di Antonio Terrenzio

Parto per Minsk appena due settimane dopo i disordini seguiti alla rielezione di Alexander Lukashenko. Una scelta quanto minimo azzardata, per chi, come me, non fa il mestiere del reporter e sa i rischi di muoversi in un Paese di per sé chiuso, specie in un periodo dove la Bielorussia rischia di vivere una propria “Maidan“.

Arrivo in aereporto, presento il passaporto all’ufficiale di dogana e, dopo un paio di domande, mi viene indicato di accomodarmi. Poco dopo, un poliziotto mi chiama per nome e con un cenno mi invita a seguirlo in ufficio. Mi chiede il motivo del mio arrivo in Bielorussia e di aprire il mio zaino, ho con me un libro ed una rivista, mi chiedono anche di mostrare lo smartphone, imbarazzato dico all’ufficiale di non vedere le foto, gli ammicco: “We are all men”, scappa una risata tra di noi ed il clima di iniziale tensione svanisce immediamente.

Nella sala d’aspetto dell’aereoporto, c’è Yulia ad aspettarmi. Con la sua Rav4 dopo una ventina di minuti arriviamo in una zona residenziale ad ovest a cinque km della città, un complesso di case e di villette nuove e in costruzione. Vive in una di esse, con un giardino sul retro grande tre volte casa sua. Mi dice che lei ed il suo ex marito l’hanno costruita da poco tempo, la cucina è da completare e a qualche porta mancano gli infissi, ma per il resto c’è tutto: schermi digitali, frigorifero ed elettrodomestici ultima generazione. Yulia lavora come avvocato in una compagnia, guadagna 400 € al mese, ma per quello che vedo ha una casa che molti in Italia non potrebbero permettersi nemmeno col triplo dello stipendio.

Sono ospite da lei qualche giorno, e quando raggiungiamo il centro della città ci troviamo nella strada principale, Praspiekt Niezalieznasci, un’arteria lunga 15 km che attraversa la città e che arriva a “Piazza dell’indipendenza”, dove si trova anche la sede del parlamento bielorusso che nella notte del 9 agosto è stata teatro di violenti scontri tra i manifestanti e le forze di polizia, con diverse migliaia di arresti, decine di feriti ed anche due morti. Tuttavia l’atmosfera della città è calma, solo nel fine settimana si sentono suonare clacson e bandiere bianco e rosse appaiono in giro. Le strade e le vie sono pulitissime, non c’è una carta per terra, ci sono caffetterie elegantissime con prezzi bassi per noi europei; con mia sorpresa trovo una città tenuta molto meglio di una qualsiasi città italiana, perlomeno meridionale, e a tratti mi sembra addirittura di stare in una capitale scandinava, se non fossero presenti i palazzoni a “blocco“ tipici delle realtà ex sovietiche. Vedo una capitale sviluppata, estranea al degrado urbano che è protagonista nelle nostre città, dove a livello commerciale non manca niente, shopping center nuovissimi con negozi forniti delle ultimissime collezioni e tecnologie. L’high-tech è uno dei settori più in espansione. Da questo punto di vista, non si sente per nulla la mancanza dell’Occidente, nonostante Minsk sia una capitale di un Paese terra di mezzo tra UE e Russia che i media generalisti dipingono come sede della “ultima dittatura d’Europa”. Sono in un fortilizio antiliberale ma, nonostante qualche affinità architettonica, non si respira affatto aria di Corea del Nord.

Per quanto interesse susciti Minsk, il momento che vive il Paese è troppo importante per il suo destino e devo raccogliere le impressioni dei suoi abitanti su ciò che sta avvenendo, le loro aspettative e le loro paure. Continuo a girare per il centro della città e, seduto ad un caffè, per mia fortuna, incontro un diplomatico europeo e ne approfitto per chiedere cosa stia succedendo in Bielorussia. Ne nasce una breve intervista.

Io: So di essere qui in momento molto delicato del presente politico del Paese.

Diplomatico: Si, la notte seguente le elezioni la repressione della polizia è stata molto pesante, con migliaia di arresti e due morti. Anche del giornalista freelance italiano Locatelli per 48 ore non si sono avute notizie.

Quale è stato secondo lei il vero esito delle elezioni?

Lukashenko non ha vinto le elezioni, men che meno con l‘80%. Nelle città principali ha perso e forse fuori, nei centri minori, si è registrato un pareggio. La gente è stanca, i bielorussi sono un popolo disciplinato ma non sono stupidi, vogliono un paese con elezioni realmente democratiche e Lukashenko è al potere da 26 anni.

Crede ci possa essere il tentativo di esportare in Bielorussia una “rivoluzione colorata”, che l’UE e gli americani vogliano ripetere il “regime change“ organizzato a Kiev nel 2014?

Si tratta di propaganda di regime, gli americani non c’entrano nulla. No, i bielorussi ne sono consapevoli, non vogliono che succeda quello che è successo in Ucraina.

Nemmeno dai vicini baltici e dalla Polonia? Ho letto che sono stati individuati ed arrestati “agenti del disordine”.

Sì, qualcuno è stato individuato.

Come pensa possa evolvere la situazione nei prossimi giorni? Quali potrebbero essere le mosse di Lukashenko?

Lukashenko rifiuta ogni mediazione diplomatica da parte dell’UE, non risponde nemmeno alle telefonate della Merkel, parla solo con Putin. Ha dichiarato apertamente che lascerà il potere solo “in orizzontale”, per ora ha ancora l’appoggio dell’esercito e, se la situazione dovesse precipitare, potrebbero decidere di arrestarlo per il bene del Paese.

Pur tenendo in dovuta considerazione le informazioni rilasciatemi in un colloquio informale con la fonte diplomatica, le accetto con riserva e decido di raccogliere impressioni dai bielorussi, capire cosa davvero pensano della situazione politica che sta vivendo il loro Paese.

Yulia parla poco, anche a cena, mi dice di non interessarsi alla politica, ma io sono troppo insistente ed i miei discorsi tendono a strapparle una opinione. Le dico che Minsk mi sembra una città tenuta perfettamente e vedo un popolo sano, che vive in condizioni anche più dignitose di alcune realtà del mio Paese, e se lei vede un’alternativa a questa dittatura. Mi risponde che il problema è esattamente quello: non c’è un’alternativa credibile e probabilmente tutto il caos delle manifestazioni è stato generato dalla percentuale dei risultati elettorali. Se Lukashenko avesse vinto con un più credibile 50 o 60%, probabilmente non avrebbe sollevato questa ondata di proteste.

C’è un altro aspetto che vale la pena di riportare: in Bielorussia, così come nella “liberalissima” Svezia, non è stato applicato il lockdown ed il Presidente Lukashenko ha rifiutato un finanziamento di quasi 1 miliardo di euro da parte del FMI per attuare le misure anti-Covid. Qualcuno dice che in realtà i numeri veri dei contagi siano nascosti dal governo, ma qui girano senza mascherina, senza nessun obbligo o restrizione in spazi privati o pubblici, e vedo recuperare margini di libertà che in Italia sembrano ormai un privilegio.

La domenica seguente, un’altra manifestazione degli oppositori al regime di “Sasha” prenderà le strade centrali della capitale. Non posso mancare e, anche se mi viene consigliato di non stare in strada, devo approfittare dell’ultimo giorno per sentire gli umori ed i sentimenti dei bielorussi, raccogliere ancora opinioni. Dopo aver pranzato in un ristorantino con tavoli all’aperto, individuo una rappresentativa di sportivi, anche loro con bandiere bianco e rosse e tute delle rispettive discipline. Mi avvicino: due di loro sono professionisti che parlano anche italiano, dato che Yerog e Nikita hanno giocato nel nostro Paese. Non mi perdo in fronzoli e vado subito al dunque chiedendo al primo:

LEGGI ANCHE
Turchia: è crisi per Erdogan e il suo sogno neo-ottomano?

Io: Yerog, pensi sia una ‘velvet revolution‘?

Yerog: Forse…

Credi ci siano dei manovratori esterni che stiano cercando di far degenerare la protesta, da pacifica in violenta, come a Maidan?

È possibile ci siano delle pressioni esterne, non so dirtelo con sicurezza, ma la gente che vedi manifestare con noi lo fa spontaneamente, perché è stanca di un dittatore che crede di poter fare ciò che vuole, arrestare i leader dell’opposizione come Babariko e pensare che il Paese sia suo.

Cosa pensi dell’UE e degli americani? Volete entrare in Europa?

No, assolutamente, vogliamo essere un Paese democratico ed indipendente, libero di scegliere i propri rappresentanti. Vogliamo una Bielorussia indipendente tanto dall’UE quanto dalla Russia, in buoni rapporti con entrambi.

Io vedo un paese sviluppato, dove c’è tutto: si, i salari saranno bassi, ma in compenso tutto qui è pulitissimo e c’è sicurezza.

Mio padre dice che anche negli ospedali psichiatrici tutto è pulito ed in ordine.

Intanto il corteo dei manifestanti comincia ad ingrossarsi sempre di più e a muoversi: i due sportivi mi invitano ad unirmi a loro.

A comporlo sono soprattutto la generazione dei Millennials, quelli che non hanno vissuto il trauma delle privatizzazioni selvagge del periodo post-sovietico, il caos della shock economy subito dai loro genitori e che hanno travolto le repubbliche della CSI. Anche qui sembra profilarsi la tipica contrapposizione campagna/città: è nelle prime e nelle città secondarie che Lukashenko mantiene ancora una base di consenso forte, nella capitale invece, come d’altronde succede anche a Mosca, sono i giovani ad essere attratti dai valori occidentali, attratti dalle sirene della “società aperta”, mossi dal desiderio di cambiamento, di democrazia.

La folla è oceanica, non vedo né l’inizio né la fine del corteo.

Le parole di Yerog trovano conferma in ciò che vedo: la gente ha solo in mano i colori della bandiera bielorussa degli anni dell‘indipendenza ’91-’95, diventata simbolo degli antigovernativi: non ci sono né bandiere dell’Europa né a stelle e strisce. Ci muoviamo e raggiungiamo il “Museo nazionale della grande guerra patriottica”, dove un cordone di militari in tenuta antisommossa e dietro un filo spinato circonda la piazza antistante il museo. Uhadit (“vattene”) e Ziviot Belarus (“Viva la Bielorussia”), sono le parole scandite dai manifestanti.

Il corteo continua fin sotto la residenza presidenziale, dove un altro cordone della polizia nazionale bielorussa sbarra la strada con camion transennati. Per fortuna la folla è pacifica e non carica la polizia. Per ciò che vedo, solo “agenti del disordine” potrebbero far degenerare la protesta. I bielorussi sono un popolo omogeneo etnicamente e religiosamente, in più non esiste un “sentiment” né antirusso né antiputiniano: la folla è solo contro Lukashenko.

Come è ovvio, ciò che succede a Minsk allerta anche Mosca, che non può permettersi una seconda Maidan. Vladimir Putin e il ministro degli esteri Sergey Lavrov fanno sapere all’UE ed alla Merkel di “starne fuori” e che interferenze esterne non saranno tollerate, dato che la Bielorussia è legata alla Russia da un “trattato di sicurezza collettiva”. La Federazione Russa fa sapere senza giri di parole che si augura un soluzione pacifica ed ordinata delle proteste in Bielorussia, ma che non rinuncerà ad un intervento delle proprie forze militari per sedare tentativi di sobillazione esterna. Tentativi di destabilizzazione che vedono Merkel e UE accusare il Cremlino per l’avvelenamento di Navalny, la Polonia e i Baltici che premono, seguendo i propri interessi geopolitici ed economici, per una destabilizzazione della Bielorussia per indebolire la Russia. La Lituania ha già offerto ospitalità a Svetlana Tikhanovskaya, la leader dell’opposizione, che da Vilnius intima a Lukashenko di lasciare il mandato presidenziale.

Intervistata dal “Corriere della Sera”, alla domanda: “Lei sostiene di aver ottenuto la maggioranza dei voti. Come lo sa?”, risponde: “Non conosceremo mai le cifre reali, ma l’appoggio che la popolazione mi ha dimostrato è sotto gli occhi di tutti. Sappiamo di essere la maggioranza. È chiaro chi ha vinto e chi ha perso”. Nell’intervista via libera al consueto canovaccio sul dittatore brutto, sporco e sessista, che governa una Nazione maschilista, dove però tutte le donne sono emancipate ed hanno un lavoro.

Non poteva mancare la nostra Laura Boldrini, che è volata a Vilnius insieme alla deputata del PD Quartapelle per spingere la candidata dell’opposizione bielorussa ad autoproclamarsi presidente. Invito respinto, dato che la leader dell’opposizione, con un azzardo del genere, potrebbe complicare la crisi del suo Paese, e per non irritare troppo Mosca, pivot determinante nell’eventualità di un post-Lukashenko.

Il quadro bielorusso resta molto fluido. Putin rimane l’unico interlocutore di Lukashenko, l’uomo dal quale possono dipendere le uniche sue chances di sopravvivenza politica. Proprio la mancanza realistica di alternative potrebbe essere l’unica decisiva carta spendibile dal Presidente bielorusso, per evitare quella che, al netto della spontaneità delle manifestazioni di dissenso, potrebbe facilmente rifluire verso una “rivoluzione dei fiori” stile “Otpor”, con la “marcia delle donne” a rappresentare l’avanguardia di una rivoluzione liberal-liberista. Tuttavia, le aperture al dialogo con la Russia come mediatrice, la mancata applicazione delle sanzioni UE, devono aver portato la leader a cercare una via morbida con Putin, consigliata probabilmente dall’entrata in scena del vicesegretario Stephen Biegun dell’amministrazione Trump nella mediazione tra il Cremlino e Lukashenko. Gli Usa, in cambio di un sostegno di Mosca alla fine dell’ordine lukashenkiano, darebbero garanzie al Cremlino sul futuro allineamento di Minsk.

Le misure del regime bielorusso si fanno più rigide, con la chiusura del Paese all’ingresso di 19 giornalisti della BBC e della più alta carica del Vaticano in Bielorussia, l’arcivescovo Tadeusz Kondrusiewich, accusato di fomentare le rivolte con la complicità di Varsavia. Forte è la diffidenza verso la Tikanovskaya e le sue emuli come la Tsepkalo, perché ricordano un film che abbiamo già visto in Ucraina.

Dopo il mio viaggio in un Paese che ha fatto passi da gigante dalla caduta dell’impero sovietico e dove tutt’oggi c’è un livello medio di reddito pro capite doppio rispetto all’Ucraina e di vita superiore alla stessa Federazione Russa, dopo aver visto con i miei occhi un Paese dove le persone hanno una vita più che dignitosa, provo più comprensione per i timori e i dubbi di Yulia rispetto a un “dopo” che rimane pieno di incognite, e i cui sviluppi potrebbero essere molto simili alle tante rivoluzioni colorate viste nelle varie repubbliche ex-sovietiche.

Lascio la Bielorussia con la consapevolezza che la sua crisi politica possieda elementi di destabilizzazione potenzialmente molto più esplosivi di quelli vissuti in Ucraina nel 2014, e che determinanti per il suo futuro saranno le rassicurazioni che riuscirà ad ottenere il Cremlino.

+ post
Imprenditore, laureato in Scienze Politiche (UNINT) con Master di I livello in International relations with Eastern countries (Università di Macerata); laureando magistrale in Relazioni internazionali (Università Cusano)