L’8 e il 9 giugno si è tenuta la tornata referendaria con i quattro quesiti in merito alla riforma renziana del Job’s Act e il quesito sul dimezzamento del tempo per il riconoscimento della cittadinanza italiana promosso da +Europa.

Che il referendum non raggiungesse il quorum era cosa attesa, visti anche gli inviti all’astensione di esponenti della coalizione di centro destra al governo.

Pure se c’era una cosa che i promotori del “Sì” e media davano per scontata è che i cinque quesiti che mettevano insieme il tema del lavoro e dell’immigrazione viaggiassero su percentuali simili per il “Sì” e il “No”. A leggere il dibattito antecedente al voto l’unica incognita era rappresentata dalla possibilità di diversi quorum dovuti alla possibilità di rifiutare le schede per uno o più quesiti.

E invece la sorpresa c’è stata ed è stata netta. Se i quattro quesiti “anti job’s act renziano” hanno avuto percentuali nette e similari per il “Sì” con una forbice minima (tra l’85,78% e l’87,57%), il quesito sulla cittadinanza è terminato con un “No” al 34,66%. Peggio del previsto, come hanno similmente titolato Il Post e Linkiesta.

Insomma un terzo degli elettori che sono andati a votare ha votato convintamente “No” su quello che era, soprattutto per la sinistra e per i liberal il vero tema caldo. Anzi l’unico tema di stretta attualità secondo molti, visto che la percentuale di occupati più alta di sempre raggiunta a gennaio 2025 che avrebbe reso obsoleto il tema del Job’s Act renziano.

La destra sociale c’è (e qualche socialista è sopravvissuto al 1989)

Il fatto che il referendum sulla cittadinanza sia andato “peggio del previsto” ha dato vita a molte interpretazioni per questo 35% contrario a velocizzare le procedure di cittadinanza. Dalla libertà di voto dei cinque-stelle, la presenza di una destra sociale ben radicata che non se l’è sentita di rinunciare all’opportunità di dire la propria anche sul tema del Job’s Act prima rivendicato e poi abbandonato dal PD. O le “narrazioni populiste” sull’immigrazione che serpeggerebbero nel sindacato di sinistra, come sottotitola Linkiesta. O la valutazione dell’Istituto Cattaneo dove si stima che un 15%-20% degli elettori del PD avrebbero votato “No” all’allargamento della cittadinanza, segno che il partito non è stato del tutto traghettato dai lidi marxiani a quelli della Scuola di Chicago dopo la Caduta del Muro.

Le ipotesi sono molteplici, e senza giocare con i numeri (come stanno cercando di fare alcuni esponenti del centro-sinistra per trovare una lettura “positiva” dei dati referendari compreso un blog de Il Fatto quotidiano che titola “Calma! Al referendum Cittadinanza non ha vinto il No”), il 35% di “No” espliciti e il 70% di astensione rendono evidente come sussista una “maggioranza silenziosa” (o forse più silenziata che silenziosa) che si interroga in maniera molto critica sul fenomeno migratorio.

E questo senza scomodare le “narrazioni populiste” o rossobrune che si tirano in ballo. D’altronde il primo populista rossobruno è proprio Marx che coniò il concetto di “esercito industriale di riserva” e in una tornata referendaria dove lavoro, accoglienza e immigrazione finivano nello stesso calderone era inevitabile che proprio l’esercito industriale di riserva finisse per diventare il “convitato di pietra”.

“Accoglienza”? No, gli immigrati sono i nuovi coolies

Anche perché negli ultimi mesi i media hanno dato largo spazio a diverse vicende che, hanno contribuito a dimostrare che la questione dei “lavori che gli italiani non vogliono più fare” e “i migranti che pagheranno le pensioni” siano stati solo due vuoti slogan.

Notizie e vicende isolate ma che nel loro insieme hanno finalmente portato alla luce, anche in prima serata, che i benefici di un’immigrazione incontrollata all’economia raccontata dal centro-sinistra e da certi giornali siano solo una narrazione ben lontana dalla realtà.

Finalmente si parla dei lunghi anni della stagnazione salariale in Italia e del potere d’acquisto sempre più basso, tema per anni evitato dalle pagine dei giornali intenzionati a tutelare i manovratori del refrain del “ce lo chiede Bruxelles”. A pagare le future pensioni non servono “risorse” ma contratti e salari adeguati.

Contratti e salari adeguati che latitano anche in quelli che un tempo erano i comparti dell’eccellenza artigianale italiana. Comparti che per quanto a basso valore aggiunto tecnologico, hanno, o dovrebbero avere un valore aggiunto rappresentato da quell’ideale rappresentato dal “made in Italy”. E che invece stanno diventando da comparti dell’eccellenza artigianale-industriale a zone di applicazione per nuove forme di caporalato, forma di sfruttamento un tempo limitata a un mondo agricolo erede del peggior latifondismo meridionale.

Caso rilevante di distretto artigianale-industriale che è diventato esempio di una nuova forma di caporalato è quello del distretto dell’oreficeria di Arezzo di cui si sono occupati tra gli altri Il Post e il programma Rai Far West. Scrive Il Post:

«Alcuni arrivano in Italia tramite persone che li contattano direttamente nei paesi d’origine, con la promessa di un lavoro e del permesso di soggiorno. Spesso non vengono regolarizzati, e lavorano in condizioni di sfruttamento per ripagare il debito del viaggio».

Un neo-schiavismo in stile coolies per la manodopera immigrata e non di rado è lo sfruttamento è operato dagli stessi connazionali: un plastico esempio di cosa succede ad assecondare la narrazione immigrazionista. Si realizza quindi una filiera ben organizzata che realizza un sistema chiuso dove sfruttatori e sfruttati sono tutti stranieri, che fanno reclutamento all’estero e poi tengono in “ostaggio” i lavoratori da sfruttare, creando una sorta di continuo “esercito industriale di riserva” dove il lavoratore straniero integrato e magari sindacalizzato può essere facilmente rimpiazzato dal suo connazionale appena arrivato e ricattato una volta privato del passaporto. Simile alla vicenda del distretto orafo di Arezzo il recente caso delle borse di uno dei grandi marchi della moda italiana con una rete di sfruttamento e caporalato in Brianza. L’Italia ridotta come i Caraibi o il Natal inglese a fine Ottocento, insomma.

Dovremmo aver a che fare con aziende terzisti alfieri dell’artigianato italiano, che non gareggiando nel comparto del fast fashion a prezzi ridicoli, dovrebbe consentire visto il margine sul singolo accessorio o pezzo d’abbigliamento.

E invece sfruttamento, caporalato e lavoro nero. Ma queste forme di caporalato riescono a sfruttare anche il meccanismo della immigrazione regolare, ovvero il principio (anche corretto sulla carta) dei “decreti flussi” dove per l’importatore di manodopera di fatto ogni anno si cercano nuove persone da regolarizzare, perché gli si possono offrire contratti inferiori a quello del “nuovo italiano” già integrato e regolarizzato da anni, che, “giustamente”, pretende di più.

Il ritorno della servitù della gleba (di Stato)

A spiegare come anche il “decreto flusso” possa diventare causa di sfruttamento e lavoro povero è il già citato articolo de Il Post:

«anche sfruttando la procedura permessa dal cosiddetto “decreto flussi”, la legge annuale che permette l’ingresso in Italia ad alcune categorie di lavoratori stranieri. La norma prevede che chi abbia individuato lavoratori stranieri da assumere in Italia chieda un nulla osta alla prefettura. A quel punto la persona a cui è stato offerto il lavoro va nella sede diplomatica italiana del proprio paese per ottenere un visto e partire. Arrivata in Italia deve presentarsi col datore di lavoro in prefettura per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro».

I casi dell’oreficeria aretina e delle borse brianzole dimostrano una situazione ben diversa dalla bassa retorica del bracciante che raccoglie pomodori: “il lavoro che gli italiani non vogliono più fare”. Retorica pelosa per diversi motivi, sia perché considera come il “lavoratore migrante” alla stregua di un servo della gleba nella Russia zarista (ricordate la famosa caricatura di Gustave Dorè dei boiardi che si giocavano a carte i mugiki legati a mazzetti come gli asparagi?), sia perché approssimando l’agricoltura a una pura dimensione bracciantile si tralascia anche il tema dell’agricoltura meccanizzata su cui l’Italia è un’eccellenza industriale.

Se media e centro-sinistra non riescono a mettere in fila queste notizie, il lavoratore che vive sulla sua pelle la trasformazione di intere filiere dell’economia italiana ha ovviamente diversa percezione, in cui il rischio di una competizione al ribasso dei salari porta inevitabilmente a queste nuove forme di caporalato o di degrado. E inizia a diffidare di qualunque politica in cui il tema migratorio è interpretato unicamente come un fenomeno positivo. Tanto che perfino il santino dei liberal americani, Bernie Sanders ricomincia a ragionare come un qualunque comunista di 50 anni fa: gli immigrati servono solo al capitale per abbattere i diritti sindacali degli autoctoni e fare i big money.

E questo limitandoci all’aspetto economico, che ormai è apertamente ammesso da qualunque media. Anche nel racconto delle vicende di Ballymena nei pressi di Belfast, con il tentato stupro che ha dato vita a una vera caccia all’immigrato, il Corriere della Sera non può non ammettere:

«L’area ha subito negli ultimi anni una rapida deindustrializzazione, che ha visto la chiusura di molte fabbriche che davano lavoro alla gente del posto e quelle rimaste ricorrere a manodopera straniera a basso costo».

Il combinato disposto di immigrazionismo e regressione dei diritti sindacali sta allagando di benzina il pavimento dell’Europa: per evitare l’incendio sarà totalmente inutile mettere i cartelli “vietato fumare”. Il voto referendario dovrebbe essere un segnale d’allarme: gli italiani non sono stati conquistati dalle narrazioni liberal. Qualcuno è in grado di intercettare la volontà generale e farla valere nei palazzi del potere?

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

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Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano(Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia(Eclettica, 2020).

Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" e di "Storia in Rete". Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).