di Declan Leary

(Traduzione autorizzata da “The American Conservative”: originale)

Ai tempi del liceo, con un amico ero solito recarmi al più vicino “Chick-fil-A”, 60 miglia a nord, poco fuori Boston. S’andava direttamente là, consumavamo (sempre un “Number 1” con tè dolce) e immediatamente si riprendeva la strada per l’ora di viaggio di ritorno. Il pollo era piuttosto buono per trattarsi di fast food ma, di certo, non facevamo tutta quella strada solo per un pasto fritto in olio d’arachide anziché di canola. Andare da “Chick-fil-A” era un atto di ribellione, o almeno così appariva a noi giovani di destra.

Oltre a essere chiuso di domenica (già abbastanza per assicurarsi la nostra fedeltà), “Chick-fil-A” aveva preso (così ci raccontavano) posizione contro la militanza LGBT che aveva preso il sopravvento nel panorama commerciale. Ciò era in certa misura vero. Dan Cathy, amministratore delegato e figlio del fondatore (e devoto battista) della compagnia, aveva fatto commenti critici verso il matrimonio omosessuale; inoltre la fondazione caritatevole dell’azienda aveva destinato alcuni contributi a gruppi con opinioni cristiane “standard” sulla moralità sessuale.

Non durò a lungo. Malgrado un’enorme impennata nei profitti del 12% dopo che gli attivisti LGBT avevano imbastito una polemica contro la filantropia di Cathy (impennata verosimilmente provocata da conservatori e cristiani riconoscenti come me e il mio amico), “Chick-fil-A” e il suo denaro cambiarono presto orientamento. Già nei documenti fiscali del 2012 si leggeva che solo un gruppo d’ispirazione tradizionale aveva ricevuto una piccola donazione dalla fondazione. Entro il 2019 “Chick-fil-A” aveva infine epurato le ultime due organizzazioni “anti-gay” ancora sussidiate dall’azienda: l’Esercito della Salvezza e la Società degli Atleti Cristiani. In più Cathy ed altri dirigenti si erano ripetutamente prostrati in segno di contrizione, chiedendo perdono per aver permesso che i loro princìpi influenzassero il modo in cui spendevano il denaro e implorando l’assoluzione dagli accoliti dell’arcobaleno di mammona. Il “Chick-fil-A” sulla strada dell’ufficio di “The American Conservative”, qui a Washington D.C., per l’intero mese di giugno ha esposto un per nulla discreto richiamo al “Gay Pride“. Nel 2020 la compagnia ha dichiarato introiti record pari a 4,3 miliardi di dollari.

“Chick-fil-A” è una lezione su come non combattere il potere di mercato della Sinistra. Se cominci a combattere come un piccolo o medio attore societario con una base di consumatori di nicchia o regionale, che è tanto limitata quanto leale, non hai speranze di vittoria. Da un lato puoi abbandonare del tutto la battaglia economica: ammettere la sconfitta nell’arena più ampia, soddisfare la tua base pre-esistente e rassegnarti a un’esistenza da medio signorotto di un’economia ghettizzata (tipo Mike Lindell). Si tratta di un’esistenza non grama – “MyPillow” va abbastanza bene e altre compagnie che guardano a destra, come “Parler”, sembra trarranno discreti profitti nei prossimi anni. Dall’altro lato, puoi abbandonare la lotta morale: rinunciare ai tuoi princìpi e rendere omaggio alle potenti e moralmente coercitive autorità che dominano il mercato. Questo è ciò che ha fatto “Chick-fil-A” e sta pagando. (Sebbene il suo prolungato successo debba molto all’iniziale base di conservatori e a quanti si sono aggiunti all’epoca della controversia, ignari del tradimento o abbastanza sfiniti da capire che tanto nessun’altra compagnia sta dalla nostra parte).

E se ci fosse un’altra strada? Difficile credere che il fallimento di circa 70 milioni d’americani nel vedere le loro opinioni rappresentate sul mercato sia un risultato inevitabile della marcia del progresso e delle forze storiche, anziché lo scotto di una cattiva strategia.

Piuttosto che puntare su sconosciuti parvenu privi persino di fionde, dovremmo cercare di convertire Golia. Una migliore strategia per i consumatori e le aziende conservatori, che non implica né l’abbandono della competitività economica né la corruzione dei valori al servizio del mercato, può essere quella di “cooptare e trasformare il regime decadente dal suo interno”.

È importante distinguere tra i nostri amici e i nostri nemici – così almeno si sente dire. Dal momento che attualmente non abbiamo alcun amico nel panorama aziendale, è obbligatorio per il mondo conservatore farsene di nuovi: rivendicare come nostri marchi più potenti di “Chick-fil-A”, corteggiarli attivamente e quindi far dipendere il loro successo dai servizi alla base conservatrice, anziché dall’espansione al mainstream liberal mentre la fidelizzazione della minoranza conservatrice è data per scontata. Piantiamo una bandiera da qualche parte e diciamo: “Questo è nostro”.

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Io suggerisco di partire con “McDonald’s”.

Nel 2021 può valere la pena proporre un corollario di mercato alla Prima Legge di O’Sullivan (“Tutte le organizzazioni non veramente di destra diventeranno col tempo di sinistra”): tutte le società di capitali che non sono veramente di sinistra possono nel tempo diventare di destra. La logica è semplice: dato che tutte le evidenti pressioni spingono le aziende verso sinistra, ogni istituzione che non vi abbia ceduto deve possedere forti ragioni per non farlo. Mega-società come “McDonald’s”, che si sono generalmente tenute alla larga dall’attivismo politico e dalla “arcobalenizzazione”, sono beni immobili liberi per i consumatori conservatori. Ogni terreno non reclamato da loro può essere reclamato da noi.

L’amministratore delegato di “McDonald’s” ce lo sta praticamente dicendo. Uomo di famiglia cattolica il cui orientamento è oscuro quanto quello della compagnia che guida, Chris Kempczinski, subentrato come dirigente capo nel 2019, il mese scorso è stato oggetto d’un articolo del “New York Times”. Gran parte dell’intervista consisteva nel giornalista che assillava Kempczinski sul perché “McDonald’s” non avesse preso posizione contro la sicurezza elettorale o perché l’intero menù non fosse vegetale ecc. La risposta di Kempczinski era inequivocabile: “Il modo in cui affronto il lavoro oggi è: qualsiasi cosa il cliente voglia comprare”. Conduce gli affari con un ammirevole ethos democratico: anziché imporre la filosofia dell’élite sui consumatori, come la maggior parte delle moderne società fa, “McDonald’s” segue semplicemente la domanda popolare.

Ovviamente ci sono pericoli insiti in ciò (non ultima la proliferazione d’opzioni a buon mercato ma insalubri, che hanno un gran gusto quando sei preso all’amo). Ma c’è pure una preziosa opportunità: se “McDonald’s” davvero ci darà ciò che vogliamo, noi possiamo dirgli di cosa si tratta. Quanti dei suoi clienti sono lavoratori o del ceto medio, che votano repubblicano e vivono fuori dagli hub urbani? Azzarderei che siano almeno quanti quelli di “Chick-fil-A” e oltretutto più ampiamente distribuiti. C’è di più: “McDonald’s” è circa cinque volte più grande di “Chick-fil-A” per fatturato ma va contraendosi, mentre “Chick-fil-A” – alimentata da una nuova clientela di yuppie liberal che apprezzano l’alta qualità del cibo e hanno perdonato le passate deviazioni dall’ortodossia di sinistra – continua a crescere. “McDonald’s” ha bisogno di noi.

Una volta che i conservatori cominciano ad affermare la propria posizione con compagnie come quella – giganti a metà del guado che hanno giusto bisogno d’una spintarella (o d’uno spintone) verso destra – possiamo iniziare a esercitare pressione in favore dei nostri interessi. I boicottaggi ed altri strumenti d’influenza socio-economica non sono, e non possono essere, monopolio della Sinistra. Non abbiamo letteralmente nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Incoraggiamo “McDonald’s” – una vasta porzione della cui clientela vive nell’entroterra devastato dall’immorale predazione delle altre società – a localizzare le sue operazioni americane in America. Incoraggiamola a ritornare al vero sego bovino come grasso di frittura, in luogo dell’olio di canola. In prospettiva più ampia, assicuriamoci che la transizione a cibi più sani significhi focalizzarsi su carne e altri ingredienti davvero d’origine nazionale, anziché innovazioni verso soia piena d’estrogeni e altri finti surrogati. Domandiamo che i lavoratori americani (sottolineo americani) ricevano un giusto compenso e che i loro lavori non siano automatizzati fino alla cancellazione, con gran detrimento tanto della dignità umana quanto della prosperità sociale. (Su entrambi questi ultimi due punti Kempczinski già propende verso la giusta direzione).

Ci sono solo poche battaglie, nella più vasta guerra culturale, che sono combattute ogni giorno sul mercato americano. Questa guerra dev’essere combattuta e quasi tutti quelli che credevamo nostri alleati istituzionali ci hanno chiarito piuttosto bene di non volere avere nulla a che fare con noi, e men che meno con la nostra causa. Abbiamo bisogno di nuovi alleati che stiano al nostro fianco e di un nuovo stendardo da issare: preferisco certo gli archi dorati di “McDonald’s” all’arcobaleno.

Redattore associato di "The American Conservative". In precedenza è stato tirocinante a "National Review" e frequente contributore a "National Review Online" e "Crisis Magazine".