La domanda che si fanno tutti, nel vecchio continente, smaltito lo shock (o la sbornia) post-elettorale americana, è sempre la stessa: che cosa succederà ora all’Europa? Quali saranno le ricadute politiche, economiche, sociali, delle elezioni che hanno portato per la seconda volta Donald Trump nello studio ovale?
Difficile fare previsioni, soprattutto perché mancano oltre due mesi all’insediamento del nuovo presidente. Diverso è invece soffermarsi su cosa l’Europa dovrebbe o non dovrebbe fare, insomma, non abbiamo il potere, da europei, di influenzare Donald Trump, ma possiamo certamente influenzare noi stessi. Come sappiamo, Donald Trump è già stato presidente, e in base a quell’esperienza possiamo farci un’idea su come potrebbe reagire l’Unione Europea alla sua seconda vittoria, dopo quattro anni di restaurazione Dem guidata dal tandem Biden-Harris.
Chiudersi a riccio
Nel 2016, quando al timone della locomotiva europea stava ancora salda una forte Angela Merkel, l’Unione Europea, con l’eccezione dell’Ungheria e della Polonia, scelse “la strategia del riccio”. Nella serena certezza che la presidenza Trump fosse “un incidente di percorso” e non l’indice di un cambiamento epocale di più vasta portata all’interno dell’Occidente, la reazione dell’establishment europeo fu quella della chiusura a riccio, chiudersi in una sorta di Arca di Noè nella quale mettere in salvo tutto ciò che di buono l’Occidente per come lo immagina il mainstream aveva creato (diritti civili, ambientalismo radicale, agenda gender ecc.), in attesa della fine del diluvio e del ritorno dell’arcobaleno, quando l’Europa avrebbe riconsegnato il tesoro perduto al mondo in macerie.
L’abbiamo chiamata strategia del riccio ma sarebbe più onesto e più giusto definirla come negazione della realtà. Circondata dall’aquila americana, dall’orso russo e dal dragone cinese l’Europa non esce, tuttavia, dall’orizzonte post-istorico nel quale era entrata (grazie a Ronald Reagan) alla caduta del muro di Berlino. Ci si potrebbe lungamente soffermare sul perché in Europa tale istoricofobia si sia così ben radicata (in primis perché in Europa la parola “storia” sembra ormai essere diventata sinonimo di “Seconda guerra mondiale”), ma rimandiamo tale proposito ad altra occasione.
Tanto peggio per la realtà
In cosa consiste quindi la strategia del riccio? Lo abbiamo visto: si tratta sostanzialmente di negare la realtà, anzi, di accusarla e di portarla al banco degli imputati. Nella mentalità e nella prospettiva di teleologia messianica di cui è impregnata l’Europa (e le istituzioni europee in particolare), l’accettazione di una realtà che diverge dal percorso tracciato dalla supposta dialettica provvidenziale e progressista immanente alla storia rimane inaccettabile, pena la caduta dell’impalcatura ideologica tutta dell’Unione Europea, che è non è nata per fare la storia ma proprio perché sembrava finita la Storia.
La strategia del riccio in questo caso non si differenzia, di fronte alle traversie della storia, dalla reazione di altre teologie dogmatiche che si sono susseguite nel corso della storia. Sia nel caso del Cristianesimo sia nel caso del Socialismo, grandi teleologie dei secoli scorsi, la reazione di fronte alla crisi è sempre stata la medesima: più dogma, chiusura, difesa. Chiusura a riccio. La crisi del Cattolicesimo che aveva ingenerato la Riforma non era dovuta, per i papi della controriforma, ad un eccesso di dogmi, ma ad una carenza di essi. La crisi del Socialismo, similmente, non si doveva alla natura illiberale e soffocante del suo modo di concepire la vita umana e l’economia, ma ad una carenza di prassi socialista e di economia pianificata.
La medicina alla crisi: più crisi
La strategia del riccio adottata dal progressismo europeo non è diversa: se il progressismo è in crisi serve più progressismo. Angela Merkel nel 2016 si prese sulle spalle il fardello del progressismo occidentale, trasformò la Germania nell’Arca di Noé dei diritti e mentre Trump veniva acclamato al grido di “Build the wall!” la cancelliera proclamava “apertura senza limiti” di fronte alle masse di immigrati clandestini che giungevano in Germania dalla rotta balcanica e dal Mediterraneo. Similmente, di fronte alla noncuranza di Trump di fronte all’allarmismo degli attivisti ambientalisti, l’Unione Europea a guida teutonica rispondeva con un devastante green deal deindustrializzatore, dichiarando guerra al nucleare e condannando a morte le auto a benzina, facendo peraltro la gioia tanto dell’odiato inquilino repubblicano della Casa Bianca, quanto degli autocrati eurasiatici, increduli di fronte al suicidio del loro principale competitor.
Sarà diverso stavolta? Abbiamo imparato la lezione? Presto per dirlo, ma i primi indizi sono preoccupanti. Lo ha dimostrato Mario Draghi il quale, sempre ubiquo nei palazzi del potere nonostante sia ufficialmente un “pensionato”, ha affermato dal vertice di Budapest della Comunità Politica Europea che “l’Europa non può più posticipare le decisioni; tante volte le decisioni si sono posticipate in attesa del consenso e poi il consenso non è arrivato”. Traduzione: se i popoli europei non fanno quello che diciamo noi allora faremo a meno del loro consenso. Si tratta della cara vecchia prospettiva del “pilota automatico”, molto cara alla tecnocrazia europea di cui Draghi è espressione, secondo la quale le necessità della storia (“la dialettica”, direbbe un marxista ortodosso) si muovono in maniera indifferente ai voleri dei popoli, i quali possono solo seguirla o esserne trascinati per i capelli. Una prospettiva inaccettabile per un elettorato come quello americano, che infatti ne ha bocciato i propugnatori, ma che ancora trova consenso, seppur sempre meno, nel vecchio continente dove intere generazioni sono state convinte, a suon di educazione politicizzata, che il ritorno ad una qualsivoglia politica decisionistica da parte degli eletti (e non di opache agenzie internazionali) equivarrebbe nientemeno che al ritorno del Fascismo.
Il giardino dei ricci contro la giungla dei mostri
È questa visione del mondo quella che la strategia del riccio cerca di difendere; si tratta di proteggere il “giardino” europeo, per usare una definizione dell’Alto Rappresentante UE per la politica estera, il socialista spagnolo Josep Borrell (PSE), fuori dal quale, in America come in Russia e in Cina, vi sarebbe soltanto “una giungla”; magnifica e insolitamente onesta definizione che riassume trecento anni di storia di illuminismo autoritario, positivismo messianico e colonialismo missionario. È facile quindi supporre che proteggere il giardino altro non voglia dire che ribadirne l’alterità rispetto alla giungla, cioè rendere il giardino ancora più giardino, che tradotto significa: più ambientalismo radicale, più “diritti civili”, più genderismo, più ostilità verso i numerosi, veri o supposti, “animali infestanti” che minacciano il giardino, sia che provengano dall’interno del giardino (populismi autoctoni), sia dall’esterno (disinformazione russa, alt-right a stelle e strisce, soft power cinese e così via). L’esternalizzazione della crisi, tra le altre cose, è un elemento che contraddistingue la strategia del riccio: la falange rimane compatta solo se si percepisce compatta, e la fobia del nemico, interno ed esterno, è la miglior strategia, almeno a breve termine, per chi intenda resistere alle pressioni di veri o supposti nemici.
Salvare il giardino o salvare noi stessi?
Il problema, per il riccio, è che però il 2024 non è il 2016. Otto anni, nel vorticoso incedere della storia contemporanea, sono quasi un secolo. Angela Merkel non c’è più, al suo posto un vivacchia un governicchio dimissionario composto da tre forze politiche in guerra tra loro; la guerra in Ucraina ha distrutto l’economia tedesca (i Verdi hanno fatto il resto), il presidente francese si è asserragliato nell’Eliseo appoggiandosi ad un esecutivo di minoranza, mentre le forze ostili alla tecnocrazia europea crescono in tutta l’Unione, dal Portogallo al Mar Baltico. In questa prospettiva Viktor Orbán ha lanciato l’allarme “l’Unione Europa crolla!”; certo, il ruolo di Cassandra è sempre fastidioso, ma Cassandra diceva il vero, e fu una disgrazia per i suoi compatrioti non ascoltarla.
L’Europa vuole chiudersi a riccio, ma può permetterselo? E se invece di un diluvio di quaranta giorni fossimo di fronte ad un cambio di paradigma? Forse a Bruxelles un bagno di realtà, anche generazionale, sarebbe opportuno. Primo passo, necessario e ormai, questo sì, inevitabile: riconoscere che il mondo del 1989 è definitivamente tramontato. L’utopia di Fukuyama è finita: se le vecchie generazioni di politici figlie della tradizione popolare, socialdemocratica, liberale e verde si ritengono incapaci di pensare ad un nuovo paradigma per una nuova epoca si facciano da parte, e lascino tornare nella storia gli ruropei ancora decisi a farne parte anziché soltanto a subirla.
Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.
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