Nel momento in cui la pandemia da coronavirus è al suo apice al di qua e al di là dell’oceano, una volta di più e nella maniera più definitiva vengono alla luce le reali intenzioni dei governi sulle questioni bioetiche.
È il caso dell’aborto. A inizio marzo, il nostro Ministero della Salute ha diramato una circolare che elenca le tipologie di intervento chirurgico “non urgenti”, quindi non garantite e procastinabili. Tra queste figurano gli interventi ortopedici, oculistici, in alcuni casi anche oncologici. Differite anche prestazioni come le vaccinazioni, i prelievi del sangue, gli esami della vista per la patente, gli screening di primo livello. Rimangono aperti i punti nascita, salvo indicazioni da parte di aziende sanitarie che, in alcuni casi, hanno accorpato alcune strutture. Ciò che invece è sempre consentito è l’aborto, sia esso in day hospital o farmacologico. Dal momento in cui la legge 194 consente di interrompere la gravidanza non oltre la 12° settimana, gli aborti sono procastinabili entro quel termine, ma rientrano comunque tra le prestazioni urgenti.
In parte simile è lo scenario in altri paesi. In Inghilterra si è andati a un passo dal legalizzare l’aborto “casalingo”, per mezzo della pillola Ru486, mentre negli USA, vista la saturazione degli ospedali, le lobby anti-vita si stanno prodigando per rendere possibile l’aborto da casa, attraverso la “telemedicina”, con medici che, a mezzo webcam, indirizzano le gestanti riguardo alla ‘corretta’ somministrazione della stessa Ru486. È proprio negli USA, del resto, che, in almeno due Stati, si segnalano le restrizioni più importanti. In Texas, il procuratore generale Ken Paxton ha stabilito che, a causa della “accresciuta domanda di posti letto” e della “scarsità di attrezzature protettive (mascherine, tute, caschi, ecc., ndr)” provocate dall’espansione del coronavirus, si rende necessario “posporre interventi e procedure che non siano immediatamente necessari”, in modo da dare priorità ai pazienti affetti da Covid-19. Tra tali prestazioni sanitarie non urgenti, Paxton menziona esplicitamente “ogni tipo di aborto che non sia medicalmente necessario a preservare la vita o la salute della madre”. La trasgressione di quanto disposto, conclude il procuratore generale texano, comporterà sanzioni pecuniarie fino a 1000 dollari o 180 giorni di reclusione. Una decisione che, com’era prevedibile, ha scatenato l’ira del colosso abortista Planned Parenthood, i cui dirigenti texani hanno dichiarato: “Come riconosciuto da medici specialisti, l’aborto è una procedura medica condizionata dal tempo. Un ritardo di 30 giorni, o anche meno, può rendere l’aborto completamente inaccessibile”.
Un provvedimento simile a quello del Texas è stato adottato alcuni giorni prima in Ohio, uno degli Stati dove lo scorso anno è stata adottata una legislazione restrittiva all’aborto, diventato praticabile soltanto prima della sesta settimana, ovvero prima della possibilità di rilevare il primo battito cardiaco del feto. Ciononostante, i consultori di Planned Parenthood hanno riferito che continueranno a praticare aborti, sfidando così il rischio di sanzioni. Il terzo Stato che verosimilmente limiterà l’accesso all’aborto durante l’emergenza sanitaria è il Mississippi, il cui governatore Tate Reeves lo ha incluso tra i servizi “non essenziali”. Reeves ha promesso che metterà in atto “qualunque azione necessaria per proteggere le vite non solo dei bambini non ancora nati ma anche la vita di chiunque possa contrarre questo particolare virus”. Come l’Ohio, anche il Mississippi ha recentemente approvato una restrizione dell’aborto entro la sesta settimana.
A mostrare segni di insofferenza non sono soltanto le lobby abortiste ma anche i movimenti lgbt loro contigui. Né è la conferma il j’accuse lanciato da “Vice”, in un articolo dal titolo emblematico: As Hospitals Prepare for COVID-19, Life-Saving Trans Surgeries Are Delayed. La nota rivista ultra-liberal denuncia il rinvio o l’annullamento degli interventi per il cambio di sesso in molti paesi (vengono citati USA, Regno Unito, Spagna, Thailandia), nella misura in cui gli ospedali sono completamente assorbiti dall’emergenza coronavirus. Secondo “Vice”, i mancati interventi rischiano di procurare “enorme stress e delusione” tra le persone transgender in lista d’attesa – di cui la rivista riporta alcune testimonianze – poiché questo tipo di chirurgia avrebbe “un notevole impatto a lungo termine sulla salute mentale” di chi vi si sottopone. Ulteriori rinvii, dunque, potrebbero rivelarsi “dannosi” e persino in grado di “mettere a repentaglio la vita” degli stessi transgender.
Tornando all’aborto, il dato significativo che emerge dalle due scelte – quella dell’Italia e quella dei tre Stati americani citati – è nel modo in cui la stessa identica emergenza possa portare ad esiti completamente antitetici. Non c’è nulla di deterministico o di inevitabile né nell’opzione italiana, né in quella texana, al netto delle eventuali pressioni ricevute dalle lobby. Da ciò emerge un’altra evidenza stupefacente: salvare la vita ai bambini non ancora nati non è affatto incompatibile con il salvare la vita ai malati di coronavirus. La tutela di ogni vita è un gioco a somma positiva e, in questo specifico caso, permette anche un notevole risparmio di risorse sanitarie: a nostro avviso si tratta dell’unica forma di spending review eticamente ammissibile nell’economia dell’emergenza in corso.
Luca Marcolivio è giornalista professionista free lance.
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