Le sanzioni contro la Russia (e non solo) in breve
In risposta alla guerra in Ucraina, la Russia è stata colpita da pesanti sanzioni, le quali hanno l’obiettivo di esercitare una pressione economica e politica. Prendiamo come esempio quelle imposte dall’Unione Europea, le quali sono state applicate sotto forma di pacchetti (16 in totale, dal 22 febbraio 2022 al 24 febbraio 2025).
Vladimir Putin, Sergey Lavrov, Viktor Yanukovych, membri della Duma e del Consiglio di Sicurezza nazionale, partiti politici, imprenditori, oligarchi, militari, alti funzionari, media responsabili di propaganda e disinformazione, banche: sono solo “alcuni” tra le circa 2.400 persone fisiche e giuridiche colpite dalle sanzioni. Esse prevedono:
- divieti di viaggio per le persone sanzionate verso l’Unione Europea;
- interruzione degli spostamenti aerei, col divieto per i velivoli russi di sorvolare lo spazio aereo dell’UE e di accedere ai suoi aeroporti;
- chiusura dei porti alle navi mercantili russe;
- congelamento dei beni privati (e non solo) nell’UE, nei paesi del G7 e in Australia, per un totale di circa 300 miliardi di euro. Di questi, 210 miliardi di euro è il valore delle attività della Banca centrale russa bloccate nei paesi dell’UE,
- blocco delle transazioni monetarie tra la Russia e l’UE (e paesi del G7),
- restrizione all’importazione ed esportazione per la Russia. Per quanto riguarda l’embargo verso la Russia, tra le altre, figurano prodotti tecnologici, beni di lusso, attrezzature energetiche, armi. Per quanto riguarda l’embargo verso l’UE ci sono petrolio, gpl, carbone, cemento, legno, carta, diamanti, oro, acciaio;
- Divieto, per i paesi dell’UE, di fornire servizi (siano essi informatici, ingegneristici o legali) che possono essere fondamentali per le imprese russe.
Secondo la Commissione europea, dal febbraio 2022 l’UE ha vietato esportazioni di beni in Russia per un valore di oltre 48 miliardi di euro e importazioni di beni dalla Russia per un valore di 91,2 miliardi di euro. Preme evidenziare come alcune delle medesime misure interessino anche la Bielorussia, in quanto sostenitrice dell’invasione dell’Ucraina. L’obiettivo, come affermato, è esercitare una pressione economica e politica. Economicamente, le sanzioni vanno ad arrecare danni alla produzione industriale e militare (indebolendo, così, anche la capacità bellica), ridurre le entrate statali (rappresentante soprattutto da petrolio e gas naturale), provocare la fuga di imprese occidentali e bloccare gli scambi commerciali. Politicamente, lo scopo è erodere il consenso delle élite (come anche il sostegno popolare e imprenditoriale) e creare una situazione di isolamento geopolitico (con l’immagine della Russia e dei suoi sostenitori fortemente danneggiata). Le misure restrittive, occorre evidenziare, non sono rivolte alla società russa, ma ai governanti. Per questo motivo, i settori come i prodotti alimentari, l’agricoltura, la sanità e i prodotti farmaceutici sono esclusi dalle misure restrittive imposte.
Quindi lo scenario immaginato (e auspicato) dall’UE è quello di una Russia logorata economicamente, indebolita militarmente e con una crescente pressione interna.
Ma come sta andando veramente?
Gli effetti delle sanzioni: alcuni dati
Le sanzioni europee e internazionali imposte alla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina, hanno certamente avuto un impatto significativo sull’economia russa nel breve periodo, con effetti evidenti sul commercio, inflazione, produzione industriale e finanze pubbliche. Infatti, secondo le stime dell’FMI, nel 2022 le importazioni russe sono diminuite del 15,01% rispetto al 2021, mentre le esportazioni sono calate dell’8,7%. Secondo invece la stima della Banca mondiale, nel 2022 le importazioni russe sono diminuite del 9,7% (rispetto al 2021), mentre le esportazioni sono calate del 9,6%. Un’analisi della Banca d’Italia ha evidenziato che, tra marzo e ottobre 2022, le sanzioni hanno contribuito a un aumento dell’inflazione media di circa 12 punti percentuali. Questo incremento è stato principalmente causato dalla svalutazione del rublo e dall’aumento dei costi di importazione, che hanno inciso sul potere d’acquisto dei consumatori russi.
Alcuni settori hanno risentito della mancanza di marchi occidentali (e orientali, come quelli giapponesi, che però supportano il “blocco” occidentale e l’Ucraina). ll settore automobilistico russo, in particolare, ha subìto un crollo della produzione di quasi il 90% rispetto ai livelli pre-bellici nella primavera del 2022. Prendiamo ad esempio Kaluga e Kaliningrad, due importanti città per il settore automobilistico. La prima è un centro produttivo che ospitava stabilimenti di grandi marchi come Volkswagen e Stellantis. L’exclave russa, invece, che aveva come punto di forza l’impianto di produzione della BMW (così come della Kia e Hyundai), deteneva anche una posizione strategica per il trasporto, le importazioni e le esportazioni di automobili. Queste due regioni hanno subìto un’importante recessione.
Nel corso del 2023, le esportazioni russe verso l’UE hanno registrato una contrazione significativa, scendendo attorno al 68%. Addirittura, nel secondo trimestre del 2024, le importazioni dell’UE dalla Russia sono scese a 2,47 miliardi di euro, il valore mensile più basso registrato da Eurostat dal 2002.
Gli introiti russi da petrolio sono diminuiti del 26,9% a gennaio 2023 e del 41,7% a febbraio 2023 rispetto agli stessi mesi del 2022, a seguito delle sanzioni sull’importazione di petrolio. Nel 2023, le entrate di bilancio derivanti dalle vendite di petrolio e gas sono diminuite del 40%.
Per quanto attiene il rublo, esso ha subìto un notevole deprezzamento dall’inizio della guerra a oggi. Si stima, infatti, che dai 75-80 rubli per dollaro (nel periodo antecedente l’invasione), la moneta abbia toccato il proprio minimo storico, attorno ai 120 rubli per dollaro nel marzo 2022. Sebbene ci siano stati momenti di ripresa (accompagnati, nuovamente, da ricadute) la moneta russa non è mai andata al di sotto dei 90 (anche se, grazie alle misure di emergenza della Banca Centrale Russa, c’è stato un rafforzamento temporaneo nel giugno 2022, raggiungendo circa 54 rubli per dollaro.) A contribuire al deprezzamento del rublo e alla recessione economica, oltre alle sanzioni, ci sono:
- l’aumento della spesa pubblica, poiché le spese militari e sociali elevate hanno aumentato la pressione sull’economia e sulla valuta;
- la fuga di capitali, con molti investitori e aziende hanno trasferito fondi all’estero, riducendo la domanda interna di rubli;
- La difficoltà nel commercio estero, dato che sanzioni hanno complicato le transazioni internazionali, influenzando negativamente il bilancio dei pagamenti.
Smettere di fare affari con la Russia?
Dal punto di vista delle imprese estere presenti sul suolo russo, la situazione è più complessa. Secondo il sito “Leave Russia”, che monitora le attività straniere in Russia, su un totale di più di 4.157 imprese, ad oggi
- più di 787 hanno sospeso le proprie operazioni;
- più di 557 hanno attuato il ritiro (una rottura netta, con l’azienda che interrompe completamente gli impegni con la Russia o esce dalla Russia);
- più di 494 hanno completato l’uscita (cioè, la società ha venduto la sua attività/attività o parte di essa a un partner locale e ha abbandonato il mercato o liquidato le entità locali).
I motivi sostanziali, per i quali alcune multinazionali se ne sono andate, sono sostanzialmente di tre tipi: economico (in quanto le sanzioni possono rendere difficili gli affari), umanitario (per supportare un paese colpito dalla guerra) e reputazionale (in quanto a molte attività non piace essere additate di operare ancora in uno stato aggressore, dopo le crescenti attività di boicottaggio). Dal punto di vista macro-geografico, gli Stati Uniti si posizionano primi per il numero di uscite dalla Russia, seguiti dall’UE e timidamente dal Giappone e Corea del Sud.
Russia goodbye, quindi? Non esattamente. Ritornando, infatti, ai numeri già menzionati e facendo un breve calcolo, risulta che più di 2319 imprese straniere, moltissimi dei veri e propri colossi, operano ancora indisturbate in Russia. Pertanto, per una combinazione di interessi economici, ostacoli pratici e calcoli strategici, c’è più di un motivo per rimanere.
Qui di seguito, in breve, le motivazioni principali:
- continuità del business: chiudere implicherebbe la perdita di una fetta di mercato, accompagnata da ingenti spese di gestione (come quelle del personale, ma anche dei locali e macchinari);
- attendere e vedere: poiché le sanzioni colpiscono selettivamente in termini di attività commerciali, tipologie di aziende, beni, servizi e tecnologie, quelle non interessate possono tranquillamente attendere e vedere gli sviluppi geopolitici;
- garanzie governative contro determinati rischi politici, tra cui la guerra;
- possibilità di investire, ma non di disinvestire: la Russia ha risposto alle sanzioni con delle controsanzioni, a causa delle quali le imprese straniere sono fortemente colpite. In particolare, un decreto russo dell’ottobre 2022, vieta di cedere tali asset (con svariati miliardi di dollari, anche di profitti, bloccati); oppure, quando c’è un’effettiva possibilità di vendere (sempre soggetta alla preventiva approvazione di Mosca), questa avviene con il bene che viene notevolmente deprezzato;
- nazionalizzazioni (più o meno temporanee) da parte del governo russo;
- condotta aziendale responsabile: nelle aree colpite da conflitti, alcune organizzazioni internazionali (tra cui l’OSCE) sconsigliano il disinvestimento, se questo va a causare danni significativi alle popolazioni non combattenti.
Vediamo da vicino le strategie adottate da alcune delle multinazionali che hanno deciso di rimanere in Russia. Partendo da Mc Donald’s, che ha aperto il suo primo ristorante addirittura ai tempi dell’Unione Sovietica proprio a Mosca, gli ex ristoranti sono stati acquisiti dalla società Sistema Pbo, e il marchio è stato ribattezzato Vkusno i tochka (che significa “Buono e basta”). Il nuovo proprietario ha assicurato che gli oltre 50 mila dipendenti in tutto il Paese non perderanno il loro posto di lavoro (in quanto è stato previsto un accordo, per il quale a questi sarebbero stati garantiti almeno due anni di lavoro alle stesse condizioni economiche). Inoltre, McDonald’s ha mantenuto un’opzione per riacquistare le sue ex attività in Russia entro 15 anni. Non è, quindi, una vera e propria uscita di scena del colosso del fast food, dato che McDonald’s mantiene contatti regolari con il brand russo per garantire il rispetto degli accordi, come l’obbligo di seguire le linee guida dettate dalla società statunitense. Astrazeneca, la casa farmaceutica anglo-svedese, ritiene fondamentale rimanere per garantire la distribuzione dei medicinali. Pepsi, dal canto suo, ha continuato a operare in Russia ma ha adottato una strategia di basso profilo per ridurre la visibilità del proprio marchio nel paese. Questa scelta è motivata dalla necessità di bilanciare le pressioni internazionali con la volontà di mantenere una presenza nel mercato russo. A partire da marzo 2023, PepsiCo ha iniziato a commercializzare la Evervess-Cola in Russia. Secondo diverse fonti, questa bevanda è prodotta secondo la ricetta originale della Pepsi, ma viene venduta con un nome diverso. Insieme a Evervess, PepsiCo ha lanciato anche Frustyle, una linea di bevande che sostituisce altri marchi precedenti come Mirinda e 7UP. Il marchio di cioccolata tedesco Ritter, ad esempio, continua ad operare in quanto la Russia rappresenta il secondo mercato più grande per l’azienda dopo la Germania e per garantire i posti di lavoro (affermando, allo stesso tempo, che avrebbe devoluto tutti i profitti ottenuti dal mercato russo in aiuti umanitari). Altri hanno semplicemente sostituito il marchio originale con delle versioni cirilliche, ma in sostanza non è cambiato molto.
Quindi, come visto, le grandi società (o brand, che dir si voglia) si dividono in tre: quelle che se ne sono andate; quelle che sono rimaste; quelle che sono intrappolate, a causa delle contromosse del Cremlino (come la Carlsberg e la Danone, che hanno visto delle persone vicine a Putin essere nominate a capo delle filiali russe).
Alcune contromosse della Russia
Sebbene la situazione descritta rispecchi la realtà, essa è più complessa di così. La Russia cerca di aggirare le sanzioni sostanzialmente in vari modi. Il primo sistema è quello che prevede le cosiddette importazioni parallele (conosciute anche come “mercato grigio”), ovvero l’importazione e la vendita di beni originali, ma senza il consenso e la licenza ufficiale del produttore o del titolare del marchio. Sono prodotti autentici, ma introdotti in un mercato tramite canali diversi da quelli autorizzati. Grazie a questo sistema, autorizzato e incentivato dal Cremlino con una legge del 6 maggio 2022, 55 gruppi di beni (praticamente, moltissimi dei quali di lusso e quindi ai quali non si potrebbe accedere a causa delle sanzioni) possono entrare in Russia. Lo schema è semplice e tendente ad aggirare il sistema sanzionatorio: le imprese occidentali continuano a operare nel mondo, anche nei paesi che hanno buoni rapporti con Mosca e che non hanno applicato le sanzioni contro essa (tra questi, gli Stati asiatici confinanti e non solo). A quel punto, Mosca compra direttamente da quei paesi, pagando una commissione, e quindi importa i beni di lusso (ovviamente con un sovrapprezzo). Ecco che l’importazione parallela è avvenuta. Ovviamente, questo è solo uno dei modi con cui la Russia ha instaurato rapporti con Stati terzi. Infatti, essendo impossibilitata a fare affari con gli Stati europei e del G7 (e, in generale, con chiunque abbia adottato le sanzioni), essa ha trovato in altri paesi i partner più o meno ideali per sopperire alle mancanze e soddisfare i propri interessi.
Un altro modo è tentare di ridurre la dipendenza da fornitori esteri, soprattutto in settori strategici come l’automotive, l’elettronica e l’agroalimentare. Tuttavia, molte aziende russe continuano a dipendere da componenti cinesi, evidenziando le difficoltà nel raggiungere una piena autosufficienza industriale.
Una terza modalità è quella della già menzionata nazionalizzazione degli asset appartenenti ai paesi ritenuti ostili da Mosca.
Inoltre, si è assistito a un’ovvia de-dollarizzazione. La Russia ha, infatti, intensificato gli sforzi per ridurre l’uso del dollaro nelle transazioni internazionali, promuovendo l’uso del rublo e di altre valute nazionali. Ad esempio, con la Cina nel 2023, oltre il 90% del commercio bilaterale tra è avvenuto in rubli o yuan. A questo fenomeno si accompagna l’introduzione del rublo digitale, una valuta digitale emessa dalla Banca Centrale.
Ultimo, ma non per importanza: un’abile narrativa interna, utilizzata come propaganda per rafforzare il consenso interno anti-occidentale. In sintesi, la propaganda interna russa cerca di minimizzare l’impatto delle sanzioni (rappresentate come un attacco all’identità nazionale) e di consolidare il sostegno interno al governo, presentando la Russia come una nazione resiliente di fronte all’aggressione occidentale.
Conclusioni
Ma allora, le sanzioni hanno funzionato? Parzialmente. Infatti, a fronte di chi credeva che l’economia russa sarebbe crollata in poco tempo, essa ha mostrato di sapersi adattare al nuovo scenario internazionale, geopolitico ed economico. Come visto, le sanzioni hanno portato ad una recessione economica nel breve-medio periodo, complice l’isolamento finanziario e la fuga di migliaia di aziende occidentali. Il congelamento degli asset è un’ulteriore prova di forza contro il Cremlino. Quindi, in parte l’economia russa è stata indebolita e certamente è stato un sostegno nei confronti dell’Ucraina.
D’altra parte, le sanzioni non hanno avuto l’effetto sperato in quanto Mosca, come visto, è riuscita ad evitare l’isolamento commerciale e diplomatico con la sostituzione dell’importazione con la creazione, laddove possibile, di industrie locali e con la diversificazione dei partner (andando a preferire i paesi asiatici, quelli del BRICS e del Medio Oriente).
Infine, la crescita reale del PIL russo si è attestato attorno al 3,6% nel 2023 e tra il 3,2% (secondo la Banca Mondiale) e il 3,9% (secondo l’OSCE) nel 2024. Per il 2025, le stime oscillano tra l’1,1% (secondo l’OSCE) e l’1,6% (secondo la Banca Mondiale). In ogni caso, a prescindere da chi redige le stime, tale crescita è fortemente dovuta all’incremento delle spese militari.
Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.
Laureato in Scienze politiche all'Università di Pisa, con una forte passione per la storia, la geopolitica e le relazioni internazionali. Ha frequentato vari corsi di approfondimento legate a queste tematiche, come il Diploma in sicurezza globale (rilasciato dall'ISPI).
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