L’articolo seguente è tratto dall’intervento effettuato al Central European Summit, svoltosi a Budapest il 15 aprile 2025.

Da Biden a Trump: elementi di continuità verso l’Europa

A dispetto delle apparenze, vi sono numerose linee di continuità tra l’Amministrazione Biden e quelle di Trump, in particolare la prima. Un chiaro esempio è relativo al decoupling energetico Russia-Europa: Biden ha capitalizzato sulla guerra ucraina per conseguirlo quasi totalmente, ma Trump lo aveva cercato già in precedenza. Durante il suo primo mandato, criticò la Germania per la dipendenza dal gas russo e si spinse fino a imporre sanzioni ad aziende coinvolte nella costruzione del gasdotto Nord Stream 2.

Persino sui dazi vi sono sorprendenti punti di contatto tra Biden e Trump. Se è vero che Biden cancellò i dazi imposti dal predecessore su acciaio e alluminio europei, li sostituì però con un contingente tariffario, per cui la quota di importazioni esente dai dazi era fissata ben al di sotto dei precedenti livelli di acciaio e alluminio europei acquistati dagli USA.

Successivamente, l’Amministrazione Biden fu criticata dall’UE per l’Inflation Reduction Act che, tra le altre cose, garantiva generose sovvenzioni condizionate alla realizzazione in Nordamerica delle produzioni coinvolte, misura percepita dagli europei come protezionistica, pur distinta dai dazi.

La discontinuità del secondo Trump

Laddove invece osserviamo una discontinuità più marcata, soprattutto tra Biden e il secondo Trump, è verso la politica (strettamente intesa) UE. Biden si trovò a pieno agio con l’establishment liberal e globalista europeo. L’Amministrazione Biden lanciò pure campagne globali contro la cosiddetta “disinformazione”, in realtà iniziative per censurare le voci di destra sulle due sponde dell’Atlantico. E recentemente abbiamo scoperto che l’USAID spese milioni per minare il governo del PiS in Polonia.

Chiaramente Trump ha rotto con quest’approccio, e sembra destinato a farlo in questa seconda amministrazione con molta più convinzione che nella prima. Il discorso del vice-presidente J.D. Vance a Monaco ha marcato un netto cambio di rotta. L’Amministrazione Trump dovrebbe sviluppare la visione colà delineata. È infatti vero che l’UE sta vivendo una regressione democratica, a opera delle stesse forze che si sono accanitamente opposte a Trump prima delle elezioni, cercando di neutralizzarlo in ogni modo. Il sostegno americano ai patrioti e veri democratici europei è fondamentale.

Non si tratta di una mera questione di affinità politica. Gli USA hanno oggettivi interessi di sicurezza nel salvaguardare la democrazia nell’UE. Le forze globaliste che la minacciano sono le stesse che cercano di orientare l’Europa verso la Cina, o che permettono a comunità anti-occidentali di impiantarsi sul suolo europeo. Tuttavia, l’Amministrazione Trump dovrebbe rivolgere più messaggi positivi all’opinione pubblica europea, delineando un chiaro quadro di collaborazione mutualmente positiva. Molti europei che vedono nuovamente negli USA un faro di libertà potrebbero essere respinti da toni eccessivamente sprezzanti verso il Vecchio Continente.

daniele scalea, central european summit 2025

Daniele Scalea interviene al Central European Summit, il 15 aprile 2025 a Budapest. Fonte: Alapjogokert Kozpont.

L’Europa rifletta sui dazi

Anche gli europei debbono però fare la propria parte, per trovare un’interazione più amichevole con gli USA. Ad esempio, la questione dei dazi ha suscitato rabbia e rancore, ma avrebbe dovuto stimolare anche una riflessione e un esame di coscienza. Questo perché molti territori europei condividono con gli USA il medesimo problema di deindustrializzazione cui Trump vorrebbe porre rimedio, quando adotta un approccio protezionista.

Nel 1990 i 12 membri della Comunità Economica Europea detenevano il 35% delle esportazioni mondiali di beni; oggi, i 27 membri dell’UE pesano per il 15%. Qualcuno potrebbe obiettare che ciò dipenda dall’essersi mossi dalla produzione di beni a quella di servizi, ma non è così: includendo i servizi, la quota è comunque scesa dal 40% al 20%. Nel contempo, il peso della Cina sulla produzione manifatturiera mondiale è passata dal 5% nel 1980 all’odierno 35%, grazie principalmente alle delocalizzazioni e agli investimenti da Europa e USA.

L’UE mantiene oggi una forte posizione nell’esportazione di macchinari d’alta qualità, veicoli di lusso e prodotti chimici, ma è ormai dipendente da produttori esterni per beni strategici come semi-conduttori, elettronica avanzata, ingredienti farmaceutici, celle fotovoltaiche, batterie. Si potrebbero aggiungere alla lista beni non strategici, ma la cui perdita di produzione ha avuto un enorme impatto sociale: è il caso di tessuti, abbigliamento, mobilio e giocattoli.

Il fallimento della globalizzazione senza confine

Questo stato di cose è il frutto di precise scelte politiche, assunte nell’ultimo mezzo secolo circa, seguendo il principio della “divisione internazionale del lavoro”.

La globalizzazione ha deluso le aspettative della maggior parte della società europea perché ha creato una spaccatura economica e sociale difficile da colmare. L’idea che i lavori manuali, faticosi e scarsamente retribuiti sarebbero stati trasferiti nei paesi in via di sviluppo, lasciando all’Europa solo ruoli creativi e ben remunerati come programmatori, designer o banchieri, si è rivelata illusoria. In realtà, solo una piccola parte possiede le competenze, i talenti o le opportunità per accedere a queste professioni altamente qualificate, e comunque la domanda per simili figure è limitata. La maggior parte della popolazione, che tradizionalmente si affidava a lavori artigianali, manifatturieri o manuali, si è trovata marginalizzata: questi settori sono stati delocalizzati o affidati a immigrati, lasciando milioni di lavoratori senza alternative valide. La globalizzazione, invece di elevare il tenore di vita complessivo, ha accentuato le disuguaglianze, impoverendo economicamente e culturalmente chi non rientra nell’esclusivo mondo dei “lavori creativi”.

Conclusione

Sullo sfondo delle continuità tra Biden e Trump e delle svolte del secondo mandato trumpiano, si intravede un’Europa schiacciata dai fallimenti della globalizzazione. I dazi e il distacco energetico da Mosca hanno scosso le fondamenta di un modello economico già instabile, ma spetta all’Europa agire: rilanciare l’industria, valorizzare il lavoro, riconquistare l’autosufficienza e, soprattutto, non abbandonarsi a lente discese verso soluzioni oligarchiche. Trump, dal canto suo, deve offrire un’alleanza transatlantica che unisca sicurezza e democrazia. Solo con una cooperazione sincera e pratica, un’autentica unità d’intenti, USA ed Europa potranno fronteggiare assieme le tempeste geopolitiche.

Foto: Casa Bianca, pubblico dominio

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.