuramente, in termini di numeri, non cambierebbe molto sul piano strategico e di deterrenza europea.

E se certamente la Royal Air Force avrebbe in quell’ottica un’autonomia diversa da quella del “nuclear sharing” di cui dispongono Italia, Germania, Turchia, Belgio e Paesi Bassi, sicuramente non ci si troverebbe in una condizione di reale indipendenza da parte degli Stati Uniti in merito al sistema d’arma nel suo insieme.

E ci sono altri due criticità da sottolineare.

Come detto attualmente il Regno Unito dispone unicamente degli F-35B STOVL, e di recente il National Audit Office ha evidenziato la scarsa disponibilità operativa degli apparecchi. Scarsa disponibilità legata «non a difetti del velivolo, ma piuttosto a una combinazione di fattori interni, che spaziano da carenze organizzative a ritardi infrastrutturali e lacune logistiche» come scrive Ares Difesa.

E l’ordine di 12 F-35A può essere letto oltre che nell’ottica del ripristino delle capacità di deterrenza nucleare, anche nelle più prosaiche questioni legate all’addestramento e ai costi. L’F-35A serve per l’addestramento dei piloti perché “costa meno” dell’F-35B. Lo nota la stessa Royal Air Force sul sito della Difesa britannico:

«Nel quotidiano gli F-35A saranno utilizzati per l’addestramento presso il 207° Squadrone, l’Unità di Conversione Operativa (OCU). Poiché l’F-35A trasporta più carburante rispetto alla variante F-35B, può rimanere in volo più a lungo, prolungando il tempo di addestramento disponibile in ogni sortita per i piloti in addestramento. Inoltre, poiché gli F-35A richiedono meno ore di manutenzione, la disponibilità dei velivoli nell’OCU sarà maggiore. Questi fattori combinati miglioreranno l’addestramento dei piloti e ridurranno il tempo necessario per raggiungere gli squadroni di prima linea».

Inoltre, come evidenzia The War Zone quello degli F-35A destinati all’addestramento e alla deterrenza nucleare non è un nuovo ordine, ma un aggiornamento dell’ultimo ordine di 27 F-35B trasformato in 12 F-35A e 15 F-35B, il che potrebbe portare ad ulteriori limiti operativi per la variante imbarcata STOVL.

Nota TWZ che con solo 37 F-35B attualmente in servizio attivo e 15 in ordine, ancorché alcuni compiti di addestramento verranno delegati agli F-35A è impossibile garantire con questi numeri il minimo di 24 velivoli operativi per entrambe le portaerei classe Queen Elizabeth in servizio (che prevederebbero imbarcati dai 24 ai 36 F-35B ciascuna).

Insomma la rinnovata capacità nucleare della Royal Air Force da questa prospettiva sembra più un modo per rendere più appariscente quella che è, ancora, una coperta troppo corta per la propria aviazione imbarcata.

Classe AUKUS e classe Dreadnought

A fare confusione sulla deterrenza nucleare britannica sui media generalisti anche la questione relativa ai sottomarini d’attacco classe AUKUS e ai sottomarini lanciamissili balistici classe Dreadnought.

Come detto il paper ha confermato le quattro unità classe Dreadnought, progetto avviato ormai più di un decennio fa: il taglio della prima lamiera risale all’ottobre del 2016 con il primo pezzo dello scafo consegnato nel 2021 e con la posa della chiglia alla presenza dello stesso Starmer nel marzo scorso.

I classe Dreadnought sono i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare, il cuore della deterrenza nucleare. E non vanno confusi con gli altri sottomarini a propulsione nucleare, quelli d’attacco. Unità il cui ruolo principale, semplificando, è la caccia ai sottomarini avversari. Sia in ottica di interdizione ai sottomarini di lanciamissili balistici avversari, sia nella difesa della propria flotta, in particolare delle portaerei.

La Strategic Defense Review conferma le dodici unità del nuovo sottomarino d’attacco a propulsione nucleare denominato classe AUKUS visto che è stato inquadrato nella trilaterale anglo-australiano-statunitense per la difesa nell’Indo-pacifico. Altro programma che era stato nel mirino di tagli, dazi e tariffe negli ultimi anni, diventando in campo australiano quasi una sorta di barzelletta.

La situazione dei sottomarini australiani

L’Australia, per rimpiazzare i suoi sommergibili classe Collins, nel 2016 aveva raggiunto un accordo con i francesi di Naval Group per dei battelli basati sulla classe Suffren. Accordo stracciato nel 2021 per fare posto al programma congiunto con Regno Unito e piazzare i classe AUKUS. In un’intesa congiunta anche con gli Stati Uniti, relativamente ai battelli classe Virginia, che sarebbero stati forniti come interim prima dell’arrivo in linea dei battelli di derivazione britannica.

Il tema tariffario e l’isolazionismo trumpiano (nonché i ritardi sulle consegne dei classe Virginia alla stessa US Navy) nei mesi passati hanno fatto ipotizzare che l’accordo per il rimpiazzo dei Collins saltasse completamente. A marzo il Guardian titolava Surface tension: could the promised Aukus nuclear submarines simply never be handed over to Australia? e non mancava chi ipotizzava (o facesse il tifo) per una Marina australiana che tornasse con il cappello in mano dai francesi di Naval Group.

A fine luglio le nubi sul fronte britannico-australiano si sono finalmente schiarite ed è stato firmato un trattato sulla propulsione nucleare per le nuove unità di derivazione britannica. L’incognita restano i classe Virginia, che dovrebbero rimpiazzare i Collins prima dell’entrata in servizio degli AUKUS (prevista a fine anni ’30 per la Royal Navy britannica, e nei primi anni ’40 per gli australiani), in quanto fintanto che gli Stati Uniti non riusciranno a raddoppiare le capacità dei loro cantieri difficilmente l’Australia vedrà i suoi Virginia.

Se Canberra piange Londra non ride

Ma se l’Australia rischia di dover spendere milioni per tenere in servizio i suoi Collins in attesa degli AUKUS anche la situazione della Royal Navy nel campo dei sottomarini d’attacco è lungi dall’essere ottimale. Gli AUKUS sono destinati a rimpiazzare i battelli classe Astute britannici, che a differenza dei Collins sono a propulsione nucleare e sono parecchio più recenti di quelli australiani: il capoclasse Astute è stato commissionato nel 2010, il capoclasse Collins nel 1996.

Quindi Londra avrebbe meno “fretta” per rimpiazzare le unità in servizio. Eppure ha destato scalpore la notizia che la portaerei HMS Prince of Wales (R09) nel suo dispiegamento nel Pacifico non è stata scortata da sottomarini. Per l’Operation Highmast, il Carrier Strike Group 25 è stato composto in maniera fissa solo dal cacciatorpediniere HMS Dauntless e dalla fregata antiaerea HMS Richmond, a cui si sono aggiunte a rotazione unità di altre marine per esercitazioni.

Il battello classe Astute originariamente previsto nei fatti non era disponibile. Il capoclasse, come preventivato, a giugno ha iniziato i lavori di ammodernamento di mezza vita. La quarta unità HMS Audacious, commissionata nel 2020, dopo quasi due anni di attesa ancorata a un molo è stata finalmente messa in bacino di carenaggio. Un ritardo dovuto ai lavori di ammodernamento del bacino di carenaggio stesso.

E la seconda e terza unità – HMS Ambush e HMS Artful – commissionate rispettivamente nel 2013 e nel 2016? Entrambe sono ferme in porto da tre e da due anni rispettivamente, anche se una delle due unità dovrebbe tornare presto in servizio.

La quinta unità, HMS Anson, commissionata nel 2022, dopo una crociera nel Mediterraneo è rientrata in porto lo scorso luglio. Non ci sono dunque sottomarini d’attacco in mare al momento. Come conclude amaramente il sito britannico Navy Lookout:

 «Sebbene la Royal Navy abbia ora dichiarato l’intenzione di sostituire alla fine la classe Astute con 12 imbarcazioni SSN-AUKUS, si tratta di un obiettivo ambizioso e lontano dalla realtà attuale».

Mancano bacini e marinai

I ritardi sulla flotta di sottomarini d’attacco sono imputabili ai colli di bottiglia dell’infrastruttura cantieristica britannica e alla necessità di dare priorità alla manutenzione dei Vanguard, i lanciamissili balistici. Ares Difesa nota anche che gli Astute siano un progetto non ottimizzato dal punto di vista della facilità di manutenzione.

In questo caso non si tratterebbe di mancanza di personale, anche se il tema del reclutamento e del mantenimento degli organici resta critico. L’Esercito britannico è sceso, in termine di numeri, ai livelli del 1793. Mentre a giugno il Telegraph titolava La Royal Navy sta finendo i marinai, avverte un ufficiale della flotta.

Ad aprile si parlava di una perdita di 200/300 militari al mese: per ogni 100 reclutati, 130 congedati. La situazione più critica quella dell’Esercito, con l’Aeronautica stabile e la Marina in leggera ripresa dopo che nel 2024 gli obiettivi di reclutamento erano stati inferiori all’obbiettivo del 22%.

Lo Strategic Defense Review non si nasconde ammettendo la crisi di soldati e marinai: «Il reclutamento e il mantenimento del personale inadeguato, le condizioni di alloggio scadenti, il calo del morale e le “sfide culturali” hanno creato una crisi della forza lavoro».

Per adesso le soluzioni sono principalmente lo studio di nuove linee guida per rendere più appetibile la ferma di lungo periodo. Ma a pagina 66 della Review si parla anche di more flexible medical and fitness standards, ovvero rendere più flessibili gli standard medici e di forma fisica.

Evidente che sebbene lo Stretegic Defense Review rappresenti una boccata d’ossigeno nell’ottica della difesa britannica ed europea, anche dal punto di vista industriale, tra gli annunci e il desiderio della readiness c’è ancora molto da lavorare.

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

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Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano(Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia(Eclettica, 2020).