di Vincenzo Pacifici

Il terzo volume, quello finale, della Enciclopedia dei Papi, apparso nel 2000, viene naturalmente concluso dalla “voce”, relativa al pontefice allora regnante, Giovanni Paolo II, nato a Wadovice il 18 maggio 1920, scomparso poi il 2 aprile 2005.

Il curatore, assai lontano per autorevolezza scientifica dagli autori dei contributi relativi ai papi dello stesso XX secolo (Malgeri, Guasco, De Rosa, Margiotta Broglio, Traniello e Vian), è l’allora direttore editoriale della “Enciclopedia Italiana”, già redattore della sezione di Storia moderna (non quella contemporanea !), Massimo Bray, poi nel 2013 deputato del Partito Democratico e per 10 mesi (aprile 2013 – febbraio 2014) ministro ai Beni culturali nell’effimero governo Letta.

Nelle 14 pagine della “voce” sono raccolte ed utilizzate in numerosi passaggi considerazioni squisitamente settarie, deformate con valutazioni politicamente partigiane. È accusato, valga come primo esempio saliente, da pulpiti velenosi ed acrimoniosi, “di ignorare i profondi cambiamenti intervenuti nella società e di ingerenza nella sfera politica e sociale di singoli Stati”. Sono state individuate da autori assolutamente ignoti in lui una contestazione sostanziale del Concilio Vaticano II e “una scarsa apertura verso il mondo attuale”. Infine, come culmine incredibile, sono state denunziate in lui posizioni ereticali, tali da creare “una frattura tra la vita quotidiana dei fedeli e la dottrina ufficiale della Chiesa”. Sicuramente per il dott. Bray le 176 delegazioni presenti, le 1866 autorità istituzionali intervenute ai funerali celebrati il 9 aprile 2005 ed il milione e 400 mila fedeli a varcare le porte della Basilica hanno onorato il nulla o alla meglio un uomo equivoco e discutibile!

Per passare a pagine assai più nette, chiare e, si consenta, serene, non inquinate da incancellabile livore sinistrorso, nel volume di interviste Memoria e identità, apparso nel 2005, e nel saggio del padre carmelitano scalzo Aldino Cazzago, Giovanni Paolo II. “Ama gli altri popoli come il tuo”, presentato nel 2013, vengono raccolte le riflessioni di Wojtyla sulla nazione e sulla patria.

Queste analisi e queste valutazioni, da tesaurizzare anche per il mondo degli anni Venti del XXI secolo, sono espresse nelle encicliche pubblicate e nelle omelie pronunziate a partire da quella del 2 giugno 1979, in occasione del pellegrinaggio apostolico nella “Patria” polacca. Per il non ancora sessantenne Pastore universale, “la storia della Nazione merita un’adeguata valutazione secondo il contributo che essa ha portato allo sviluppo dell’uomo e dell’umanità, all’intelletto, al cuore, alla coscienza. Questa è la più profonda corrente di cultura, Ed è il suo più solido sostegno. Il suo midollo, la sua forza”.

Subito appresso sottolinea e rafforza il concetto in una visione reale, non parziale e principalmente non artificiale: “Se è giusto capire la storia della nazione attraverso l’uomo, ogni uomo di questa nazione, allora contemporaneamente non si può comprendere l’uomo al di fuori di questa comunità che è la nazione. È naturale che essa non sia l’unica comunità, tuttavia è una comunità particolare, forse la più intimamente legata alla famiglia, la più importante per la storia spirituale dell’uomo”.

Arriva il porro unum: “Non è quindi possibile capire senza Cristo la storia della Nazione polacca – di questa grande millenaria comunità – che così profondamente decide di me e di ognuno di noi”. Manifesta il desiderio di inginocchiarsi presso la tomba del Milite Ignoto “per venerare ciascun seme che cadendo in terra e morendo in essa porta frutto”. Conclude, impegnandosi in una preghiera, indelebile e imperdibile anche per il 2020: “E grido, io, figlio di terra polacca e insieme Giovanni Paolo II Papa, grido da tutto il profondo di questo millennio, grido alla vigilia di Pentecoste: Scenda il tuo Spirito!”.

Due anni più tardi, nella lettera enciclica Laborem exercens, presentata il 14 settembre 1981, Giovanni Paolo II guarda a “quella grande società, alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società – anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione – è non soltanto la grande “educatrice” di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione) ma è anche una grande incarnazione storica e sociale di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo”.

Nella Centesimus annus, promulgata nel centenario della Rerum Novarum il 1° maggio 1991, il pontefice non deflette minimamente dal suo magistero ideale, avvertendo che “le culture delle diverse Nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell’esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle Nazioni”.

Di grandissimo rilievo storico e morale è il messaggio, indirizzato da Giovanni Paolo II all’assemblea generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del 50° di fondazione, il 5 ottobre 1995. Non a caso cita Benedetto XV, che il 28 luglio 1915 ricordava a tutti che “le nazioni non muoiono” e sollecitava “a ponderare con serena coscienza i diritti e le aspirazioni dei popoli”.

Traccia il percorso/compito definitivo, inalterabile, avvertendo che “la storia dimostra che in circostanze estreme (come quelle che si sono viste nella terra in cui sono nato) è proprio la sua stessa cultura che permette ad una nazione di sopravvivere alla perdita della propria indipendenza politica ed economica. Ogni nazione ha conseguentemente anche diritto di modellare la propria vita secondo le proprie tradizioni […]. Ogni nazione ha il diritto di costruire il proprio futuro provvedendo alle generazioni più giovani un’appropriata educazione”.

Seguendo linee sostanzialmente più realistiche e quindi assai diverse da quelle del successore argentino, Giovanni Paolo II, il 9 ottobre 1998, nel discorso ai partecipanti al IV congresso mondiale, promosso dal Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, ribadisce che “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria. Questo diritto tuttavia diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. È individuato il nodo, quello della patria, irriso ed ignorato, che crea infiniti problemi , di fronte al quale le soluzioni sono state, a differenza di quelle indicate dal Santo polacco, superficiali, banali e demagogiche.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.