Poco più di una dozzina di ore; tanto è durato il governo tedesco alla notizia che Donald J. Trump aveva trionfato, per la seconda volta, alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America. La notizia non giunge inaspettata, ma vale la pena analizzare alcune “coincidenze”, soprattutto temporali.
Che a Berlino la compagine di governo scricchiolasse era cosa nota da tempo e più volte l’argomento era stato dibattuto proprio su queste pagine. L’inverno a cavallo tra 2020 e 2021 sembrava aver nuovamente cementato lo status quo, negli Stati Uniti come dal lato europeo dell’oceano. Con la vittoria dei Democratici nel novembre del 2020 e quella socialdemocratica di Olaf Scholz alle elezioni federali del settembre 2021 (che inaugurò l’attuale Ampelkoalition con Verdi e Liberali) l’asse euroamericano sembrava destinato a tornare per lunghi anni sotto la tutela dell’elitismo restauratore progressista. Si è trattato, come sappiamo ora, di un’illusione.
I liberali della FDP, la compagine più piccola che compone il governo tedesco, sono stati indicati fin da subito, anche in queste pagine, come l’anello debole del governo Scholz; parte di una storia e impregnati di visioni economiche non certo assistenzialistiche, i liberali di Christian Lindner si sono trovati all’interno di una coalizione di governo marcatamente di sinistra con all’interno una componente, quella verde, dalle forti connotazioni dirigistiche, decresciste e radicali, molto lontane dalla visione liberista e di laissez faire tipica della FDP. Per rassicurare un elettorato composto da alta borghesia e interessi finanziari, Scholz aveva dovuto, per coinvolgere i liberali nel governo, concedere al loro segretario la pesantissima poltrona di Ministro delle Finanze, dalla quale Lindner avrebbe potuto mantenere una posizione molto chiara: nessuna concessione agli stati “spendaccioni” dell’Europa del Sud, spesa pubblica sotto controllo, freno significativo ai propositi decrescisti dell’ala oltranzista dei Verdi più vicini ai movimenti ecologisti radicali.
Il cigno nero della guerra
A scompaginare i piani redatti in lunghe trattative, però, ci ha pensato la politica estera. La sopraggiunta invasione russa dell’Ucraina, a meno di sei mesi dall’inaugurazione del nuovo governo, ha letteralmente trasformato in lettera morta tutti i vecchi accordi tra le forze politiche: il decoupling energetico dalla Russia, la necessità (per non dire l’obbligo, parzialmente eterodiretto) di approvare un nuovo e impegnativo programma di riarmo e il dovere dell’accoglienza verso un gran numero di profughi ucraini, hanno portato la Germania, assieme ad un clima di pessimismo diffuso, dritta verso la recessione.
FDP e Verdi, vittime della guerra
Per la FDP, che ha sempre messo le ragioni del portafoglio, soprattutto quello del proprio elettorato, davanti a tutto, si è trattato di un sanguinoso imprevisto, registrato immediatamente da sondaggi e tornate elettorali locali, dove i liberali sono andati malissimo ovunque. Ai Verdi, compagni di viaggio di Lindner, non è andata meglio: la guerra in Ucraina, con la sua necessità di evitare un’impennata verso l’alto dei prezzi dell’energia a causa dell’interruzione delle forniture russe, ha imposto un freno fortissimo all’agenda della transizione verde tedesca, con il massiccio ritorno a fonti inquinanti come il carbone, elementi, questi, che da un lato hanno disilluso molti elettori verdi “tiepidi”, speranzosi forse in una transizione dai costi minori, e dall’altro hanno irritato una base movimentistica e radicale allergica a qualsiasi compromesso, che si è in parte vendicata con l’astensionismo.
Fin qui nulla di nuovo ma la maggioranza di governo della Germania, con la sua tradizione di governi stabili, non ne ha risentito. Scholz, almeno fino a ieri, pur nella consapevolezza di non avere alcuna possibilità di rielezione, è riuscito a mantenere abbastanza bene il ruolo di “adulto nella stanza”, ricordando a tutti la necessità di rimanere uniti in un contesto internazionale così difficile e, soprattutto, di fronte alla rapida ascesa del populismo di destra di una AfD che dalla crisi economica e geopolitica sta capitalizzando un numero enorme di consensi.
Crisi genuina? Forse no
Tutto ciò, come dicevamo, fino a ieri, quando il cancelliere, con una mossa apparentemente impulsiva e decisamente irrituale per la compassata politica teutonica, ha licenziato su due piedi proprio il ministro delle finanze, colpevole di aver chiesto, in una riunione del Consiglio dei Ministri e di fronte all’esaurimento conclamato della spinta propulsiva del governo, elezioni anticipate all’inizio della prossima primavera. Una lettera di licenziamento alla quale il segretario della FDP ha risposto immediatamente ritirando tutti gli altri suoi ministri dall’esecutivo ovvero quelli di Giustizia (Buschmann), Trasporti (Wissing) e Istruzione (Stark-Watzinger), aprendo di fatto una crisi di governo, che si tradurrà in un voto di fiducia al Bundestag previsto per il 15 Gennaio: voto di fiducia che, senza i voti dei liberali, non avrà alcuna possibilità di essere superato dall’esecutivo, il che significa che a meno di improbabilissime sorprese la Germania andrà al voto il prossimo Marzo, proprio come aveva chiesto Christian Lindner; fatto abbastanza singolare di un cancelliere che, per evitare di concedere elezioni anticipate a un partner di governo, indice un voto di fiducia che sa già si tradurrà in elezioni anticipate, di fatto accontentandolo. Siamo ancora sicuri che si tratti di una crisi di governo genuina e non piuttosto dell’attuazione di un piano, pronto da chissà quanto, di exit strategy di fronte ai mutati equilibri atlantici?
Le tempistiche rapidissime, senza il consueto lungo travaglio di dichiarazioni a mezzo stampa e trattative dietro le quinte, magari coinvolgendo il Presidente della Repubblica Steinmeier, sembrano in realtà nascondere altro che non una crisi genuina, piuttosto un “rompete le righe” preparato da tempo. La FDP, entrata nel governo sulle ali del miglior risultato elettorale della sua storia (11,9%) se si votasse oggi otterrebbe invece il suo risultato peggiore dal 1949, con un miserrimo 3% (dati FORSA) e uscendo dal Bundestag, fatto mai avvenuto in tutta la storia postbellica tedesca. Che Lindner staccasse la spina e cercasse di salvare il salvabile, seppur a meno di un anno dal nuovo voto (le federali sono previste per il settembre 2025) era nell’ordine delle cose, ma per quale motivo proprio ora e a nemmeno un anno dalle nuove consultazioni federali?
La coincidenza col voto americano
Che un esecutivo debole, composito e litigioso, ma che aveva tutto sommato tenuto bene di fronte a guerre alle soglie di casa, pandemia covid e crisi economica, cada proprio poche ore dopo la vittoria di Trump alle presidenziali americane è una coincidenza perlomeno singolare, soprattutto se si tiene conto del fatto che il ritorno di The Donald alla Casa Bianca significherà una nuova stagione di protezionismo a stelle e strisce verso i prodotti dell’industria europea (cioè tedesca) diretti oltreoceano, con tutte le conseguenze, economiche e sociali, che ne deriveranno. Ad ammortizzare un simile urto, però, non c’è un governo forte come quello di Angela Merkel, ma quello tripartito e precario di Scholz. Un governo come quello della “coalizione semaforo” non avrebbe potuto resistere neppure pochi mesi ad un’agguerrita presidenza Trump, ansiosa di vendicarsi verso chi aveva ballato sulle sue macerie, all’indomani della vittoria di Joe Biden nel novembre 2020. Meglio dunque, finché è possibile, fare le valigie in buon ordine e lasciare a un nuovo governo la patata bollente di trattare con il tycoon.
Il centro verso il ritorno al governo
Nuovo governo che sarà, a livello programmatico, ideologicamente diverso da quello rosso-giallo-verde, perché il cancellierato sarà quasi certamente appannaggio della CDU e del suo leader, il milionario e uomo d’affari Friedrich Merz, più a destra di Angela Merkel, nonché membro dell’influente think tank filoamericano Atlantik Brücke. Un governo, quello di Merz, dove ci sarebbe certamente posto per la SPD (e dunque per Scholz) ma come azionista di minoranza, mentre i Verdi potrebbero tornare a rifiatare e a leccarsi le ferite all’opposizione, cercando di ricompattare la propria base barricadera.
Un voto anticipato che piace a tutti
Una soluzione, quella del voto anticipato, decisamente inusuale per uno stato come la Germania, ma che stante la situazione attuale conviene a tutti, persino ad Alternative für Deutschland, i cui consensi andranno quasi a raddoppiare rispetto a tre anni fa e che potrà affermare, di fronte al realismo e all’anti-progressismo di Trump, di aver sempre avuto ragione in merito a sovranità nazionale, difesa dei confini e necessità di chiudere il conflitto lungo il confine Est dell’UE: affermazioni a cui i membri degli attuali partiti mainstream del panorama tedesco faranno fatica a controbattere.
Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.
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