Torna a far discutere la proposta di Calenda circa una riforma della scuola che prevederebbe la frequenza obbligatoria, fino alla maggiore età, di un percorso liceale, cui farebbe seguito, per chi volesse indirizzarsi verso professioni cosiddette tecniche, un periodo di formazione ulteriore, alternativo all’università:
Smettiamola di trascurare il sapere non funzionale. Faccio una proposta: tutti i ragazzi di qualunque condizione sociale devono fare il liceo. Gli studi professionali e tecnici devono essere rinviati a dopo. Prima dobbiamo formare uomo e cittadino.
La logica di fondo, che Calenda non manca di esplicitare, è quella secondo cui
in una società del benessere fino a 18 anni si imparano arte, storia, musica, cultura, cose che daranno un vantaggio competitivo dopo e, che, soprattutto, eviteranno la frustrazione che deriva dall’essere incanalati verso una sola professione.
Da umanista, trovo si tratti di una proposta affascinante: peccato, però, che da essa traspaia una profonda ignoranza circa le condizioni reali della scuola e della società italiane.
Colpo finale ai licei italiani?
Negli ultimi decenni, complici riforme e riformine, una cronica carenza di personale e di spazi e, infine, l’innalzamento a più riprese dell’obbligo scolastico, la qualità della scuola italiana è calata vertiginosamente. Al contempo, si è aggravato il fenomeno delle classi pollaio da trenta o più studenti, sempre più diffuse. Rinfoltire ulteriormente le fila dei liceali con altri ragazzi che ovunque vorrebbero essere, fuorché lì, ben poco gioverebbe loro, e andrebbe invece a detrimento dei compagni che hanno scelto liberamente quel tipo di studi in accordo con le proprie inclinazioni.
Costringere poi a studiare latino o fisica dei ragazzi che non nutrono alcun interesse, né hanno alcuna predisposizione, verso queste materie, non potrà che generare in essi frustrazione e peggiorare altresì la qualità dell’esperienza scolastica per i compagni più dotati o più volenterosi; giacché, come ben sa chiunque abbia messo piede in un’aula scolastica, il “passo” cui procede la classe è necessariamente quello dei più lenti tra gli alunni. Nella scuola dell’obbligo, giustamente, occorre fare il possibile per non lasciare indietro nessuno.
Una proposta da nato con la camicia
Non va inoltre dimenticato che uno dei principali fattori attrattivi degli studi tecnico-professionali è sempre stato rappresentato dalla possibilità di entrare nel mercato del lavoro in età più giovane, iniziando a guadagnare e a permettersi intorno ai vent’anni cose per le quali chi avesse invece optato per un percorso liceale avrebbe dovuto poi attendere fino al completamento del ciclo di studi universitario, ossia almeno 4-5 anni in più.
Ciò, naturalmente, poco importa a chi sia nato in una famiglia agiata: non ho dubbi sul fatto che, per i figli di Calenda, iniziare a guadagnare fors’anche a trent’anni non sarebbe assolutamente un problema e che potrebbero nel frattempo condurre una vita più che agiata grazie al sostegno della famiglia. Credere che ciò valga per tutti i ragazzi italiani, tuttavia, significa avere ben poca consapevolezza delle condizioni in cui versa questo paese.
La critica di Lettera150
È dunque opportuno applaudire le numerose voci che, da destra, si sono levate per bollare come assurda e anacronistica la proposta di Calenda?
A mio parere, no. Pur concordando, infatti, sulla necessità di rigettare la proposta di Azione, trovo che le ragioni portate dalla Destra italiana contro il liceo per tutti siano mal calibrate.
Prendo ad esempio il comunicato del think tank “Lettera150”, poiché vi è riassunta buona parte delle obiezioni che sono state opposte alla suggestione di Calenda. I firmatari di Lettera150 asseriscono che
Essa appare certamente contraria alla necessità di valorizzare i talenti individuali dei ragazzi e di venire incontro ai fabbisogni del mondo produttivo. È semmai necessario pensare ad un potenziamento della istruzione tecnico-professionale, trasformandola in una scuola di serie A, non nella seconda o terza scelta dei giovani e delle famiglie, come purtroppo accade ancora oggi.
Ora, è indubbio che un percorso formativo unico sarebbe meno rispettoso delle differenze, in termini di interessi e attitudini, tra gli studenti. Non si comprende, tuttavia, per quale ragione fornire una maggiore preparazione in termini di cultura generale anche a chi farà il magazziniere o l’estetista significherebbe andare contro i fabbisogni del mondo produttivo: forse perché ne ritarderebbe di qualche anno l’ingresso nel mercato del lavoro? E se anche fosse: davvero la scuola serve solo a soddisfare le necessità delle aziende? Non dovrebbe, forse, rappresentare innanzitutto un‘occasione di emancipazione intellettuale e un percorso che aiuti ad acquisire gli strumenti culturali indispensabili per vivere all’interno di una società sempre più complessa?
Ed è poi vero che l’istruzione tecnico-professionale è percepita dalle famiglie italiane come una seconda o terza scelta, o sono forse i docenti universitari e i leader politici – tutte persone che, nella quasi totalità dei casi, hanno alle spalle un percorso liceale – a proiettare su altri quello che è in realtà un loro pregiudizio inconfessabile?
Il “succo” della cultura
Infine, se appare difficile non concordare col coordinatore di Lettera150, Giuseppe Valditara, quando afferma che “di fondo alla proposta di Azione vi è l’idea che l’approccio al lavoro già durante la scuola sia un fatto negativo, quando invece l’imparare a fare è esperienza formativa utile, che va giustamente declinata nei vari tipi di scuola superiore”, lascia invece assai perplessi la chiosa secondo cui “sono i valori della cultura classica che vanno trasmessi anche negli istituti tecnici e professionali, non è l’esperienza laboratoriale o in azienda che va eliminata”.
Trovo invero singolare quest’idea, ultimamente piuttosto diffusa nell’intellighenzia della penisola, secondo cui i “valori” di una data cultura si possano estrarre o distillare separandoli dai contenuti, neanche parlassimo di succo di limone o grappa.
Qualcuno crede davvero che sia possibile trasmettere i valori della democrazia primigenia senza studiare un poco di storia greca? O la rilevanza della razionalità e del pensiero logico senza un’infarinatura di filosofia, o l’importanza dello stato di diritto senza confrontarsi con la Roma antica? Pensiamo seriamente che dei ragazzi possano apprezzare un regime repubblicano, senza conoscere le monarchie medievali e la rivoluzione francese?
Sono assai propenso a dubitarne. E, poiché è impensabile moltiplicare indefinitamente gli insegnamenti e le ore di lezione, è evidente come ogni percorso scolastico si regga necessariamente su di una serie di compromessi, né semplici né banali, nella costante ricerca di un equilibrio tra contenuti che risultino di immediata applicabilità in ambito lavorativo e altri che si riveleranno utili allo studente principalmente per orientarsi all’interno di un mondo complesso e in costante evoluzione.
Non dimenticare la società in nome dell’economia
Per questo, pur derubricando la proposta di Calenda a boutade di uno che non ha idea di come viva la maggioranza della popolazione, non mi sento di condividere l’avventatezza con cui i suoi detrattori l’hanno cassata senza appello sulla sola base della non corrispondenza coi fabbisogni del mercato del lavoro.
Prima che essere futuri lavoratori, gli studenti sono persone, e sono i cittadini di domani: se dalle loro competenze professionali dipenderà in parte il futuro della nostra economia, dalla loro capacità di leggere il mondo dipenderà il futuro della nostra società. Non penso sia meno importante.
Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.
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