di Lorenzo Bernasconi

Pur con lo spettro dei contagi in aumento e l’ombra di nuove restrizioni, il Natale di quest’anno è trascorso, per la maggiore parte degli italiani, in modo relativamente tranquillo. Se, tuttavia, non si può ancora parlare di un effettivo ritorno alla normalità, ciò che la pandemia non ha invece cambiato di una virgola è l’ormai consueto (e un po’ deprimente) spettacolo offerto dalla politica italiana, apparentemente incapace di resistere alla tentazione di trasformare il Natale e i suoi simboli in altrettanti strumenti di campagna elettorale.

“Il presepio è di destra o di sinistra?”

Anche quest’anno, infatti, a sinistra abbiamo assistito a un fiorire di presepi a tema migranti e a un profluvio di slogan del tipo “anche Gesù era un profugo!”, arrivando a scomodare il bambinello persino per giustificare le azioni di Mimmo Lucano, recentemente condannato per associazione a delinquere, truffa e peculato in riferimento a condotte illecite perpetrate abusando della carica di sindaco che, al tempo dei fatti contestati, ricopriva nel paesino calabrese di Riace.

A destra, d’altro canto, è stato un florilegio di presepi, fotografati, condivisi, invocati come simbolo nazional-popolare e identitario, ma anche come baluardo dei valori della famiglia tradizionale, contrapposti alla liquida precarietà dei rapporti umani tipica del nostro tempo (scelta peraltro infelice, a mio avviso, giacché Giuseppe, che fu patrigno e non padre di Gesù, sposò una donna incinta di un figlio non suo: non si trattasse del figlio di Dio, sarebbe una storia buona a épater le bourgeois!).

La politicizzazione d’un simbolo religioso proprio mentre la società diventa irreligiosa

Ci troviamo, all’apparenza, di fronte a uno scenario paradossale: secondo una ricerca commissionata dalla stessa CEI, solo il 22% degli italiani partecipa abitualmente alla messa domenicale e solo il 28,6% si dichiara fermamente convinto dell’esistenza di una vita dopo la morte; numeri in netto calo rispetto ai dati di 25 anni or sono (quando fu condotta l’ultima indagine comparabile), che evidenziano un forte fenomeno di secolarizzazione della società.

Ciononostante – o forse proprio per questo – oggi più che mai le forze politiche fanno a gara per accaparrarsi il simbolo del Natale per eccellenza, declinandolo e distorcendolo in un modo che risulti funzionale alla propria visione del mondo, e arruolando in sostanza il Gesù neonato alla propria, terrenissima causa.

Quando il significato del presepio era ancora trascendente

A ben guardare, tuttavia, il paradosso è tale solo se si considera il fenomeno in una prospettiva prettamente statistico-quantitativa. Se si guarda invece alla questione da un punto di vista semiotico, non sfuggirà infatti quanto, fino a qualche decennio fa, il presepe vivesse, come simbolo, in un rapporto strettissimo con un significato metafisico e prettamente religioso, nutrito da una fede personale che trovava sovente occasione di riconferma e rafforzamento nelle dimensioni del sociale e del collettivo; ciò, ovviamente, precludeva ogni possibilità di attribuire al simbolo stesso significati diversi e meno spirituali.

Il presepe, simbolo dell’Evento per eccellenza, non poteva cioè ospitare messaggi secondari di natura politica o sociale, per quanto degni e urgenti, perché la sacralità del significato cui esso rimandava era tale da sollevare la rappresentazione della Natività al di sopra delle miserie del mondo, racchiudendola in un’aurea di santità impenetrabile alle faccende di questa terra.

O il Natale è al di sopra di tutto, o non è

Oggi, tuttavia, il processo di progressiva scristianizzazione ha ormai svuotato, agli occhi di molti, il Natale e i suoi riti del loro significato originario. Cionondimeno, essi rimangono, su di un piano simbolico, incredibilmente potenti, perché sedimentati nei ricordi d’infanzia di ciascuno di noi e nella cultura nazionale: nulla di sorprendente, dunque, se in molti hanno cercato di cogliere l’occasione per riempirli con significati nuovi, che si tratti dell’accoglienza e dell’antirazzismo piuttosto che della difesa delle tradizioni e degli stili di vita locali.

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Su questo punto, però, parafrasando don Giussani, credo sia necessario ribadire come non possa esistere un Natale che non ponga al centro Gesù, e lui solo. O Cristo era il figlio di Dio – e allora è bestemmia profanarne la nascita per fini terreni, non importa quanto nobili possano essere – oppure non lo era e tutto l’impianto del cristianesimo è solo una colossale bugia.

Quale che sia la verità, il Natale -con tutti i suoi simboli e suoi riti- non può ridursi a una banale festa della solidarietà o a una tradizione da preservare come il palio di Siena; o è il punto di svolta della storia, o è nulla.

La necessità di piegarlo a fini terreni appare il sintomo di una politica che, ormai priva di ideologia, è incapace di dare ragione delle proprie scelte inquadrandole entro una visione complessiva, tendenzialmente coerente, del mondo e della società.

La politica lasci stare il presepe e torni a parlare di politica

Se a sinistra si ritiene che si debba accogliere chiunque sbarchi sul suolo europeo, sarebbe legittimo attendersi una spiegazione dettagliata e razionale del modello di integrazione che si vorrebbe implementare, con una puntuale disamina delle prospettive occupazionali per autoctoni e immigrati nei prossimi trent’anni, e magari delle proposte chiare sulle modalità di ripartizione delle risorse pubbliche (che, come ormai ben sappiamo, non sono illimitate) per venire incontro alle necessità di entrambe le categorie. Al momento, invece, si sentono solo infiniti appelli all’emotività e al buon cuore delle persone, spesso corredati da immagini shock.

Se a destra, invece, ci viene detto che dobbiamo difendere le tradizioni e lo stile di vita del nostro continente, ci si dovrebbe aspettare una proposta articolata e lungimirante circa il modello di società che si vuole costruire (giacché preservare in toto l’esistente è, come insegna la storia, ovviamente impossibile); l’assenza di tale proposta difficilmente potrà essere compensata da una celebrazione continua e martellante di tutto ciò che abbia un vago retrogusto di tradizione.

Sarebbe più che auspicabile, a mio modesto parere, che la politica desse un segnale di maturità lasciando il Natale e ciò che vi ruota attorno all’ambito cui per sua natura esso appartiene: quello dell’intimità, del sacro, del rapporto personale con Dio e col prossimo. La nostra classe dirigente ha già abbastanza di cui occuparsi in questo mondo: ci dica cosa intende fare per migliorarlo, per sanarne le storture, anziché curarsi del nostro rapporto con l’aldilà.

Dove – sempre ammesso che esista – auspicabilmente non saranno le elezioni, né i sondaggi, a decidere dei nostri destini.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.