L’offensiva delle idee progressiste, e non il commento di Giuseppe Valditara, deve suscitare indignazione perché distorce la realtà e promuove la disgregazione sociale.
A questa constatazione è possibile pervenire anche incrociando la polemica intorno alle dichiarazioni del ministro dell’Istruzione con il meno noto “Rape, Suicide, and the Rise of Religious Nones”, un articolo accademico di Philip Truscott apparso recentemente sul «Journal of Sociology and Christianity».
La polemica intorno alle parole di Valditara
«Abbiamo di fronte due strade: una concreta, ispirata ai valori costituzionali. L’altra ideologica: in genere i percorsi ideologici non mirano mai a risolvere i problemi ma ad affermare una personale visione del mondo. La visione ideologica è quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato».
Così, con queste parole pronunciate negli scorsi giorni, in occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, Valditara ha dato il via alle polemiche rinnegando il patriarcato, quella gabbia che, secondo la narrazione unica, soffocherebbe ancora il genere femminile a suon di pregiudizi, ipocrisie e costringimenti passatisti mai del tutto estirpati.
«Deve essere chiara a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale. Non si può accettare la cultura della violenza».
Per l’appunto, come se non bastasse, il ministro evidenzia anche quel nesso tra immigrazione e stupri maldestramente occultato nel dibattito pubblico come la polvere sotto i tappeti dei salotti perbene. Le statistiche, però, non lasciano scampo: un terzo delle violenze sessuali sono compiute da immigrati, cioè da circa l’8% della popolazione. Traducendo: gli stranieri sono almeno quattro volte più propensi a compiere questo tipo di reati rispetto agli italiani.
Si tratta di numeri troppo scomodi per essere presi in considerazione. La narrazione wokeista, ancora dominante nella cultura mainstream italiana, preferisce, infatti, additare quel marchio genetico – la “bianchezza” – a causa unica dei crimini, delle violenze e delle prevaricazioni perpetrate dai maschi di questa parte del globo. I tratti paradossalmente essenzialisti dell’ideologia woke sono ben evidenziati in F. Erario, “L’antirazzismo woke e la vittoria di Cesare Lombroso” (in A.a. V.v., “Wokeismo, cancel culture, oicofobia. Tre minacce alla nostra civiltà“). Così, in una storia di Instagram, Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, ha ricordato che la fondazione «porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”». Elly Schlein, invece, non ammette discussioni con chi è geneticamente deviato ed arriva, così, ad affermare che «il patriarcato non esiste solo agli occhi di chi ha il privilegio di non vederlo». Questo genere di dichiarazioni non fa che riprodurre quell’eco “è stato il vostro bravo ragazzo”, quello slogan che le femministe strillavano nelle piazze lo scorso anno tra strepiti di tamburi ed esibizioni di fiamme.
La reale posta in gioco
Il maschio bianco, occidentale ed eterosessuale deve essere rieducato, annientato e, come farneticano le moschee del politicamente corretto, “decostruito”.
Questo è il fine ultimo di un’offensiva che ultimamente utilizza il pretesto – di per sé ovviamente esecrabile – della violenza sulle donne. Così Michela Murgia scriveva che essere maschi equivale ad essere figli di un boss mafioso: «si nasce già immischiati» e «nessuno è innocente». Ma anche all’estero l’antifona è più o meno lo stessa. Ad esempio, proprio negli scorsi giorni le polemiche hanno impedito una conferenza programmata nel parlamento europeo con Maboula Soumahoro. Quest’ultima non è nuova a dichiarazioni razziste contro l’uomo bianco che «non può incarnare l’antirazzismo» e «non può avere ragione contro una donna nera o un arabo».
Lo studio di Truscott e la necessità di una controffensiva
Capire la posta in gioco è necessario per formulare una controffensiva.
Al giorno d’oggi, infatti, non è sufficiente soltanto dichiarare che il “patriarcato” ormai non esiste che sui libri di storia. Bisogna anche ricordare come le rivendicazioni del femminismo siano praticate, garantite e, a tratti, perfino pubblicamente incoraggiate – divorzio, aborto, libertà sessuali e di vario tipo. È anche a questa atmosfera culturale che si potrebbero, poi, ricondurre le violenze, le schizofrenie e il generale senso di disorientamento attuali. A tal fine è possibile tornare al citato “Rape, Suicide, and the Rise of Religious Nones”.
Secondo Truscott sussiste una correlazione tra, da una parte, l’incremento degli stupri e dei suicidi e, dall’altra, l’aumento dei “nones”, delle persone slegate dalle affiliazioni religiose. La realtà presa in esame è ovviamente quella statunitense, più esattamente in riferimento a una serie di fonti statistiche, tra cui i rapporti dei crimini dell’FBI, i numeri dei suicidi raccolti dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention) e il Pew Religious Landscape Survey, un autorevole studio condotto dal Pew Research. Il fenomeno religioso è qui inteso, così, non come un afflato individuale ma come una questione sociale. Secondo Truscott, infatti, l’appartenenza a una comunità religiosa – con tutti i legami personali, le ritualità e i vincoli annessi – promuove l’autocontrollo e previene le condotte dannose e criminose.
In questo contesto, si può compiere un passo oltre lo studio di Truscott ed evidenziare la centralità del soggetto maschile che veste, nella stragrande maggioranza dei casi, il ruolo di aggressore negli episodi di stupro, da una parte, e di suicida, dall’altra. Il maschio appare quindi esposto in prima linea nella bufera nichilistica del nostro tempo e, di conseguenza, “rieducarlo” in senso femminista, secondo gli incoraggiamenti a reti unificate, può aggravare paradossalmente i pervertimenti in atto.
Riannodando i fili del discorso, è possibile così ribadire che l’indignazione deve derivare non dal commento di Valditara ma dal progressismo, da un’offensiva rivolta, in realtà, non a tutela delle donne ma alla distruzione del maschio e dell’identità occidentale.
Collaboratore giornalistico e studioso di storia contemporanea. Si occupa, in particolare, delle ideologie politiche del Novecento italiano.
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