Basta maschi negli sport femminili

E arriviamo all’ultimo provvedimento emanato da Trump, particolarmente richiesto, ormai da anni, dal mondo femminista. Con l’atto intitolato «Tenere fuori gli uomini dallo sport femminile», il 5 febbraio il presidente ha sancito il divieto, per gli uomini che si identificano come donne, di partecipare a competizioni sportive femminili.

L’applicazione dell’ordine impone l’applicazione di questo divieto anche nei confronti di scuole e associazioni sportive che ricevono fondi federali. A tal proposito il documento cita il Title IX del 1972, secondo cui le donne e le ragazze devono avere pari opportunità nello sport.

Il Title IX è da anni un terreno di battaglia tra femminismo e transattivismo americani: per le femministe – preciso, radicali, non intersezionali – le donne devono essere protette in base al sesso, mentre per il transattivismo queer il Title IX deve proteggere le donne in base all’identità di genere. due visioni completamente contrapposte che si escludono l’una con l’altra.

Da ora in poi, lo sport femminile sarà solo per le donne, afferma Trump. Nell’ordine esecutivo l’opposizione ai maschi negli sport femminili viene definita una «questione di sicurezza, giustizia, dignità e verità» per proteggere le donne e le ragazze, le loro opportunità sportive e la loro privacy.

A tal proposito è significativo che alla firma di questo particolare atto esecutivo, Trump abbia scelto di essere circondato da una folla di donne e ragazze plaudenti, a dimostrazione del fatto che da molto tempo ormai le giovani sportive chiedono a gran voce l’esclusione degli atleti maschi transgender dagli sport femminili.

Inoltre il giorno successivo, il 6 febbraio, è stata la Giornata nazionale delle ragazze e delle donne nello sport, come fa notare il sito transattivista italiano gay.it, che in maniera fuorviante titola «Donald Trump vieta alle donne trans di praticare sport a scuola e all’università», quando non è vero che vieta loro di praticare sport, ma vieta soltanto ai maschi di praticare quello femminile.

In molti si chiedono se a Trump davvero importa qualcosa delle donne e delle ragazze nello sport o se questo provvedimento sia soltanto una strategia politica. Che sia una strategia politica non c’è alcun dubbio, ma non si può escludere che Donald Trump abbia sinceramente a cuore il tema. Dopotutto basta un po’ di buonsenso per riconoscere che gli uomini sono più forti delle donne e dunque avvantaggiati a livello fisico negli sport competitivi.

Insomma, quali che siano le motivazioni e che Trump piaccia o meno, dal punto di vista pratico è innegabile che gli ordini esecutivi di Trump sul tema del transgenderismo siano esattamente ciò che il mondo femminista e gender critical chiede da anni. Esclusione degli uomini dagli spazi privati e dagli sport femminili, riconoscimento del primato dei due sessi sugli infiniti generi, cancellazione dell’inesistente terzo genere e soprattutto la proibizione della transizione ai minorenni.

Il woke con le spalle al muro?

Attenzione, a cantare vittoria e a tirare sospiri di sollievo. È molto probabile che «l’agenda woke» non abbia affatto le ore contate come tanti altri entusiasti ritengono.

Uno dei primi ordini esecutivi di Trump è stato contro i programmi DEI (Diversity, Equity and Inclusion). I programmi Dei e Deia (Diversity, Equity, Inclusion and Accessibility) sono attivi da anni negli Stati Uniti, in Canada e altri Paesi occidentali, e prevedono una serie di pratiche aziendali pensate per favorire determinate minoranze definite discriminate.

Ad esempio si obbligano le aziende ad assumere una determinata percentuale di donne, persone non bianche, disabili e appartenenti alla cosiddetta comunità LGBTQIA+. I dipendenti delle aziende sono inoltre tenuti a frequentare corsi, tenuti da specifiche figure professionali create ad hoc, in cui vengono propinate le varie teorie intersezionali, femministe, genderiste e così via. In essi si parla di pronomi, microaggressioni, bias inconsci, privilegio bianco eccetera, tutto in nome del più petulante politicamente corretto.

Viene insegnato che i bianchi, gli eterosessuali, i «cisgender» eccetera detengono un privilegio innato che devono impegnarsi ad abbattere in favore dei discriminati, e che tutti i privilegiati sono intrinsecamente razzisti, omofobi e misogini, dunque devono «disimparare» i propri pregiudizi e fare mea culpa.

Sono anni ormai che molti cittadini – non necessariamente di orientamento politico conservatore – protestano contro queste politiche aziendali, adottate negli Stati Uniti a livello federale nonché da tutte le più grandi aziende di portata internazionale.

Fiutando il cambio del vento, molte delle suddette grandi aziende, tra cui Meta, Amazon, McDonald’s e Disney, hanno di recente fatto marcia indietro, ritirando i loro progammi DEI.

In altre realtà, invece, si è preferito semplicemente cambiar nome a tali programmi, ribattezzandoli con l’acronimo BRIDGE [L’acronimo, “ponte”, in realtà è molto arzigogolato perché le prime 4 lettere rappresentano Belonging, Representation, Inclusion, Diversity, (appartenenza, rappresentanza, inclusione, diversità) mentre la G sta per Gap (divario, inteso ovviamente come ostacolo da superare) e infine la E è di nuovo per Equity (equità). NdR]. Se ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che il woke, rappresentato dalle politiche DEI, sia stato sconfitto grazie alla presenza del salvatore Donald Trump, bisogna tener conto del fatto che l’agenda DEI, basata non sul merito ma sulla divisione in rigide categorie identitarie divise tra oppressi e oppressori, viene imposta dall’alto, da potenze sovranazionali.

Sono infatti le grandi aziende e i grandi fondi di investimento speculativi come ad esempio Blackrock a dettare questa agenda, e poco importa il colore politico di chi al momento governa.

Vi è poi un altro punto importante da considerare: quanto più Trump e i suoi procedono spediti, sia con le parole che con i fatti, con la lotta al transgenderismo, alle politiche inclusive e così via, tanto più forte sarà la reazione da parte di coloro che percepiscono tutto questo come una profonda ingiustizia.

Bisogna sottolineare a tal proposito che, mediamente, chi sostiene i valori cosiddetti woke, politicamente corretti, intersezionali o come li si vuol chiamare, ha una forma mentis che valorizza la vittimizzazione. Le vittime, gli oppressi, i deboli – e chi ne sostiene le cause – sono «i buoni». C’è questo continuo agognare allo status di vittima per dimostrare di essere dalla parte giusta.

Dunque provvedimenti come quelli emanati da Trump, se percepiti come drastici e mossi da puro odio, non fanno altro che rafforzare il fervore attivista di coloro che portano avanti la cosiddetta lotta dei deboli contro l’oppressore. Questo potrebbe dar loro forza ulteriore, e una volta tornato al potere un loro sostenitore, rincarare la dose ancor più di prima.

The Wokeism strikes back

Il mondo LGBTQIA+, infatti, non ha ovviamente reagito bene. A New York è stata subito organizzata la marcia «We fight back» contro le cosiddette «politiche antitrans» emanate da Trump.

Un comunicato pubblico firmato da Ilga World, Amnesty International e la International Planned Parenthood Federation ha lanciato una chiamata all’azione globale per contrastare la «agenda anti-diritti» dell’amministrazione Trump. Ricordiamo che Ilga World è la principale associazione internazionale LGBT+ al mondo, che riunisce più di 400 singole associazioni di attivismo.

Nel comunicato troviamo un duro attacco alle politiche emanate da Trump, la cui visione (definita di «estrema destra») porterà al peggioramento della violenza «di genere, sessuale e LGBTQI*+fobica», il che causerà più morti e intaccherà diritti umani ormai dati per scontati. Un «progetto mortale», leggiamo, che promuove la violenza contro i discriminati e marginalizzati, cancella le identità e mette fuorilegge la cura «salvavita» per l’affermazione di genere.

La testata LGBTQ Nation accusa Trump di non conoscere la biologia umana di base e sostiene che le sue definizioni di maschio e femmina sono «scienza nonsense con conseguenze sconcertanti».

Anche i sedicenti «alleati» vip si sono schierati contro i documenti emanati da Trump. Celebrità come Ariana Grande si sono subito espresse contro «Trump che non riconosce le identità transgender» (da notare tra l’altro come Vanity Fair riporti la notizia nella rubrica «diritti»). Anche Madonna si è esposta contro «l’omotransfobia di Donald Trump», esortando tutti a «non rinunciare alla lotta» e a sostenere la «comunità queer». In una protesta di piazza si è fatta sentire anche l’attrice di Sex and the City Cynthia Nixon, lesbica dichiarata, che sorprendentemente è sia madre di un uomo trans che zia di un uomo trans. Nixon si è pronunciata contro lo stop alle transizioni dei minori, come d’altronde ha fatto la maggior parte dei vip americani.

Anche nel mondo cristiano si sono levate delle voci contro le politiche di Trump. Durante un discorso a cui era presente anche il neo-presidente, Marian Budd, vescovo donna episcopale di Washington condanna i provvedimenti del governo, chiedendo direttamente a Trump di «avere pietà per gay, immigrati e transgender, che ora vivono nella paura».

Affermare che i sessi sono due, impedire l’alterazione irreversibile dei corpi di minorenni, escludere gli uomini dagli sport femminili. Basta questo a mandare la cosiddetta «comunità LGBTQIA+» nel terrore, a farli sentire perseguitati, sotto attacco, minacciati nella loro stessa esistenza. È  importante ricordare che le persone che temono per la propria esistenza spesso dalla paura passano alla rabbia, e la rabbia spesso porta a compiere azioni irrazionali. [2 – fine. La prima parte è stata pubblicata a questo link]

Le opinioni espresse negli articoli del Belfablog sono quelle dei rispettivi autori e potrebbero non rispecchiare le posizioni del Centro Studi Machiavelli.

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Elisa Boscarol è divulgatrice, studiosa del fenomeno "gender" e fondatrice del canale Il Mondo Nuovo 2.0.