La situazione della penetrazione cinese in Africa è sotto gli occhi di tutti: grandi investimenti, progetti infrastrutturali faraonici, ma anche una capillare diffusione di piccole imprese commerciali locali che stanno penetrando nel tessuto intimo dei paesi africani. Un piano astuto, che potremmo definire machiavellico, per ottenere le risorse essenziali per l’industria nel III millennio in un mondo che ha perso la sua bipolarità e si avvia verso un futuro incerto, minato da pressioni demografiche e da una sempre maggiore monopolizzazione delle risorse, fattori che vanno a confermare il trend ipotizzato da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilisations?.

Dietro questa espansione in Africa traspare un disegno ben preciso. La popolazione cinese si avvicina oggi a più di un miliardo e 430 milioni di persone, una pressione che richiede sempre più materiali per la sua sopravvivenza. L’Africa offre diamanti, petrolio ma anche le terre rare, necessarie per l’industria elettronica, che sono la vera sfida del futuro. Pechino ha compreso che più della metà dei giacimenti mondiali delle terre rare si trova in Africa e che il loro monopolio darà un’arma economica senza eguali alle industrie cinesi che, di fatto, potrebbero strangolare gli approvvigionamenti industriali di molti Paesi occidentali. Secondo i Cinesi, l’Africa è un mercato interessante dove i governi locali, alla ricerca di investimenti stranieri, cercano una via nuova per sfuggire alle condizioni imposte dalle istituzioni industriali e finanziarie occidentali. Come sottolineato da alcuni osservatori occidentali, la penetrazione di Pechino nel continente nero potrebbe essere vista come un neocolonialismo che si innesca in maniera sottile sulle ceneri mai sopite delle vecchie gestioni.

In Paesi economicamente fragili, la penetrazione della piccola industria asiatica, con la vendita di oggetti di basso costo e valore, ha modificato le meccaniche commerciali, indebolendo ancor più quelle indigene ed aumentando la disoccupazione. Fonte di preoccupazione è il forte indebitamento dei Paesi, di fatto in crescita costante e senza speranza di recupero. Secondo la China-Africa Research Initiative della John Hopkins University, il debito accumulato dai Paesi africani nei confronti della Cina, dal 2000 al 2016, ammonta a 124 miliardi di dollari. Questo viene visto come un modo per portare i Paesi africani verso l’insolvenza per poi acquisirne in toto le risorse strategiche.

Da anni il Dragone rosso investe in silenzio, da un lato creando posti di lavoro e costruendo ospedali e scuole, dall’altro alimentando governi talvolta “corrotti”, di fatto ignorando la tutela e la dignità dei lavoratori ed il degrado ambientale connesso alle attività delle sue imprese su un territorio che tutto sommato non è il loro. Sembrerebbe esistere un disinteresse delle autorità africane che guardano al “poco ma subito”, con una popolazione disillusa di poter cambiare in maniera democratica lo status quo in cui convivono modernità, superstizioni ataviche, corruzione e poteri locali. Questo spiega l’ascesa machiavellica della Cina comunista come attore geopolitico in un teatro in cui una ristretta classe detiene ancora il potere con la complicità di gruppi di potere transnazionali ed ora cinesi.

Non c’è da meravigliarsi che questa situazione favorisca lo spostamento di masse eterogenee verso l’Occidente, un mix di migranti economici che cercano aree di impiego ma anche di gruppi criminali che intravedono nuove possibilità di espansione, al di fuori dei loro Paesi di origine che stanno lentamente mutando sotto gli effetti della cinesizzazione. L’impegno cinese fu ribadito dal presidente Xi Jinping già nel 2013, quando dichiarò che la Cina avrebbe avuto voce in capitolo sullo sviluppo africano nei prossimi decenni. Un’attenzione che non passò inosservata alle potenze occidentali, preoccupate per l’effetto a lungo termine di una strategia geopolitica così grandiosa. Nel 2015, il piano cinese di investire 60 miliardi di dollari per lo sviluppo africano fu dichiarato pubblicamente. Un processo iniziato nel 2006 con la firma da parte dell’ex presidente Hu Jintao di un accordo di esportazione di petrolio, che permise alla China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) di diventare l’attore principale nel mercato locale. Il piano cinese comprese la costruzione di porti e aeroporti per facilitare il trasferimento delle materie prime verso la Cina ed i prodotti lavorati verso ovest.

Nel 2017 fu inaugurata la prima ferrovia internazionale elettrica del continente africano, costata più di 4 miliardi di dollari. Oltre 700 chilometri di rete che collegano Addis-Abeba con la Repubblica di Gibuti, un Paese piccolo ma estremamente strategico in quanto il suo piccolo porto commerciale (destinato a crescere) è divenuto un importante hub tra il Sudest asiatico ed il Canale di Suez. Qui i Cinesi hanno realizzato la loro prima base militare all’estero per il supporto di una task force navale cinese nel Golfo di Aden che consiste in due fregate lanciamissili e una nave di rifornimento e circa 700 militari tra cui squadre di rapido intervento delle forze speciali. Ma non solo. La Cina, oltre alla nuova base navale, sta finanziando progetti infrastrutturali per completare i collegamenti da Gibuti ai mercati chiave della vicina Etiopia.

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Di fatto Gibuti è uno degli anelli della via della seta, della One Belt One Road, un progetto transcontinentale di trasporti e servizi che attraverserà numerosi Paesi in via di sviluppo, dal Pakistan allo Sri Lanka, dal Kazakistan all’India, fino al continente africano. Gibuti, un territorio depresso, pressoché desertico, privo di risorse naturali è diventata la prima base operativa di coordinamento tra la madre patria e l’Africa. Un porto in cui convoglieranno le vie commerciali terrestri vitali per il trasferimento dei materiali necessari all’industria cinese. Una piccola task force navale cinese vi si è già installata e, come vedremo, non è che l’inizio. La protezione degli interessi marittimi cinesi va dall’area delle risorse minerarie al petrolio fino alla pesca condotta in maniera eccessiva (overfishing) nelle acque della Namibia, che segue la depredazione, non solo da parte dei cinesi, di quelle somale. Commerci spregiudicati che distruggono le economie locali e favoriscono lo sviluppo di criminalità locali (traffici illeciti, contrabbando e pirateria). Non a caso la Cina ha recentemente esordito come potenza marittima d’oltremare inviando un gruppo navale in missione anti-pirateria per contrastare gli attacchi dei corsari somali alle navi da trasporto che ha in Gibuti un’importante base navale di supporto. La nuova e moderna flotta militare cinese avrà quindi il compito, oltre quello di proteggere il traffico nelle acque territoriali allargate (nine-dash lines), di sorvegliare le rotte strategiche dell’approvvigionamento energetico verso e dall’Africa.

La lotta dei clan africani, in certe aree ancora in corso, ha favorito negli ultimi cento anni conflitti interni sanguinosi, innescando flussi migratori umanitari e, più recentemente, soprattutto economici. Le popolazioni, non avendo forse ancora maturato il concetto di nazione, rifuggono il desiderio di cercare una stabilità locale e migrano verso aree che i mass media mostrano più appetibili. In realtà molti ricercano un paradiso dove trovare una collocazione più dignitosa a costo zero, senza alcun programma di vita. Questa migrazione non sembra turbare più di tanto gli investitori cinesi, vista la grande quantità di mano d’opera a poco prezzo sul mercato, e si possono quindi permettere di perpetuare i loro progetti senza preoccuparsi troppo delle condizioni di lavoro nei cantieri che hanno comportato e comportano un alto costo in termini di vite umane. Nonostante le denunce internazionali dello sfruttamento della popolazione locale, la risposta cinese fu l’emissione asettica di una guida di comportamento etico per le società cinesi che operano all’estero. Ben poca cosa se si pensa che le piccole industrie cinesi operano sulla base del profitto in un ambiente in cui non hanno di fatto avversari. Questo comporta che il disagio sociale non sembra risolversi ma acuirsi. Per assurdo, il flusso migratorio verso l’Europa da molte regioni della Africa nera è in qualche modo facilitato da questa situazione: gli africani subiscono un maggiore sfruttamento, la distruzione delle già limitate economie interne sostituite dalle piccole attività commerciali cinesi, e un aumento della miseria delle fasce più povere, fattore che favorisce quindi la migrazione delle masse verso l’Occidente. In compenso si assiste ad una immigrazione cinese importante. Significativo il dato che siano migrati in Africa più Cinesi negli ultimi dieci anni che Europei negli ultimi 400; in particolare in Nigeria vivono oggi più Cinesi di quanti Inglesi durante il periodo dell’Impero Britannico.

In sintesi, la Cina sta perpetuando una sottile politica di affermazione in Africa attraverso la penetrazione nel tessuto economico e politico del continente nero. L’impegno finanziario cinese fa parte di una sottile strategia di controllo e sfruttamento delle risorse locali attraverso una complessa rete commerciale basata su hub terrestri e marittimi per il controllo delle rotte verso la madre patria. Al fine di garantire la sicurezza dei suoi traffici commerciali Pechino sta sviluppando una flotta marittima di eccellenza, mettendo in atto un efficiente sea control delle vie marittime lungo la One Belt One Road. Ciò comporterà una sempre maggiore competizione economica con l’Occidente che, in assenza di unità di intenti, dovrà accettare il nuovo mercato economico, subendo lo sviluppo di situazioni di instabilità locali sia a livello terroristico che criminale, e, non ultimo, un aumento dei fenomeni migratori delle popolazioni più povere verso l’Europa. Tutti fattori destabilizzanti delle economie occidentali che sono a tutto vantaggio del Dragone rosso.


Andrea Mucedola, Contrammiraglio (ris.), è direttore di “Ocean4future”. Una versione ampliata di quest’articolo può essere letta cliccando qui.